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“Crash” ovvero per un’antropologia dell’oscenità

di Alessandro Puma - 05/01/2009


Ancor oggi la visionarietà dirompente del capolavoro ossessivo – e semiautobiografico – di James Ballard, “Crash”, continua a far discutere. Si tratta indubbiamente di un’opera notevole (che, quando fu proposta nei primi anni ’70 ad una casa editrice britannica dal suo autore, fu bollata come l’opera di un pericoloso squilibrato) e che mette un po’ in ombra altre produzioni ballardiane, contigue temporalmente, come “Il condominio” e “L’isola di cemento” ed altre più recenti – che da quelle derivano – come “Cocaine nights” e “Rushing to paradise”, caratterizzate da tematiche forse ancora più inquietanti.
Ballard, com’è noto, è stato il caposcuola – intorno ai primi anni ’60 – di un modo radicalmente innovativo di fare fantascienza (genere all’interno del quale si è formato) ed ha influito, assieme a Pynchon, Vonnegut e Dick sul cosiddetto ‘Cyberpunk’, i cui esponenti, però, Gibson in testa, non sono stati finora all’altezza dei loro maestri.
Nello specifico, la rivoluzione apportata da Ballard, fu quella, genialmente semplice, di indagare il cosiddetto inner space di contro al classico outer space, cioè di focalizzare l’intero processo euristico della scrittura nella disamina degli ‘spazi interni’ del corpo e della psiche dell’uomo a contatto con il nuovo ambiente tecnologico, freddo, deprivante e psicopatologico del XX° (e ormai XXI°) secolo.
Ciò ha inevitabilmente portato alla ‘trasfigurazione’ della fantascienza in Surrealismo, poiché quello che più conta, da questo punto di vista, non è più l’impressione che suscita in noi la scoperta improvvisa di un remoto pianeta della galassia (si pensi, infatti, alla scomparsa di un sottogenere come la ‘space opera’), ma la percezione – e la sua conseguente azione di ‘riconfigurazione’ dei procedimenti psichici del nostro cervello – che ci viene data nell’osservare i prodotti tipici della nostra società.
Si verifica in tal modo un’attenzione, malata e ossessiva (e quindi pienamente antropologica, nel suo studio comportamentale umano), nei riguardi delle infinite distanze siderali che separano, in una casa, una parete dall’altra (“L’enorme spazio”); nei rapporti che possono intercorrere tra un atto sessuale e un incidente automobilistico (“Crash”); sull’ossessione che possono nutrire gli autistici e gli ebefrenici nei confronti del Presidente Reagan e della terza guerra mondiale (“La mostra delle atrocità”); sulla ‘lotta di classe’ applicata ai piani di un condominio ipertecnologico (“Il condominio”); e ancora sui resoconti “mitologizzati” dei viaggi degli ‘Shuttle’ da Cape Canaveral, sulla televisione come nuova divinità dell’era mediatica, sul crimine come risorsa creativa e sull’ossessione ecologista.
Il tutto, vissuto e fruito dai protagonisti ballardiani che, dismessi i caschi e le tute da astronauti, indossano quasi sempre abiti in doppio petto e cravatta, tipici della classe medio-alta britannica contraddistinta da  medici, avvocati, imprenditori e registi televisivi (e alla quale lo stesso Ballard, questo pacioso e un po’ sovrappeso signorotto, in fondo appartiene).
Consapevole, quindi, che “La maggior parte delle macchine con cui abbiamo a che fare nella vita di tutti i giorni: gli aeroplani di linea, i frigoriferi, le automobili, le macchine per scrivere, si sono ritagliate un posto nei nostri affetti”, sarà allora interessante, per questo autore, studiare gli incidenti d’auto come accoppiamenti sessuali, come ‘eventi fertilizzanti’ che si verificano, al tempo stesso, sulle autostrade reali e come ‘Icone neuroniche sulle autostrade spinali’ (La mostra delle atrocità pp.49-88).
E sarà quindi indifferente per Vaughan, lo scienziato-teppista del romanzo, chiavare una prostituta o tamponare una macchina ad un incrocio, così come per il protagonista di “Crash” – che è proprio lo stesso Ballard – lo sarà il sodomizzare la propria moglie o lo stesso sfregiato e sussurrante Vaughan, in una totale indifferenza anaffettiva dei corpi-macchine visti unicamente e oscenamente come carne da macello.
Il tutto come denuncia dell’aberrazione apportata dalla società capitalistica post-industriale e con un’attenzione antropologica al dettaglio, anche perché – come afferma Ballard – “la scienza è l’ultimo stadio della pornografia, un’attività analitica il cui scopo principale è quello di isolare gli oggetti o gli eventi dal loro contesto spaziale e temporale”.
C’è sempre, ovviamente, il rischio di scadere nel ridicolo, e il semplice fatto che Ballard non lo faccia mai è già indice della sua maestria. Chi trova, infatti, ridicoli o inutilmente ripetitivi certi termini che ricorrono spesso all’interno del romanzo – come ad esempio “cromato” o “stilizzato” – non ha capito nulla della pre-comprensione del testo e della particolare ‘atmosfera’ dei testi ballardiani. Sarebbe un po’ come tentare di spiegare un’opera d’arte dadaista, basata su principi illogici e irrazionalisti, secondo i procedimenti e gli schemi della logica ordinaria del senso comune.