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La merce nei polmoni

di Judith Levine - 05/01/2009

 

 


Credi ci siano due tipi di politiche, entrambe necessarie e desiderabili. Quella della liberazione e del piacere, come per la liberazione sessuale o la conquista di più tempo libero, e la politica del limite, come nel caso dell’ambientalismo. Consumo e ambiente sono i due poli di una tensione che non passerà e che deve trovare equilibri progressivi

Secondo una delle più autorevoli organizzazioni di sondaggi, la Pew Research, quest'anno il 60% degli americani sembrano intenzionati a tagliare sulle spese natalizie, poiché considerano la propria situazione finanziaria appena sopportabile o pessima. Con alle spalle i giorni del crollo finanziario di settembre e all'orizzonte drastici tagli occupazionali e il possibile crack delle carte di credito, non c'è da stupirsi se lo shopping festivo non sarà brillante come nel passato. Sobrietà, semplicità, rigore, risparmio, sono parole d'ordine che non appartengono più a sparute minoranze di militanti anticonsumisti, come E movimento Voluntary Simplicity e altri simili, ma in modo molto meno volontario sono diventati comportamenti di massa. E tuttavia, proprio nel giorno dopo Thanksgiving, (giornata record dei consumi e in grado di riportare «in nero» i bilanci di molti negozi e grandi magazzini), si è verificato un assalto alle merci che ha mostrato aspetti da passione, fino a sfoghi di aggressività e di violenza. A New York c'è stato un commesso morto travolto dai clienti di un WalMart, a Los Angeles e in altre aree del paese si sono segnalate gigantesche risse per assicurarsi prodotti a prezzo di saldo.

Merce e passione, anche Co ancora di più) in tempi di crisi. Per cercare di dipanare questo groviglio abbiamo parlato con Judith Levine, giornalista, scrittrice e attivista femminista e progressista. Ha scritto un libro sugli effetti nefasti del neopuritanesimo sessuale sull'educazione dei bambini. Ma è balzata alle cronache tre anni fa quando è uscito il suo libro Not Buying ItMy Year Wìthout Shopping (in Italia lo non compro, ed. Ponte alle Grazie, 2006). È il diario di un arino durante il quale Judith e il suo compagno Paul hanno deciso di non comprare nulla, a eccezione dello stretto necessario per vivere.

Comprare o non comprare, che cosa comprare, il consumo privato e quello pubblico, il piacere e il quantum di liberatorio che sta nell'atto del consumare. Sono nodi che hanno a che fare non solo con la vita di tutti noi individui, ma anche con la possibilità di immaginare diversi assetti di vivere comune e persino scelte politiche nuove. E che non saranno senza influenza sulle scelte del nuovo Presidente. Ne abbiamo parlato per telefono nei giorni scorsi con Judith Levine.

La sua esperienza di nonconsumo e il suo libro risalgono a trequattro anni fa. I termini del discorso sul consumo sono cambiati, alla luce della crisi economica, finanziaria ed immobiliare ?

Sì, forse i termini sono cambiati e forse sta iniziando a cambiare una cultura. È una combinazione di crisi finanziaria e del monumentale cambiamento politico che è avvenuto negli Stati Uniti con il voto di novembre e l'elezione di Barack Obama. Chiaramente la crisi sta generando nella gente paura rispetto alle sicurezze future e ha seminato dubbi sulla saggezza dei fondamentalisti del mercato che sostenevano che i mercati, purché assolutamente privi di controlli, avrebbero portato al benessere per tutti. Adesso ci si rende conto che a star male non sono solo quelli al fondo e a metà della scala sociale, come è successo negli ultimi otto anni, ma anche quelli che stanno in cima. Ma il radicale cambiamento culturale, di cui forse stiamo vedendo l'inizio, e che è in qualche modo emblematico nell'elezione di Obama, è che forse non possiamo e non vogliamo rendere merce assolutamente tutto, compresa la nostra propria identità. C'è qualcos'altro oltre alla «cultura della proprietà» che importa agli americani. Forse non ci sono altre parti del mondo dove il consumo è l'alfa e l'omega di ogni attività umana come è successo qui in America. Adesso forse lentamente ci stiamo muovendo verso una comprensione più ampia di quello di cui abbiamo bisogno come individui e come comunità.

Anche da noi nel pieno della crisi finanziaria il primo ministro Berlusconi, come fece Bush dopo l'11 settembre, ha invitato gli Italiani a mostrare il proprio patriottismo spendendo e consumando»

È una grossa contraddizione. Molti leader politici continuano a suonare l'allarme dicendo che se non consumiamo abbastanza la nostra economia collasserà. Abbiamo un 'economia che si basa sul consumo, i due terzi del Pil Usa dipendono dalla spesa dei consumatori. In questo senso c'è una verità nell'appello al consumo per salvare l'economia. Al tempo stesso c'è il riconoscimento che il consumo aldilà dei propri mezzi e l'indebitamento ci spinge sempre più nel buco nero della crisi. E questo senza neppure considerare l'impatto ambientale dell'iperconsumismo. È un'economia che per essere sana ha bisogno di crescere e crescere, ma questo è terribile per chi ha pochi mezzi economici, per le famiglie e per la salute del pianeta. Quindi presto credo che si debba cambiare strada.

Nel corso del suo «annosenzaacquisti» lei ha incontrato militanti del movimento cosiddetto della Semplicità Volontaria, che probabilmente oggi si sentono profeti di una verità inascoltata. Allo stesso tempo per la grande maggioranza degli americani sembra si stia avvicinando un periodo non breve di Semplicità Involontaria con la fonata riduzione dei consumi. Come reagirà questa maggioranza?

 È verissimo. Se si perde il lavoro non si può più andare in giro a far shopping. Persino in comunità affluenti la gente sta perdendo la casa. Ogni strato sociale dovrà rallentare le spese. E a differenza che in altri periodi recessivi, qui abbiamo la chiusura completa del credito al consumo. Sì, sarà davvero «semplicità involontaria». appartenenti ai movimenti di Simple Living diranno che la nostra peccaminosa avidità ci ha portato alla rovina. Lei sa che non è quello che penso io.

Nei suo libro c'è una riflessione su questo aspetto duplice del consumo. I mali del consumismo privato, ma anche la decadenza del consumo pubblico, di quello che, lei scrive, «dà alla gente il senso della comunità»...

Sì, le infrastrutture, strade, ponti, che sono in una condizione pietosa e forse con la nuova amministrazione democratica vedremo un reinvestimento nei beni pubblici, il che vorrà dire inevitabilmente che la gente dovrà pagare tasse più alte. Quindi ci saranno decisioni politiche di investire in infrastrutture cadenti per rinnovarle: episodi come il crollo del ponti di Minneapolis stanno diventando generalizzate. Ma non è solo questo: un effetto importante della spesa pubblica è che la gente condivide delle cose, può uscire dal suo piccolo mondo domestico. Io faccio l'esempio delle piscine pubbliche. Uno può costruirsi la piscina dietro casa o pagare un po' più tasse e avere una piscina municipale dove i bambini possono andare con gli amici e do ve i genitori possono anche lasciare i bambini per qualche ora in cura agli amici e fare qualcos'altro. È un beneficio sociale, non un sentimento, ma una realtà. Si scopre che si hanno responsabilità sociali, ma anche ricompense sociali, cosa a cui si è prestata pochissima attenzione di recente

Questi temi erano in qualche modo presenti nella campagna elettorale di Obama.

Sì ed è questo che ha aiutato a mobilitare milioni di volontari è far arrivare decine di migliaia di piccoli contributi finanziari alla campagna. Era l'idea che si poteva fare finalmente qualcosa insieme e che non c'era bisogno per questo di essere ricchi o potenti. È quello che dovrebbe essere la politica, far qualche cosa insieme.

Negli ultimi giorni della campagna McCain ha tentato di dipingere Obama come uno che avrebbe aumentato le tasse per spendere di più. Il fallimento di questo messaggio mostra un cambio di tendenza?

Credo che sia un cambiamento importante. La maggioranza degli americani oggi sì dice disposto a pagare più tasse per avere servizi come l'assistenza sanitaria. È l'idea che il governo può fare qualcosa. Un rovesciamento del credo reaganiano.

Tornando al consumo, lei sottolinea l'ambiguità e la profondità del nostro rapporto con la merce e con il consumare. E che il consumo non è necessariamente incompatìbile con il cambiamento sociale: il piacere del consumo può essere liberatorio ed è grave, lei dice, che la sinistra abbia abbandonato le utopie del benessere per tutti, lasciando vivere solo utopie di «castità sociale» come quelle degli integralisti anticonsumisti. Può spiegarci il suo pensiero?

Non so se «liberatorio» sia il termine giusto, parlando del consumo.il consumo può però aiutare ad espandere aspetti libertari. Ad esempio, la sessualità. Anch'essa è stata in larga misura «commercializzata», dagli accessori sessuali alla pornografia, agli indumenti intimi, massaggi, prostituzione. Tutte queste possono essere viste come forme di mercificazione, di commercializzazione della sessualità. Io non credo che ci sia nulla di fondamentalmente immorale, come non credo che l'uso di droghe per espandere la mente lo sia. Quindi il consumo non è antiteti­co a liberazione. È vero che ha l'aspetto di legarci alle cose, ma solo nel senso che per consuma­re ci vogliono soldi e che per averli devi dedicare tempo. E il tempo libero è una delle libertà fondamentali. Il mio problema con le ideologie anticonsumiste è che nascono dal senso di colpa, dall'autoflagellazione e dal giudicare.

Io penso che nessun movimen­to politico la cui motivazione principale sia quella di farti senti­re male rispetto a te stesso abbia qualche possibilità di successo, e poi sono contraria a usare la colpa come motivatore politico. Questo non vuol dire che non abbiamo responsabilità e che non dobbiamo porci lìmiti. Cre­do ci siano due tipi di politiche, entrambe necessarie e desidera­bili. La prima è quella della libe­razione e del piacere, come quel­la della liberazione sessuale o della conquista di più tempo li­bero. L'altra è la politica del limi­te, come nel caso dell'ambienta­lismo. Questa è una tensione che nelle democrazie è sempre stata presente, è la tensione tra individuo e collettività. Consu­mo e ambiente sono i due poli di una tensione che non passerà e che deve trovare equilibri pro­gressivi. Il pendolo nel passato recente era andato dalla parte della libertà individuale, con ele­menti di intervento pubblico so­lo sul piano repressivo e securitario, in sostanza, sbattere gente in prigione o mettere il naso nel­le sue scelte sessuali. Io non so dove si deve tracciare una linea, non ho risposte. Ma mi piacereb­be veder espandere il lato del piacere aldilà del consumo, do­ve finora è stato limitato e vorrei vedere il lato dei limiti prestare più attenzione al consumo.

Intervista di Andrea Rocco a Judith Levine (*)

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Ludith Levine •statunitense, vive tra Brooklyn e una casa nelle montagne del Vermont, è giornalista, scrittrice e attivista femminista e progressista. È stata tra le fondatrici del Sindacato Nazionale Scrittori e direttrice del «National Center for Reason and Justice» e della sezione del Vermont della «American Civil Liberties Union». Ha scritto un libro sugli effetti nefasti del neopuritanesimo sessuale sull'educazione dei bambini. Ma è balzata alle cronache tre anni fa quando è uscito il suo libro Not Buying ItMy Year Without Shopping (uscito in Italia come lo non compro, ed. Ponte alle Grazie, 2006). È il diario di un anno durante il quale Judith e il suo compagno Paul hanno deciso di non comprare nulla, ad eccezione delle cose strettamente necessarie per vivere. Un racconto anche molto divertente, che si distingue dalla sterminata letteratura Usa dei «personal accounts», delle storie vissute in prima persona, per l'acutezza delle osservazioni e per la profondità delle implicazioni dell'esperienza. Judith Levine collabora a Harper's Bazaar, Village Voice, Salon ed è editorialista del settimanale del Vermont Seven Days per il quale scrive una rubrica sul ruolo delle emozioni in politica.