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L’eros letterario come (esplicita) allusione

di Alessandro Puma - 05/01/2009

 



“…è un problema interessante: in che
modo un rapporto vaginale è più eccitante
di uno,che so, con un posacenere, o con
l’angolo tra due pareti?”
J.G.Ballard, La mostra delle atrocità


    Nell’immenso e variegato panorama letterario di ogni tempo e paese, il ruolo esercitato dall’eros o dalla pornografia stricto sensu nell’economia del testo scritto, è sempre stato fondamentale e, nel caso di opere come il “Satyricon” di Petronio arbitro o delle “Mille e una notte”, d’autore sconosciuto – in cui la dilazione dell’atto sessuale, prima, e della morte, poi, dà adito a tutta una sterminata e complessa novellistica – si rivela addirittura fondante.
Mi sembra piuttosto superfluo ricordare come uno dei primi documenti letterari – se non il primo – scritti in volgare, in Italia, paragonasse metaforicamente lo scrivere sul foglio bianco (e quindi vergine) con l’atto di lavorare, cioè arare la terra; atto dunque sessuale per eccellenza, nel momento in cui si penetra la madre terra e vi si immette il seme che porterà nuovi frutti.
L’eros, in molti romanzi anche ‘canonici’, svolge solitamente una funzione catartica ed esplicativa del testo stesso, oltre ad essere tramite, metonimicamente, di altro, anzi del tutt’altro.
Come afferma William Burroughs, infatti, “…le radici non sessuali della sessualità (devono essere) esplorate con una precisione chirurgica”, senza contare i riferimenti eterogenei che, specie nella letteratura psicanalitica e surrealista, possono intercorrere tra elementi disparati come uova, occhi, vulva, seni e testicoli.*
Esaminando un testo “classico” come La ciociara di Moravia, infatti, scopriamo che la scena più drammatica – efficacemente resa anche nel film di De Sica con Sophia Loren – cioè lo stupro della figlia diciottenne della protagonista, si rivela, nonostante avvenga quasi verso la fine del romanzo, non soltanto epifanica, ma indispensabile per capire il senso dell’opera stessa.
Come scriveva lo stesso Moravia il 24 dicembre 1956 – ultimata la stesura definitiva – all’editore Valentino Bompiani, lo stupro sarebbe stato “il titolo più appropriato”, e “manifestava (anzi) – come ci fa sapere Enzo Golino – “una intenzione metaforica totalizzante nel suggerire un titolo che ampliasse il concetto di stupro, e cioè Lo stupro d’Italia. Non più una violenza carnale limitata al personaggio della diciottenne che la subisce, ma uno stupro generalizzato che si abbatte sul corpo di una collettività, sull’identità di una nazione fino a stravolgere realtà fisiche e mentali: distruttivo esito di una guerra combattuta anche da eserciti stranieri sul suolo patrio”.
Ma la funzione destabilizzante, cioè altra, del sesso, nel romanzo è data “dall’ossessione di Cesira – la ciociara – per il denaro, del valore di scambio che anche un essere umano possiede se può vantare, come Rosetta – la figlia mia d’oro di Cesira – un trofeo di virtù (cioè la sua verginità). “Del resto”, continua ancora Golino, “insieme alle sue grazie fisiche Cesira elenca il nutrito corredo, i coralli, gli oggetti d’oro, l’arredamento del quartierino: quasi una protesi preziosa del suo corpo. Un fenomeno di alienante pornografia mentale piccolo-borghese, certo in buona fede, che tutto riduce al godimento dell’Avere deprezzando il principio dell’Essere.”
Ed è sempre un oggetto, “uno dei più convenzionali emblemi dello spaccio erotico […], simbolo dei soldi dell’amore” ad illuminare in un’epifania negativa la figlia, alla fine del romanzo: un reggicalze nere con tanti nastri regalato a Rosetta dal primo occasionale amante che le è capitato d’incontrare dopo la tragedia, e che si dimostra rivelatore della trasformazione avvenuta nella figlia.
E’ questo reggicalze “provocante e vizioso” che fa sì che nella figlia, agli occhi di Cesira, le cosce parevano troppo bianche, troppo biondo il pelo, troppo ridondanti le natiche, troppo sporgente il ventre, rendendola anche nel viso, per la sua espressione cupida, assorta e guardinga, in tutto e per tutto simile ad una donna di malaffare.
Un altro testo “classico moderno” in cui il sesso colpisce per il modo in cui viene – allusivamente o metaforicamente – esplicitato è lo splendido non-romanzo di Calvino: “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, basato, fra l’altro, su una miscellanea di altri romanzi inventati dall’autore per poter palesare l’impossibilità di accedere totalmente ad un unico testo scritto, realizzando così un unicum nel panorama della letteratura italiana post-moderna, solitamente intrisa, specie al giorno d’oggi, di un minimalismo sciatto e volgare.
Il capitolo – o romanzo – interno intitolato ‘Senza temere il vento e la vertigine’ tratta di una storia d’amore e guerra, nel bel mezzo di un periodo di grandi sconvolgimenti politici in un non ben precisato paese dell’Europa dell’est, che vede coinvolti due ragazzi – un militare e un diplomatico – e una popolana guerrafondaia, in realtà una spia sotto mentite spoglie, in maniera molto simile a ‘The dreamers’, l’ultimo film dell’immenso Bertolucci. Qui però è la ragazza, Irina, a condurre il gioco e a manipolare, tramite il sesso, i due maschi.
Ecco, riportata qui di seguito, la mirabile capacità di Calvino di esplicitare – senza descriverle mai concretamente – le scene di sesso, che risultano essere al tempo stesso brutali ed evanescenti:
Sono due teste di serpente che Irina afferra con ambe le mani, e che reagiscono alla sua stretta esasperando la propria attitudine alla penetrazione rettilinea, mentre lei pretendeva al contrario che il massimo di forza contenuta corrispondesse a una duttilità di rettile che si pieghi a raggiungerla in contorcimenti impossibili. […] – Giù, - diceva Irina e la sua mano premeva la testa di Valeriano all’occipite, affondando le dita nei capelli lanosi d’un color rosso stoppa del giovane economista, senza lasciare che sollevasse il viso all’altezza del suo grembo, - giù ancora! – e intanto guardava me con occhi di diamante, e voleva che io guardassi, voleva che i nostri sguardi procedessero anch’essi per vie serpentine e continue.
Con il terzo autore preso qui in esame, James Graham Ballard, ci accostiamo, nella sua opera visionaria e surrealista “Crash”, ad una vera e propria forma di deviazione patologica dalla normalità (ma bisognerebbe capire prima che cos’è effettivamente la normalità, specie in materia di sesso), che ci rende partecipi del fatto che, sempre secondo le parole di Burroughs, un incidente d’auto può essere sessualmente più stimolante di un’immagine pornografica.
E’ in questo scrittore inglese, infatti, vero e proprio continuatore dei dettami del Surrealismo, che riusciamo a trovare la più alta forma di denuncia – che non sfocia mai in retorica – delle nuove forme di perversione, non soltanto quella tra sesso e macchina, che la nostra società ipertecnologica e vuota ci impone, a seguito della morte della Tradizione.**
Seguiamo Ballard nella sua capacità di rendere accessibile la dimensione eteroclita del sesso come e più degli altri autori presi in esame:
Per Vaughan, scontro automobilistico e sessualità si erano uniti in un matrimonio definitivo. […] Per lui, ogni auto schiantata era causa di un tremore d’eccitazione: eccitazione per le complesse geometrie di un paraurti ammaccato, per le variazioni inattese di una griglia del radiatore schiacciata, per la grottesca sporgenza di un pannello di strumentazione contro l’inguine d’un guidatore, simile a un calibrato atto di fellatio meccanica. […] Visualizzava gli scontri speciali di criminali evasi, e quelli di ricevitrici d’albergo fuori servizio intrappolate tra i volanti e i grembi degli amanti da esse masturbati.
Secondo questa logica ogni gesto, anche il più comune, diventa il segno di un codice segreto che non ha altro scopo all’infuori di quello di ribadire l’irrazionalità del mondo:
I chirurghi, dal canto loro, avrebbero potuto tagliarsi spensieratamente prima delle prime incisioni, le mogli mormorare casualmente i nomi degli amanti nel momento dell’orgasmo dei mariti, la puttana succhiante il pene del cliente morder via, senza animosità, un cerchiolino di tessuto dalla curvatura superiore del glande.
Tutto questo perché si è ormai indifferenti a qualunque cosa, anche alla morte, considerata unicamente come attrattiva per sfuggire alla noia:
....il finto cordoglio di Catherine non era che la stilizzazione di un gesto – e m’aspettavo di vederla erompere in una canzone, battersi la fronte, girare per il reparto a toccare, una si una no, le tabelle della temperatura, accendere una cuffia radiofonica ogni quattro...
Infine persino la naturalità dell’atto sessuale risulta, in qualche modo, degradata, resa cioè innaturale e posticcia:
Seduta con i calcagni sotto le natiche, la ragazza aprì le cosce a esporre il piccolo triangolo pubico, labbra aperte e sporgenti […]  Poi, allungate le gambe, lui  ruotò su se stesso fino a poggiare le anche sul bordo del sedile, e, reggendosi sul gomito sinistro, continuò a lavorarsi nella mano di lei, come se stesse partecipando a una danza dalle positure severamente stilizzate – una danza intesa a celebrare disegno ed elettronica, velocità e direzione d’un tipo avanzato di automobile. […] Le sue anche battevano contro la ragazza, il pene affondava nella vagina, le mani allargavano le natiche a offrirne l’ano alla luce gialla che invadeva la macchina.
Giunto alla conclusione di questi miei rapidi ‘excursus’ sulla possibilità estraniante del sesso in letteratura, mi rendo conto che forse l’alterità che, partendo da se stessa, può offrire la sessualità in un’opera d’arte è proprio quella connessa alla politica, qui non indagata, poiché, come afferma sempre Ballard: “In un certo senso, la pornografia è la forma narrativa a più alto contenuto politico, poiché tratta, nella più insistita e crudele delle forme, del nostro reciproco sfruttamento.”

 

Bibliografia

“La ciociara” di A. Moravia, ed.Bompiani.
“Se una notte d’inverno un viaggiatore” di I. Calvino, Arnoldo Mondadori editore per “La biblioteca di Repubblica” sez. Novecento, 2002.
“Crash” di J.G.Ballard, Fabbri ed. per “La biblioteca del brivido”, ’94.
“La mostra delle atrocità”  Bompiani editore, ’99.
“Alias”, supplemento de “Il manifesto”, speciale Talpalibri, 2 agosto 2003.

                               
Note aggiuntive

*Mi riferisco, ovviamente, oltre che al mai troppo citato “Storia dell’occhio” di Bataille e a certi accostamenti arditi di S. Dalì – come quello da lui realizzato negli anni Sessanta per la rivista “Vogue” in cui la sua musa Amanda Lear, impersonando santa Lucia, regge davanti a sè un piatto dove sono posate due mezze uova sode come simulacro degli occhi della santa – anche a tutta quella simbologia psicanalitica per la quale oggetti convessi o di offesa come armi da fuoco etc. sono da considerare simboli “fallici” e viceversa, oggetti concavi o atti a contenere, simboli uterini.
Per quanto riguarda la simbologia degli accostamenti eterocliti, invece, dove non compare alcuna similitudine tra gli oggetti presi in esame – procedimento di cui si è appropriato un certo surrealismo, ma che non nasce esplicitamente come surrealista – i massimi divulgatori si possono annoverare, oltre che allo stesso Bataille, tra Ballard (appunto) De Chirico e Magritte. Questo procedimento, che meriterebbe una trattazione a parte e che è alla base, fra l’altro, del ragionamento dei malati schizofrenici, analizzato anche da Deleuze, fa la sua prima comparsa nell’arte con i “Canti di Maldoror” di Ducasse comte de Lautrèamont, nei cui versi si declama la bellezza dell’incontro fortuito “di un ombrello e di una macchina da cucire su un tavolo operatorio”.
** Ballard la chiama “morte del sentimento”.