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Dare tutto se stesso e non ricevere nulla: il mistero della eterogeneità dei risultati

di Francesco Lamendola - 05/01/2009


 

Dopo quello del male - di cui ci siamo più volte occupati, anche di recente - il mistero delle eterogeneità dei risultati dell'agire umano è, probabilmente, quello che maggiormente ci interroga, ci sconcerta e ci sfida; quello che più ci lascia amareggiati e svuotati - almeno nella misura in cui non riusciamo ad elaborare una risposta adeguata.
Come avviene che, proprio là dove ci sembra di avere dato il massimo, non solo del nostro tempo, della nostra pazienza, della nostra affettività, talvolta non raccogliamo assolutamente niente, se non delusioni e sofferenze?
Come avviene che, proprio là dove ci siamo impegnati con la parte migliore di noi, dove abbiamo vinto il nostro egoismo per aprirci alla generosità disinteressata, siamo talvolta ripagati con l'indifferenza o, peggio, la cattiveria?
E come è possibile che, dopo esserci spesi senza risparmio, dopo aver investito le nostre energie e aver sacrificato i nostri interessi, le nostre ambizioni, la nostra pace per qualcuno o per qualcosa, ci ritroviamo, poi, con un pugno di mosche in mano, esausti, gettati in un angolo come su fa con gli  stracci che non servono più a nulla?
Di fatto, questa è una delle esperienze più amare che la vita ci può riservare; e vi sono persone che tale esperienza hanno fatto non una volta sola, ma più e più volte: per ritrovarsi, alla fine, non solo prostrate fisicamente e spiritualmente, ma anche talmente ferite, da aver smarrito per sempre la fiducia negli esseri umani - e anche in se stesse.
La vita, si sa - è una verità persino banale - non fa sconti a nessuno e riserva delusioni e sofferenze secondo una logica che a volte ci appare bizzarra, per non dire incomprensibile. Sicché a persone che paiono costantemente baciate dalla fortuna - al punto che, anche quando cadono, cadono sempre in piedi - se ne contrappongono altre la cui vita è tutta, per così dire, intessuta di dure prove, di angosce, di sofferenze crudeli.
Qui, però, non parliamo di questo, bensì del misterioso disegno che sembra quasi giocare con noi, compiacendosi di vanificare i nostri sforzi più intensi e generosi, annullando in pochi attimi ciò che avevamo costruito, o creduto di costruire, in anni di dedizione assoluta; mentre, per converso, sembra che ci siano individui i quali - per usare una nota espressione evangelica - pretendono anche là dove non hanno depositato e raccolgono anche là dove non hanno seminato (cfr. il Vangelo di Luca, 19, 22).
C'è un senso in questa apparente contraddizione? E se sì, quale?

Innanzitutto, non pretendiamo di poter spiegare questo mistero in se stesso, da un punto di vista filosofico: esso supera, e di molto, le umane possibilità di comprensione; possiamo, però, tentar di ricavarne un insegnamento a livello pratico, nella nostra concreta esperienza esistenziale, orientandoci - come dicono i naviganti - a vista.
E, in primo luogo, sgombriamo il campo dalle erbacce di certo psicologismo a buon mercato, oggi fin troppo di moda, in base al quale fare certe esperienze deludenti, e - più ancora - reiterarle, è sempre e comunque indice di una personalità nevrotica, insicura e afflitta da spiccate tendenze masochiste.
Tutto ciò sarà vero per un certo numero di casi, ma non può spiegarli tutti, né presentarsi con la cogenza di una legge indiscutibile; o meglio, lo può solo fra i discepoli di Sigmund Freud, abituati a trovare che ogni eccezione conferma la regola della loro infallibile religione.
A volte, invece, le persone che più sono capaci di donare, sono anche quelle che maggiormente rimangono deluse: e non perché, inconsciamente, cercassero il martirio o l'autolesionismo, ma semplicemente perché hanno un cuore grande e sensibile e non sono capaci di stare a guardare la sofferenza altrui, ma istintivamente volano al soccorso del prossimo e farebbero qualsiasi cosa per alleviarne il disagio e per vederlo sollevato e rasserenato.
Ci sono delle persone le quali, istintivamente, desiderano il bene del prossimo: non vogliamo dire che non possa entrarci una piccola parte di gratificazione personale, magari anche solo per la soddisfazione morale del dovere compiuto; neghiamo però recisamente che l'interesse personale sia l'unica o la principale molla di ogni azione umana, sempre e comunque.
Questo è quanto le filosofie della modernità - razionalismo, pragmatismo, utilitarismo, materialismo - vorrebbero farci credere: perché, avendo un'idea assai piccola e meschina dell'uomo, vorrebbero persuadere tutti che nessuno è capace di agire se non per il conseguimento del proprio interesse, del proprio piacere e del proprio utile. E, sebbene sia vero che questa filosofia, continuamente ripetuta e veicolata anche dai mezzi di comunicazione di massa, sempre più sta prendendo piede nella società odierna, nondimeno esistono ancora individui nei quali - sia per una disposizione naturale, sia per l'educazione ricevuta - la benevolenza disinteressata e il desiderio di veder realizzato il bene dei propri simili costituiscono un aspetto essenziale della personalità.
Ebbene, sono proprio queste persone ad essere maggiormente esposte alla delusione dell'insuccesso totale: così nel campo professionale, come in quello sociale e, non da ultimo, in quello dei sentimenti e degli affetti privati.
Vi sono, ad esempio, genitori che si impegnano al massimo per crescere i propri figli nel migliore dei modi, trasmettendo loro solidi valori e retti principi; e che poi si trovano a vivere il dramma di assistere non solo al rifiuto totale dei valori trasmessi, ma anche all'autodistruzione, materiale e morale, di quei figli tanto teneramente amati e seguiti. E non si tratta, necessariamente, di genitori i quali abbiano ecceduto né in indulgenza e, come si sul dire, in permissivismo, né che abbiano  esagerato, all'opposto, in severità e intransigenza. A volte si tratta di genitori che, obiettivamente parlando, non hanno proprio nulla da rimproverarsi, in quanto hanno cercato di agire con fermezz,  ma anche con senso della misura, con dolcezza, con sollecitudine, senza mai trascurare il buon esempio che, come è noto, vale più di mille insegnamenti verbali ("verba movent, exempla trahunt", dicevano giustamente i romani).
Oppure si prenda il caso di una persona innamorata di un'altra, la quale manifesti disordini del comportamento, tendenze alla depressione, difficoltà a relazionarsi con il prossimo; immaginiamo che quella persona si prodighi per donare all'amato (o all'amata) tutta la serenità, tutta la comprensione, in una parola, tutto l'amore possibile, in modo da farla sentire accettata, apprezzata, valorizzata; e che in questo sforzo essa sacrifichi senza esitazioni i suoi anni migliori, le sue forze più intatte, in una parola: il meglio di se stessa. Certo, l'innamorato non è mai, alla lettera, completamente  disinteressato; pure, poniamo il caso che, in un certo numero di situazioni, si verifichi il rapporto fra due esseri umani che più si avvicina all'amore puro e disinteressato; nel quale, cioè, la componente di interesse (se così vogliamo chiamarla: ma è una definizione comunque inadeguata, perché non si tratta di un calcolo freddamente pianificato a tavolino) sia ridotta a una misura insignificante o, comunque, decisamente secondaria rispetto all'amore "puro", nel senso di gratuito.
Ebbene, non tutte le favole hanno il lieto fine e può succedere benissimo che questa persona di animo nobile e di elevato sentire si ritrovi, alla fine di tutti i suoi sforzi, con un pugno di mosche in mano; che la persona da lei amata non solo non manifesti gratitudine per tutto quanto ha ricevuto, ma che, pur avendo realizzato notevoli progressi in fatto di benessere psicologico e di sicurezza affettiva, decida di donare il proprio amore al primo animo vile che le si presenti, conquistata - poniamo - da un aspetto fisico seducente e da simili circostanze esteriori, senza più degnare nemmeno di un pensiero colui o colei che tanto si è dato da fare per aiutarla, quando ne aveva disperatamente bisogno. (Una situazione del genere è rappresentata in parecchie opere letterarie, ad esempio nel romanzo di Scott Fitzgerald «Tenera è la notte»; ma anche, su un piano più drammatico e legato al rapporto tra genitori e figli, nel «Re Lear» di Shakespeare). Qui, lo si ammetterà, c'è qualche cosa di più della semplice ingratitudine: qui sembra esserci quasi una cattiveria deliberata, una perversa volontà di ricambiare il bene ricevuto con altrettanto male.
E allora?
Come si spiegano tali situazioni, che senso hanno, come debbono essere interpretate?
Lo ripetiamo: non si spiegano, perché non si possono spiegare.
Si può, tuttavia, riflettere su di esse, e cercar di capire se le si debba considerare una sorta di beffa del destino o se anch'esse, in qualche misteriosa maniera, non possano far parte di una complessa trama esistenziale il cui scopo ultimo è pur sempre benefico.
Si tratta, quindi, come è facile vedere, di un aspetto particolare di una questione di portata generale: se, cioè, la vita umana sia abbandonata al gioco incostante e mutevole della casualità, oppure se i tasselli di cui è composta, una volta ordinati nel modo giusto, non lascino apparire un disegno complessivo che, nella sua essenza, è pur sempre buono e benefico, per quanto possa non apparire tale a uno sguardo che si ferma in superficie.
Ne abbiamo già parlato in alcuni precedenti lavori e, in particolare, nel recente articolo «Ogni uomo, nella sua notte, se ne va verso la sua luce» (sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice); per cui ci limiteremo, qui, a una riflessione intorno all'oggetto specifico del tema ci eravamo posto: ossia l'eterogeneità dei risultati, che talvolta è veramente abissale, rispetto alla buona volontà di  coloro i quali si sono impegnati senza risparmio al servizio di una causa, di un'idea, o anche, semplicemente, della felicità di un altro essere umano.
Il problema, in altri termini, è il seguente: le nostre buone azioni, nelle quali abbiamo investito tanta parte di noi stessi, sono talvolta destinate ad andare interamente perdute, sì che nulla ne resti, se non cenere e polvere?
La prima cosa che ci sembra necessario evidenziare è che, forse, in una buona parte di tali situazioni, se la nostra vista fosse più acuta di quella che è, potremmo verificare che la mancanza di risultati è solo apparente e temporanea. Accade, cioè, che il buon seme cada nel terreno, ma germogli sono a distanza di tempo, a volte di molti anni: però germoglia; e germoglia grazie al buon seminatore che ha arato la terra e che l'ha coltivata con amore, abnegazione e spirito di sacrificio. Sicché quest'ultimo non vedrà i risultati, o dovrà attendere a lungo prima di poterli vedere: e tuttavia essi verranno, e premieranno la sua fatica e la sua tenacia.
Ritorniamo al caso del genitore che si prodiga per crescere bene il proprio figlio, e del figlio che non sembra accogliere nessuno dei buoni insegnamenti e dei buoni esempi ricevuti; che rattrista,  anzi, con il suo comportamento disordinato e distruttivo, la vita del proprio genitore, e proprio negli anni della vecchiaia, quando questi avrebbe maggior bisogno di serenità. Ebbene: può succedere - e, di fatto, succede - che i buoni esempi e i buoni insegnamenti ricevuti non vadano persi, ma diano frutto sono dopo moltissimo tempo; che quel ragazzo, diventato adulto, salvi la propria vita dal disordine e dalla distruttività appunto grazie a quanto aveva ricevuto, in maniera apparentemente infruttuosa, tanti anni prima.
Tuttavia - anche questo è un fatto - non sempre ciò accade, almeno a quanto si può giudicare a viste umane. Ci sono proprio dei casi nei quali il buon seme non dà frutto, né domani, né mai; nei quali, anzi, la buona azione si ritorce contro colui che l'ha compiuta, e nei quali, insomma, pare proprio che trionfino l'ingratitudine e l'ingiustizia.
Si noti che, dal punto di vista di colui che è rimasto amaramente deluso nella propria generosità, il problema si presenta sotto un duplice aspetto: affettivo e morale. Affettivo, perché nella buona azione sono stati investiti tesori di sentimento; etico, perché l'apparente vanificazione del bene offende e ferisce non solo l'affettività e l'amor proprio, ma anche il nostro innato sentimento di giustizia.
Che dire quando si verificano tali circostanze?
Omero ha rappresentato un caso emblematico: quello di Calipso, che, nell'«Odissea», riceve l'ordine divino di lasciar ripartire Ulisse alla volta della sua Itaca. Tutta l'amarezza e lo sconforto della dea, innamoratasi di un mortale, erompono da queste parole (V, 130-36; traduzione di Rosa Calzecchi Onesti):

«Ma io lo salvai, ch'era solo, aggrappato alla chiglia,
poiché l'agile nave col fulmine abbagliante
Zeus gli aveva colpita e infranta nel livido mare.
E tutti gli altri perirono, i suoi forti compagni,
lui il vento e l'onda, spingendolo, gettarono qui.
E io lo raccolsi, lo nutrii, e promettevo
di farlo immortale e senza vecchiezza per sempre».

Calipso - così come Didone con Enea - ha amato Ulisse d'un amore totale: lo ha salvato, lo ha accudito, lo ha protetto; per poi vederselo togliere dall'invidia dei celesti (o del Fato), e rimanere sola e abbandonata a tormentarsi nei dolci ricordi.
Interpretare il senso di tali situazioni è difficile: perché, se esse sono dolorose sul piano umano, in quanto comportano una ferita dei sentimenti, ancor più sono angoscianti dal punto di vista morale, perché sembrano attestare che nessun ordine benevolo governa il mondo. Altrimenti, come è possibile che l'amore e la virtù non siano premiati, mentre - viceversa - si assiste di frequente allo spettacolo dell'apparente trionfo del male?
Insomma, non è solo il cuore spezzato di Calipso o di Didone ad interrogarci su questo mistero; è anche lo sgomento susseguente all'intuizione che, forse, non esiste alcuna provvidenza, e che tutte le cose umane sono lasciate all'arbitrio di un caso imprevedibile e capriccioso.
Ebbene, a ciò crediamo si possa rispondere che l'insuccesso, lo scacco, il fallimento, sono prove utili e, forse, indispensabili, per migliorare se stessi; che sono la condizione necessaria - non, peraltro, sufficiente - affinché noi siamo spronati a compiere quel salto di qualità che ci renda capaci di agire in maniera etica del tutto indipendentemente da ogni residuo di interesse personale, affrancati in modo definitivo dalla speranza della ricompensa.
Solo quando ci si innalza ad un tale livello - cosa obiettivamente non facile - si comincia a comprendere che la provvidenza esiste, ma non agisce sempre nel modo che noi ci aspetteremmo, giudicando le situazioni da un punto di vista puramente umano. Solo quando si è giunti a una tale altezza o, almeno, quando ci si è avvicinati ad essa, si comincia a capire che molte perdite sono un guadagno e che molti guadagni apparenti sono, in realtà, una perdita. Oppure che sono, nel migliore dei casi, una pericolosa tentazione: una tentazione per il nostro orgoglio, per la nostra pigrizia, per la nostra superficialità.
Ma, per arrivare a simili altezze, bisogna capovolgere la prospettiva del finito e del contingente, e rovesciare il nostro abituale modo di giudicare. Solo quando si è divenuti molto deboli, fragili, sconfitti, si può iniziare a sgombrare il campo da quel senso di attaccamento alle cose che ci rende, appunto, così vulnerabili; solo quando si è compiuto un atto di fiducia totale nell'armonia dell'ordine cosmico, si può vedere la ricchezza nella povertà e la vittoria nella sconfitta.
Sono conquiste difficili, lo ripetiamo: e tuttavia possibili. Così, forse, lo scacco e la delusione non sono pietre d'inciampo, che una sorte maligna ha disseminato sul nostro cammino esistenziale, quasi  per godere delle nostre cadute; ma sono altrettanti gradini di una scala che ha lo scopo di portarci verso l'alto, verso l'aria pura ed i limpidi orizzonti.
Nietzsche spingeva questo concetto fino al punto di affermare che alle persone cui voleva bene non poteva che augurare delusioni, sofferenze, incomprensione e solitudine: perché solo per mezzo di tali prove l'anima si fortifica e si purifica. Nietzsche - che era uno spirito molto più religioso di quanto generalmente non si creda - aveva detto una cosa terribile, ma profonda e, in ultima analisi, vera; né, poi, sostanzialmente  dissimile dal concetto cristiano della vittoria mediante la Croce.
Ecco perché il buon seme non va perduto: mai, mai, mai; anche se può sembrare vero il contrario.