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100 futili colpi di spazzola

di Alessandro Puma - 05/01/2009

 


Adesso che il clamore si è un po’ sopito, vorrei trattare di questo pseudo libro-scandalo, “100 colpi di spazzola prima di andare a dormire”, pubblicato da Fazi editore nel luglio del 2003, e già più volte ristampato e letto un po’ in tutto il mondo (compreso, ovviamente, il Giappone che da sempre va pazzo per certe lolite intraprendenti e fanatiche).
Premesso che non credo affatto che tutte le vicissitudini erotiche – specie le più piccanti – narrate dall’autrice catanese all’epoca sedicenne, Melissa P., corrispondano al vero, ma sono logicamente – partendo da una base reale – ampliate  dalla sua immaginazione sessuale (la stessa Melissa, in una recente intervista, ha dichiarato che si tratta di verità creativa), quello che vorrei far notare, qui, è la deviata logica borghese che sottostà all’intero diario (diario mi sembra il termine adatto poiché, sia per lo stile mediocre, che per il limitato numero di pagine non siamo sicuramente in presenza di un romanzo).
Dopo un promettente avvio che dovrebbe mettere in luce come la vera prerogativa della donna siciliana (in questo caso ragazza, non ancora maggiorenne), debba, in un’ottica ormai utopistica, essere quella della devozione islamica verso il proprio uomo, Melissa, stufa di essere “la piccola amante a scadenza” di quello che vorrebbe fosse il suo ragazzo, ma non lo è, decide di troncare questa sua prima storia basata solo sul sesso, per cercare il vero amore in un turbinio di incontri plurimi e occasionali dove di amore – inutile dirlo – non trova neanche l’ombra.
Ma forse non si può nemmeno parlare d’amore, perché la giustificazione che Melissa trova per se stessa, e che dà l’avvio alla sua odissea della carne, è francamente uno dei più illogici (e quindi perfettamente conseguente al ragionamento di una sedicenne) che abbia mai letto, ed è il seguente: “Io un cuore ce l’ho, diario,[…] anche se forse nessuno mai se ne accorgerà. E prima di aprirlo, a qualsiasi uomo darò il mio corpo, per due motivi: perché forse assaporandomi gusterà il sapore della rabbia e dell’amarezza e perciò proverà un minimo di tenerezza, poi perché s’innamorerà della mia passione fino a non poterne più fare a meno”.
Come si vede, in questo caso, si può parlare più che altro di una sorta di ninfomania che mira al piacere sessuale fine a se stesso, anche per ottenere, paradossalmente, un certo potere o controllo sugli altri che dovrebbero innamorarsi perché “non ne possono fare a meno”, e se già su questo ci sarebbe molto da obiettare, appare ovvio che, con tutta la buona volontà, non si può fare un ragionamento simile per nobilitarlo ipocritamente come ricerca dell’amore. E lamentarsi, poi (come ha fatto la dolce Melissa quando è stata ospite di quel calderone mediatico ancora più ipocrita che era – adesso fortunatamente non più in programmazione – il ‘Maurizio Costanzo Show’), di non aver trovato, nelle più svariate orge nelle quali la nostra si era imbattuta, qualcuno che le mostrasse un po’ di tenerezza.
Del resto è la nostra stessa eroina che, nel suo diario, afferma in uno sprazzo di lucidità: “Mi sono prostrata al suo volere pur di assecondare i miei capricci (corsivo mio n.d.r.)”, e più avanti, in una sua orgogliosa dichiarazione apparentemente antiborghese: “secondo me è quella la vera perversione![…] vita piatta: sabati sera in Piazza Teatro Massimo, domeniche mattina colazione in riva al mare, sesso rigorosamente nei fine settimana, confidenze con i genitori eccetera eccetera…meglio rimanere sola!”.
Stupisce, quindi, come, dopo questa veemente dichiarazione d’indipendenza, alla fine dell’opera e molto stranamente, il diario a luci rosse di questa intraprendente bimbetta si trasformi in un diario rosa degno di “Harmony”, riconfermando quella logica borghese, dapprima osteggiata, del vero amore e del principe azzurro di cui, ovviamente, ogni ragazzina ha bisogno e di cui solitamente scrive sul suo diario a scuola, durante le ore di lezione, o giusto prima di andare a dormire:
“[…] mi ha sussurrato all’orecchio: ‘Melissa ti amo’[…] Ho preso il suo viso fra le mani, l’ho baciato con una delicatezza prima di allora sconosciuta e ho sussurrato: ‘Ti amo anch’io, Claudio…”
Un simile finale soft, che strizza l’occhio alla mentalità deviata, tutta italiana, di voler prima peccare e poi di ammantare di giustificazioni moralistiche o sentimentali il peccato commesso, sicuramente in altri paesi più rigorosi e seri (editorialmente parlando) non avrebbe avuto ragion d’essere, ma siamo in Italia ed è già stato tratto, da quest’ultima fatica letteraria, addirittura un film.
Per quanto mi riguarda, non ho avuto il tempo di andare a vedere questo raro esempio di cinema-verità, ma chi c’è andato mi ha riferito che, per quanto squallido possa essere il libro, il film è ancora più becero.
Quali possono essere, a questo punto, le considerazioni religiose che possono essere tratte da questo coacervo purtroppo reale, o perlomeno realistico, di nequizie sessuali dovute alla solitudine, alla disperazione, al parossistico e frettoloso uso del corpo reso oggetto di sfruttamento e godimento, e non mai soggetto auto-disciplinato, lucido e consapevole dei propri limiti e delle proprie capacità, un corpo che – proprio perché partecipa, grazie alla redenzione operata in noi dal Cristo, della sua componente divina, come corpo sempre atto, cioè, a poter essere trasfigurato – non si riduce alla sua sola componente somatica e alla sregolata e irrefrenabile manifestazione dei suoi più bassi istinti.
L’elemento che ci distingue maggiormente dagli altri esponenti del mondo animale è, infatti, oltre innanzitutto all’autocoscienza, la capacità e la possibilità di poter dilazionare la soddisfazione dei nostri bisogni; e, nel caso specifico della sfera erotica e sessuale, di poter contemperare l’aspetto egoistico della soddisfazione del bisogno con la tenerezza, la dolcezza e il reale dono di noi stessi nei confronti della persona amata, alla luce dell’amore caritatevole del Cristo.
Vorrei infine concludere queste mie riflessioni chiarendo alla mente smaliziata di un lettore “moderno”, che per caso dovesse imbattersi nella lettura di questo articolo, che il punto di vista qui adottato – cioè la facile critica negativa di una scrittrice erotica (o pornografica) in erba – non ha nulla a che vedere con l’essere retrogradi, “moralisti” o bacchettoni, poiché il cristianesimo – e il relativo cattolicesimo – contrariamente a quel che si pensa e si è sempre pensato, non ha mai demonizzato, in senso stretto, la sfera della vita sessuale, ma anzi ha sempre previsto le fascinazioni e le ambasce della carne.
In ultima analisi, si è profanatori e profani soltanto in quanto si è cristiani (tant’è che gli antichi pagani non avevano coscienza di esserlo!): l’abiezione e la profanazione della carne sono stati assunti anche dalla carne mortale – poi resa immortale – del Cristo, proprio per essere redenti e tra-sfigurati. Come affermavano i Padri della Chiesa: “non si redime se non ciò che si assume”. Per questo semplice motivo il cattolicesimo, storicamente (soprattutto durante il Rinascimento), è sempre stato tutto, meno che bacchettone.
Secondo questa sorta di teologia ‘paradossale’ – che da Kierkegaard arriva fino a Lutero e che si spinge fino a San Paolo – non si può profanare nulla a prescindere dal cristianesimo.

 

 

 

 


Di A.P. per www.seccagrande.com

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


“Crash” ovvero per un’antropologia dell’oscenità


Di Alessandro Puma


Ancor oggi la visionarietà dirompente del capolavoro ossessivo – e semiautobiografico – di James Ballard, “Crash”, continua a far discutere. Si tratta indubbiamente di un’opera notevole (che, quando fu proposta nei primi anni ’70 ad una casa editrice britannica dal suo autore, fu bollata come l’opera di un pericoloso squilibrato) e che mette un po’ in ombra altre produzioni ballardiane, contigue temporalmente, come “Il condominio” e “L’isola di cemento” ed altre più recenti – che da quelle derivano – come “Cocaine nights” e “Rushing to paradise”, caratterizzate da tematiche forse ancora più inquietanti.
Ballard, com’è noto, è stato il caposcuola – intorno ai primi anni ’60 – di un modo radicalmente innovativo di fare fantascienza (genere all’interno del quale si è formato) ed ha influito, assieme a Pynchon, Vonnegut e Dick sul cosiddetto ‘Cyberpunk’, i cui esponenti, però, Gibson in testa, non sono stati finora all’altezza dei loro maestri.
Nello specifico, la rivoluzione apportata da Ballard, fu quella, genialmente semplice, di indagare il cosiddetto inner space di contro al classico outer space, cioè di focalizzare l’intero processo euristico della scrittura nella disamina degli ‘spazi interni’ del corpo e della psiche dell’uomo a contatto con il nuovo ambiente tecnologico, freddo, deprivante e psicopatologico del XX° (e ormai XXI°) secolo.
Ciò ha inevitabilmente portato alla ‘trasfigurazione’ della fantascienza in Surrealismo, poiché quello che più conta, da questo punto di vista, non è più l’impressione che suscita in noi la scoperta improvvisa di un remoto pianeta della galassia (si pensi, infatti, alla scomparsa di un sottogenere come la ‘space opera’), ma la percezione – e la sua conseguente azione di ‘riconfigurazione’ dei procedimenti psichici del nostro cervello – che ci viene data nell’osservare i prodotti tipici della nostra società.
Si verifica in tal modo un’attenzione, malata e ossessiva (e quindi pienamente antropologica, nel suo studio comportamentale umano), nei riguardi delle infinite distanze siderali che separano, in una casa, una parete dall’altra (“L’enorme spazio”); nei rapporti che possono intercorrere tra un atto sessuale e un incidente automobilistico (“Crash”); sull’ossessione che possono nutrire gli autistici e gli ebefrenici nei confronti del Presidente Reagan e della terza guerra mondiale (“La mostra delle atrocità”); sulla ‘lotta di classe’ applicata ai piani di un condominio ipertecnologico (“Il condominio”); e ancora sui resoconti “mitologizzati” dei viaggi degli ‘Shuttle’ da Cape Canaveral, sulla televisione come nuova divinità dell’era mediatica, sul crimine come risorsa creativa e sull’ossessione ecologista.
Il tutto, vissuto e fruito dai protagonisti ballardiani che, dismessi i caschi e le tute da astronauti, indossano quasi sempre abiti in doppio petto e cravatta, tipici della classe medio-alta britannica contraddistinta da  medici, avvocati, imprenditori e registi televisivi (e alla quale lo stesso Ballard, questo pacioso e un po’ sovrappeso signorotto, in fondo appartiene).
Consapevole, quindi, che “La maggior parte delle macchine con cui abbiamo a che fare nella vita di tutti i giorni: gli aeroplani di linea, i frigoriferi, le automobili, le macchine per scrivere, si sono ritagliate un posto nei nostri affetti”, sarà allora interessante, per questo autore, studiare gli incidenti d’auto come accoppiamenti sessuali, come ‘eventi fertilizzanti’ che si verificano, al tempo stesso, sulle autostrade reali e come ‘Icone neuroniche sulle autostrade spinali’ (La mostra delle atrocità pp.49-88).
E sarà quindi indifferente per Vaughan, lo scienziato-teppista del romanzo, chiavare una prostituta o tamponare una macchina ad un incrocio, così come per il protagonista di “Crash” – che è proprio lo stesso Ballard – lo sarà il sodomizzare la propria moglie o lo stesso sfregiato e sussurrante Vaughan, in una totale indifferenza anaffettiva dei corpi-macchine visti unicamente e oscenamente come carne da macello.
Il tutto come denuncia dell’aberrazione apportata dalla società capitalistica post-industriale e con un’attenzione antropologica al dettaglio, anche perché – come afferma Ballard – “la scienza è l’ultimo stadio della pornografia, un’attività analitica il cui scopo principale è quello di isolare gli oggetti o gli eventi dal loro contesto spaziale e temporale”.
C’è sempre, ovviamente, il rischio di scadere nel ridicolo, e il semplice fatto che Ballard non lo faccia mai è già indice della sua maestria. Chi trova, infatti, ridicoli o inutilmente ripetitivi certi termini che ricorrono spesso all’interno del romanzo – come ad esempio “cromato” o “stilizzato” – non ha capito nulla della pre-comprensione del testo e della particolare ‘atmosfera’ dei testi ballardiani. Sarebbe un po’ come tentare di spiegare un’opera d’arte dadaista, basata su principi illogici e irrazionalisti, secondo i procedimenti e gli schemi della logica ordinaria del senso comune.

 

 

 

 

 

 

 

Considerazioni sul sacrificio

 

Per farla finita in qualche modo con il concetto drammatico e paradossale della fede kierkegaardiana come salto nel vuoto dell’abisso irrazionale, laddove termina la ragione, basterebbe pensare al fatto che Abramo – soprattutto secondo l’etica politeista, e Abramo era un politeista il cui Dio, El Shaddai, era solo più potente di molti altri – non si presenta affatto come un pazzo o un assassino secondo il piano della morale e della logica umana per aver voluto, o dovuto volere, uccidere il suo unico figlio Isacco dietro un esplicito ordine divino (quell’unico figlio da cui sarebbe nato il gran popolo d’Israele, sempre secondo la promessa divina).
  Kierkegaard, da buon letterato romantico e mellifluo connoisseur delle donne, ha immaginato la tragedia di una sofferenza indicibile – che vincola al mutismo – del ‘cavaliere della fede’, del pio e onesto padre di famiglia che si trova a dover obbedire a un ordine inumano da parte di un Dio incomprensibile che gli impone di eliminare il suo unico figlio, partorito dalla moglie Sara nella sua vecchiaia, in un’età, cioè, in cui era biologicamente impossibilitata a farlo, e di dover compiere questo gesto – un delitto a tutti gli effetti – senza alcuna speranza di poter essere compreso, e men che mai consolato, da nessuno dei suoi vicini, a cominciare dalla moglie.
Ciò che è degno della massima stima, di una considerazione addirittura superumana (e in questo Kierkegaard si avvicina a Nietzsche), e cioè l’incommensurabile grandezza dell’uomo di fede che disprezza fino alle estreme conseguenze il mondo, per obbedire a Dio, che è capace persino di tradire e mettere a morte ciò che più ama nella vita – e in questo possiamo scorgere dei rimandi, per certi versi, anche all’Iscariota del ‘Vangelo di Giuda’ che riuscì, con il suo titanismo, a compiere “il mistero del tradimento” – ; tutto questo, vuole dirci Kierkegaard, per il mondo è scandalo, pazzia, inutile e gratuito omicidio.
  Che le cose non stiano così, che non potessero essere considerate in questo modo per gli antichi e per la loro mentalità politeista, è dimostrato dal fatto che quasi tutti i popoli pagani praticavano il sacrificio umano, anche, a volte, dei loro stessi figli (come fece, per esempio, il pur civilizzatissimo re Agamennone con la propria figlia, Ifigenia), e non per questo venivano considerati degli assassini. La comunità, il popolo, sapeva che per contrastare i rovesci della fortuna, per favorire la riuscita di un buon raccolto o la vittoria in battaglia, un padre di famiglia poteva essere costretto a spingersi verso il gesto estremo del sacrificio del proprio figlio o della propria figlia, e che un tale disperato gesto, compiuto a favore della propria famiglia come dell’intera comunità, era sempre e comunque un affare privato tra un uomo e il suo Dio – o i suoi dei – , del quale nessuno si sarebbe sognato di chiedere il conto o la ragione; per questo semplice motivo, oltre al fatto che si sperava sempre che il sacrificio della cosa più cara che si aveva al mondo potesse essere gradito a Dio, non si facevano domande o si elaboravano giudizi moralistici di sorta, e poiché si sapeva anche, fra l’altro, che il padre in questione dovesse, in quel frangente, essere umanamente affranto e distrutto (N.B. Uso, qui, l’avverbio ‘umanamente’ e non ‘psicologicamente’, perché quest’ultimo, oltre ad essere del tutto incomprensibile a una mentalità pagana, fa anche riferimento alla cosiddetta ‘psicologia del profondo’ che, secondo la concezione che ne hanno i moderni, è tutto tranne che una scienza).
  Oltre a ciò, a rendere ancora più “accettabile” la richiesta fatta da Dio ad Abramo di offrirgli in olocausto il proprio unico figlio, sta il fatto che, proprio per la sua nascita miracolosa, Isacco era a tutti gli effetti una creatura divina, un essere non semplicemente umano, un semèion dovuto ai tanti ‘mirabilia’ o ‘magnalia Dei’ che si sarebbero verificati successivamente a profusione nel corso della storia della Salvezza, e possiamo dunque dire che, tecnicamente, Abramo considerava Isacco (il cui nome, etimologicamente, sembra significasse ‘riso di Dio’) più figlio di Dio che suo, nel senso che era naturale che il Dio che glielo aveva donato – e al quale certamente apparteneva – adesso lo rivolesse indietro. E se tutto questo ancora non rientrava nei parametri della promessa che Yahvè stesso, o El o Elhoim, aveva fatto a proposito della discendenza abramica, dovremmo sempre ricordare – in base a una mentalità oggi purtroppo caduta in disuso – che non solo noi tutti non siamo in grado di comprendere o permetterci di giudicare l’operato divino, ma anche che, data la costitutiva ambivalenza del sacro, Dio è l’unico che può permettersi di affermare e negare al tempo stesso qualcosa, senza per questo cadere in contraddizione (cioè in quella che noi consideriamo contraddizione).
  Certo Abramo rimase davvero molto stupito, più sconcertato che risollevato, nel momento in cui l’angelo venne a fermare la sua mano un attimo prima che questa affondasse il coltello nella gola del figlio; ma così comprese. Comprese che il suo era un Dio d’amore e non un ‘Moloch’ che si compiace di sacrifici di sangue.
  Stupito al punto da instillare, in tutti noi posteri, un sospetto insinuante e, forse, illegittimo.
E se fosse stato Abramo a voler mettere alla prova il suo Dio?

 

 

      Di A.P. per www.seccagrande.com

 

 

100 futili colpi di spazzola

 


Adesso che il clamore si è un po’ sopito, vorrei trattare di questo pseudo libro-scandalo, “100 colpi di spazzola prima di andare a dormire”, pubblicato da Fazi editore nel luglio del 2003, e già più volte ristampato e letto un po’ in tutto il mondo (compreso, ovviamente, il Giappone che da sempre va pazzo per certe lolite intraprendenti e fanatiche).
Premesso che non credo affatto che tutte le vicissitudini erotiche – specie le più piccanti – narrate dall’autrice catanese all’epoca sedicenne, Melissa P., corrispondano al vero, ma sono logicamente – partendo da una base reale – ampliate  dalla sua immaginazione sessuale (la stessa Melissa, in una recente intervista, ha dichiarato che si tratta di verità creativa), quello che vorrei far notare, qui, è la deviata logica borghese che sottostà all’intero diario (diario mi sembra il termine adatto poiché, sia per lo stile mediocre, che per il limitato numero di pagine non siamo sicuramente in presenza di un romanzo).
Dopo un promettente avvio che dovrebbe mettere in luce come la vera prerogativa della donna siciliana (in questo caso ragazza, non ancora maggiorenne), debba, in un’ottica ormai utopistica, essere quella della devozione islamica verso il proprio uomo, Melissa, stufa di essere “la piccola amante a scadenza” di quello che vorrebbe fosse il suo ragazzo, ma non lo è, decide di troncare questa sua prima storia basata solo sul sesso, per cercare il vero amore in un turbinio di incontri plurimi e occasionali dove di amore – inutile dirlo – non trova neanche l’ombra.
Ma forse non si può nemmeno parlare d’amore, perché la giustificazione che Melissa trova per se stessa, e che dà l’avvio alla sua odissea della carne, è francamente uno dei più illogici (e quindi perfettamente conseguente al ragionamento di una sedicenne) che abbia mai letto, ed è il seguente: “Io un cuore ce l’ho, diario,[…] anche se forse nessuno mai se ne accorgerà. E prima di aprirlo, a qualsiasi uomo darò il mio corpo, per due motivi: perché forse assaporandomi gusterà il sapore della rabbia e dell’amarezza e perciò proverà un minimo di tenerezza, poi perché s’innamorerà della mia passione fino a non poterne più fare a meno”.
Come si vede, in questo caso, si può parlare più che altro di una sorta di ninfomania che mira al piacere sessuale fine a se stesso, anche per ottenere, paradossalmente, un certo potere o controllo sugli altri che dovrebbero innamorarsi perché “non ne possono fare a meno”, e se già su questo ci sarebbe molto da obiettare, appare ovvio che, con tutta la buona volontà, non si può fare un ragionamento simile per nobilitarlo ipocritamente come ricerca dell’amore. E lamentarsi, poi (come ha fatto la dolce Melissa quando è stata ospite di quel calderone mediatico ancora più ipocrita che era – adesso fortunatamente non più in programmazione – il ‘Maurizio Costanzo Show’), di non aver trovato, nelle più svariate orge nelle quali la nostra si era imbattuta, qualcuno che le mostrasse un po’ di tenerezza.
Del resto è la nostra stessa eroina che, nel suo diario, afferma in uno sprazzo di lucidità: “Mi sono prostrata al suo volere pur di assecondare i miei capricci (corsivo mio n.d.r.)”, e più avanti, in una sua orgogliosa dichiarazione apparentemente antiborghese: “secondo me è quella la vera perversione![…] vita piatta: sabati sera in Piazza Teatro Massimo, domeniche mattina colazione in riva al mare, sesso rigorosamente nei fine settimana, confidenze con i genitori eccetera eccetera…meglio rimanere sola!”.
Stupisce, quindi, come, dopo questa veemente dichiarazione d’indipendenza, alla fine dell’opera e molto stranamente, il diario a luci rosse di questa intraprendente bimbetta si trasformi in un diario rosa degno di “Harmony”, riconfermando quella logica borghese, dapprima osteggiata, del vero amore e del principe azzurro di cui, ovviamente, ogni ragazzina ha bisogno e di cui solitamente scrive sul suo diario a scuola, durante le ore di lezione, o giusto prima di andare a dormire:
“[…] mi ha sussurrato all’orecchio: ‘Melissa ti amo’[…] Ho preso il suo viso fra le mani, l’ho baciato con una delicatezza prima di allora sconosciuta e ho sussurrato: ‘Ti amo anch’io, Claudio…”
Un simile finale soft, che strizza l’occhio alla mentalità deviata, tutta italiana, di voler prima peccare e poi di ammantare di giustificazioni moralistiche o sentimentali il peccato commesso, sicuramente in altri paesi più rigorosi e seri (editorialmente parlando) non avrebbe avuto ragion d’essere, ma siamo in Italia ed è già stato tratto, da quest’ultima fatica letteraria, addirittura un film.
Per quanto mi riguarda, non ho avuto il tempo di andare a vedere questo raro esempio di cinema-verità, ma chi c’è andato mi ha riferito che, per quanto squallido possa essere il libro, il film è ancora più becero.
Quali possono essere, a questo punto, le considerazioni religiose che possono essere tratte da questo coacervo purtroppo reale, o perlomeno realistico, di nequizie sessuali dovute alla solitudine, alla disperazione, al parossistico e frettoloso uso del corpo reso oggetto di sfruttamento e godimento, e non mai soggetto auto-disciplinato, lucido e consapevole dei propri limiti e delle proprie capacità, un corpo che – proprio perché partecipa, grazie alla redenzione operata in noi dal Cristo, della sua componente divina, come corpo sempre atto, cioè, a poter essere trasfigurato – non si riduce alla sua sola componente somatica e alla sregolata e irrefrenabile manifestazione dei suoi più bassi istinti.
L’elemento che ci distingue maggiormente dagli altri esponenti del mondo animale è, infatti, oltre innanzitutto all’autocoscienza, la capacità e la possibilità di poter dilazionare la soddisfazione dei nostri bisogni; e, nel caso specifico della sfera erotica e sessuale, di poter contemperare l’aspetto egoistico della soddisfazione del bisogno con la tenerezza, la dolcezza e il reale dono di noi stessi nei confronti della persona amata, alla luce dell’amore caritatevole del Cristo.
Vorrei infine concludere queste mie riflessioni chiarendo alla mente smaliziata di un lettore “moderno”, che per caso dovesse imbattersi nella lettura di questo articolo, che il punto di vista qui adottato – cioè la facile critica negativa di una scrittrice erotica (o pornografica) in erba – non ha nulla a che vedere con l’essere retrogradi, “moralisti” o bacchettoni, poiché il cristianesimo – e il relativo cattolicesimo – contrariamente a quel che si pensa e si è sempre pensato, non ha mai demonizzato, in senso stretto, la sfera della vita sessuale, ma anzi ha sempre previsto le fascinazioni e le ambasce della carne.
In ultima analisi, si è profanatori e profani soltanto in quanto si è cristiani (tant’è che gli antichi pagani non avevano coscienza di esserlo!): l’abiezione e la profanazione della carne sono stati assunti anche dalla carne mortale – poi resa immortale – del Cristo, proprio per essere redenti e tra-sfigurati. Come affermavano i Padri della Chiesa: “non si redime se non ciò che si assume”. Per questo semplice motivo il cattolicesimo, storicamente (soprattutto durante il Rinascimento), è sempre stato tutto, meno che bacchettone.
Secondo questa sorta di teologia ‘paradossale’ – che da Kierkegaard arriva fino a Lutero e che si spinge fino a San Paolo – non si può profanare nulla a prescindere dal cristianesimo.