Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Mimetismo, tropismo, ibridismo: la metaforica della deriva coloniale

Mimetismo, tropismo, ibridismo: la metaforica della deriva coloniale

di Angelica Palumbo - 09/01/2009

 

Nel romanzo più noto di Jean Rhys, Wide Sargasso Sea, la visione del mondo postcoloniale

emerge dal tenore del titolo. Attraverso la griglia metaforica legata alla imagery del dominio dialghe acquatiche, allude alla feconda

wilderness del “grande mare dei Sargassi”.

Fu la stessa scrittrice anglocaraibica, inquieta portavoce del motivo dell’espatrio-spodestamento

scaturito dalla vana ricerca dell’identità, nucleo del dibattito postmodernista, a enfatizzare il potere

essenzialmente rievocativo dei titoli, come precisò nell’epistolario (
Letters 1931-1966,

Harmondsworth, 1984 p. 154): “ I titoli significano molto per me. Quasi metà della battaglia”. E’

implicito che le scelte nell’ambito del titolo forniscano una gamma di indizi rispetto al dibattito

critico postcoloniale relativo a tropi di identità/alienazione e al sentimento individuale di

appartenenza o al suo contrario, l’estranietà.

Il richiamo al misterioso mar dei Sargassi, concepito come chiave di lettura occulta di un fraseggio

musicale, risponde alla funzione primaria di fornire preliminarmente un atlante del mondo letterario

interculturale dei romanzi coloniali, intesi come opere-mondo. Quasi una sorta di mappatura a priori

per decodificare la donna ai margini; ossia una donna che, alienandosi da se stessa e dal suo

mondo, inevitabilmente si estranea dal mondo dell’idillio primordiale, rappresentato dalla periferia

dell’Impero britannico, nella fattispecie, le Indie Occidentali. E’ attraverso il titolo, evocante lo

strano abisso del mar dei Sargassi, che l’ambientazione tropicale degli spazi caraibici è suggerita

come ambivalente
leit-motif : riferito all’arcano, intricato mondo lambito da quel mare-non mare.

Essendo “an image of the no man’s land between people and between cultures, full of fears, dreams

and nightmares”,
1[1] concorre all’insidiosa atmosfera del fluttuante designato nelle alghe alla deriva,

che rendono quasi ogni cosa, ogni situazione estremamente dislocata rispetto al centro

metropolitano anglo-europeo.

Il Mare dei Sargassi, definito dalle stesse mutevoli correnti oceaniche che racchiudono la zona

calma al centro delle correnti nordatlantiche, inscrivendolo nel perimetro di un movimento

rotatorio, è una massa ellittica di acque che lentamente e impercettibilmente muovono alla deriva

vorticando verso il centro del più gelido sito oceanico dell’Atlantico settentrionale. Facilmente

intuibile è pertanto l’associazione correlativa con l’archetipo cosmogonico del vortice, riproducente

il Caos da cui, mulinando, origina il mondo. Se consideriamo l’
imagery del turbinio di correnti che

caratterizza il Mar dei Sargassi, facilmente si risale alle atmosfere galvanizzanti dei suoi

antecedenti: dall’attrazione magnetica che ispirò Edgard Allan Poe per la concezione del

“Maelström” alle procedure psicoanalitiche di Bachelard in rapporto alla materializzazione plastica

dell’immaginario.

Il plesso simbolico rievocato dal titolo attraverso l’immagine di forze distruttrici sotto il profilo

psichico si svela progressivamente come “Maelström”, vortice di eventi-inganni che sovrastano

tanto la cultura del meticciato quanto la xenofobica resistenza identitaria dell’europeo bianco.

Entrambe risucchiate nel cono d’ombra della
otherness dalle emozioni più incontrollabili, ora

desiderio di possesso del corpo sessuato, ora orrore dello spodestamento.

Il potere magnetico del Grande Mare dei Sargassi attrae fatalmente, attraverso movimenti

concentrici che ruotano in cerchi sempre più stretti, tanto i bianchi e i meticci, quanto i prodotti di

ibridazione che la cultura dello sfruttamento delle piantagioni ha generato, sospingendoli verso il

1[1] Hilary Jenkins, Introduction to Wide Sargasso Sea, London 2001, ix.

2

centro senza fondo del vortice. Uno dei significati simbolici suggeriti dal titolo, in associazione

emblematica con il turbinio di forze disgreganti e disomogenee quale campo semantico

dell’ambiguità, è esplicitato nell’emblematico
dead centre, il “punto morto” del romanzo GoodMorning, Midnight. Il viluppo di forze in cui si impiglia il protagonista, privandolo dell’orgoglio,

del nome, dell’identità fisica e etnica, è per molti aspetti riconducibile al potere

aggregante/disgregante del vortice di correnti e dal turbinante crogiuolo culturale di Wide Sargasso

Sea.

Come ha suggerito Franco Moretti in Atlante del romanzo europeo, nell’ambito del romanzo

coloniale gli sfondi naturali, intesi a suggerire il senso del dislocamento-spaesamento, sono sempre

delineati come territori periferici, ai margini estremi rispetto al fulcro metropolitano dell’Impero

Britannico. In questa prospettiva di sostituzione e spostamento, lo spazio topografico è una fonte

segreta di risorse creative cui attingono opere narrative basate sulle carte geografiche; laddove una

mappa deve essere intesa come un rapporto fra un ambiente e altri fenomeni geograficamente

correlati. In tale prospettiva, è evidenziabile il riscontro con prodotti spuri del colonialismo e del

meticciato, considerati nel potenziale dell’effetto distruttivo e dirompente sul sentimento di

appartenenza e appaesamento.

Come un insieme di incastri a mosaico, il Mar dei Sargassi del titolo è un elemento portante della

carta geografica simbolica che delinea il reticolato dello spazio narrante. Rispecchia

composizioni/conflitti di etnia e di genere collegati a fantasie di sincretismo, suggeriti

dall’ambientazione stessa del romanzo tropicale: sin dall’incipit, l’ambiguità del mimetismo

nell’ambito del
melting-pot creolo è implicitamente suggerito come fonte dell’ispirazione letteraria

autorale. Il simbolismo dei Sargassi sta in relazione esplicita ai grappoli di alghe brune, che

percorrendo il mare con le loro vescicole galleggianti, l’uva dei tropici, sono designabili come

sterminate praterie oceaniche. Il figurativismo del titolo è un’indicazione indiretta alle maglie della

ripetitività fornite dall’adesione al prototipo, in quanto il movimento ciclico fa sì che la ripetizione

generi la creazione, esprimente, attraverso il rinnovamento mimetico, la ritessitura degli eventi,

tanto letterari che storicizzati; essendo
Wide Sargasso Sea null’altro che la trasposizione in chiave

post-modernista dell’intelaiatura imperiale e coloniale che sorregge la geografia simbolica del

romanzo di Charlotte Brontë,
Jane Eyre. La topografia della ur-story è qui abbandonata per la

nuova prospettiva tropicale che disloca i personaggi dal centro dell’impero britannico alla provincia

dell’arcipelago delle Antille. Nell’intreccio di Charlotte Brontë la colonia giamaicana è colta

intuitivamente nel segno dell’esuberanza indotta dal clima: la natura arroventata dall’eccessiva

esposizione solare induce stati psichici roventi e alterati (riverberantisi nell’alterazione psichica di

Bertha, la prima moglie di Rochester), laddove il rigore dell’autocontrollo britannico è tutt’uno con

il rigore del clima invernale.

Jean Rhys ridà voce narrante e un ruolo di primo piano alla moglie creola prodotto del crossbreeding

anglocaraibico. Risospinta nel recinto di coloro che non appartengono alla cultura

anglocentrica, la
persona Antoinette-Bertha è preda di una irrequieta irresolutezza che

progressivamente contribuisce al suo decadimento fisico e morale. Essendo incapace di scegliere fra

amante di colore e marito bianco, si rivela incapace di liberarsi dalle maglie del condizionamento

sociale e dall’emarginazione razziale. La marginalità significa per lei deriva, e in quanto privata

d’identità, Antoinette subisce sottrazioni successive di possesso, sino a diventare la nuova proprietà

del nuovo mercante di schiavi, il marito venuto dall’Inghilterra in cerca di affermazioni sociali

attraverso possessi neocoloniali; ossia il ‘
revenant, secondo il titolo che la scrittrice avevainizialmente designato per la sua storia di ossessioni in bilico fra insolubili dilemmi.2[2] Colta nel

punto del “passing” etnico, della impossibile identificazione nel rango sociale superiore dei

“bianchi”, la creola bianca Antoinette non sceglierà, e mancherà il rito di passaggio, finendo

2[2] Così Jilary Jenkins (ibidem): “Jean Rhys’s first idea for the title was “Le Revenant”, meaning the zombie or the one

who comes back from the dead, and this title would have emphasized the sense of haunting and being haunted. The

book is indeed full of ghosts and magic and ‘revenant’-type experiences: the distinctions between reality and unreality,

life and death, day and night, present and past, are continually blurred”.

3

inevitabilmente nel non-luogo alla deriva, sommersa nella rete del condizionamento ambientale e

del pregiudizio etnico.

Il punto di non ritorno, il
dead centre è per Antoinette introdotto attraverso l’implicito

suggerimento alla mimesi della nave incagliata nelle mucillagini dei sargassi. Durante il viaggio che

dall’isola caraibica della sua sconfinata libertà adolescenziale la riporterà alle latitudini nord

atlantiche della prigione maritale inglese, a bordo di una nave pseudo-negriera, Antoinette

insistentemente ripete che il bastimento “ha perso la rotta per l’Inghilterra”. La frase è interpretabile

come un indizio nella direzione della mimesi suggerita dal titolo, in quanto cela un possibile

riferimento al folklore che costruisce leggende intorno alle rotte del mare dei Sargassi: dove le navi

si arenavano nelle stesse, vaste distese di calma piatta, fra le cui acque ospitali le anguille

annualmente si riproducono. Gli stessi serpenti marini celebrati da
The Rhyme of the AncientMariner di Coleridge rivelano, specificatamente negli attributi di fertilità e di rigenerazione

perpetua, un paradigma comune. D’altronde, dal momento che il Grande Mare dei Sargassi è un

luogo di incontro per così dire, internazionale, per le anguille giunte a maturazione sessuale, è

intuibile il ruolo simbolicamente ad esse sottinteso. Trascinate dal gioco delle correnti, le larve

delle anguille lasciano il luogo natio e imboccano i canali della corrente del golfo fino alle acque

costiere nordeuropee, dove ristagnano per oltre un decennio nei fiumi, nei territori natali dei loro

progenitori, prima di emigrare e nidificare nelle calde acque dormienti del mar dei Sargassi.

E’ esattamente come una anguilla migratoria che Jean Rhys, all’età di sedici anni, compì il

percorso inverso alla volta delle gelide sponde dell’isola britannica, patria dei suoi ascendenti

paterni. Il flusso dei migranti è poeticamente valorizzato anche attraverso l’imagery misteriosa delle

anguille che scendono e risalgono lungo i mari. Anche i movimenti del revenant, Rochester, da quel

suo mondo al mondo altro e quindi il rientro nei ranghi, sono sovrapponinibili alla simmetrica

ellittica percorsa dalle anguille. Il mondo, ossia l’inter-cultura generazionale, si rigenera attraverso

lo scambio, condizione necessaria a mantenere vitale il crogiuolo di razze. Eppure, l’intera dinamica

dell’ibridismo implica sempre una dislocazione, un’implicita perdita del centro, un effetto di

estraniamento/spaesamento.

Per quanto concerne la prospettiva disorientata di Antoinette riguardo all’Inghilterra, paese da cui il

marito proviene, questa si attesta sulla medesima percezione dislocata del britannico nei confronti

del mondo caraibico. Lo smarrimento, la perdita del centro, confonde entrambi su posizioni

perfettamente correlate e inconciliabili, tanto che se per Antoinette “l’Inghilterra è un sogno”, per

lui i Carabi sono, ugualmente ed enigmaticamente, avvolti nella percezione dell’irreale. La comune

sensazione di confusione rispetto ad una realtà respinta come vortice alieno e alienante, ha la

funzione di proteggerli, di tenerli a debita distanza da sistemi culturali percepiti come indecifrabili

mondi culturali alla deriva. Un tale sentimento di estraneità è implicitamente evocato, attraverso il

tacito riferimento del titolo, dall’immagine della sterminata distesa di mucillagini semisommerse

che si sviluppano sulle coste tropicali per irraggiarsi a poco a poco, trasportate dalle correnti, sulle

acque oceaniche cui sono, in origine, biologicamente estranee.

Nelle sue manovre per ridurre la moglie a una condizione di
zombie, il neo marito padrone si erge a

controllore del mondo, operando come un mago anche più potente di Christophine, la medicinewoman

caraibica. Ma per vincere la partita, è inevitabile il suo distacco definitivo dagli allettamenti

del paesaggio caraibico. Così, la misteriosa bellezza della forza vitale edenica che spira dai Caraibi

si stabilisce in relazione simbolica sia con la “pazzia morale” ispirata dai luoghi arroventati dal sole

sia con l’ambiguità della
wilderness, significati designati dalla prateria marina dei sargassi. Tali

nozioni sono espresse attraverso la considerazione, generalmente condivisa, relativa all’instabilità

temperamentale di Antoinette e della madre. Ma in realtà l’algido neo-colono può interamente

lasciarsi dietro le spalle ciò che i Caraibi hanno rappresentano per lui, nel bene e nel male, solo

dopo aver avuto rapporti sessuali con l’adolescente caraibica, la serva Amelie, che consente a

vendergli il proprio corpo, assurto a simbolo della mercificazione neo-coloniale. Entrambi sono

infatti, simbioticamente e mimeticamente inclusi nello stesso plesso metaforico dello sfruttamento

4

della piantagione, avendo entrambi messo a profitto la medesima risorsa – la fonte del piacere, la

sessualità, tramite un atto di mercificazione.

Franco Moretti ha mostrato l’effetto di integrazione fra geografia e forme letterarie in sistemi

definiti “opere mondo”, che sono quasi totalmente centrate sulle estreme periferie dell’Impero.

D’altronde, il romanzo stesso è fiorito entro culture nazionali perfettamente integrate nelle loro

controparti, come i sistemi-mondo di Francia e Inghilterra. All’interno delle cosiddette opere

mondo, suggerisce Moretti, “il referente geografico non è più lo stato-nazione, ma un’entità più

ampia: un continente, o il sistema mondo nel suo insieme”.3[3]

E’ quindi anche alla luce della anatomia interdisciplinare di Moretti relativa alla “critica mondo”

che noi possiamo pienamente apprezzare la dicotomia dei valori ambivalenti del sistema-mondo di

Rhys, richiamati dalla metaforica del titolo. Allusivo ad una significativa mappatura delineantesi

progressivamente con la mimesi della storia, poiché il Mare dei Sargassi delimita il nord est delle

Antille. Ma anche le sue coordinate correlate suggeriscono un livello di interpretazione più

profondo, poiché il Mare dei Sargassi racchiude entro il suo bacino un universo acquatico virtuale,

quasi un perfetto microcosmo rispecchiato dalla lente del mandala vivente. E attraverso la sua

storia, Rhys riproduce punti di vista alternativi che tendono a introdurre il tema della virtualità:

puramente virtuale è l’amore fisico fra Rochester e Antoinette, sancito dal matrimonio virtuale,

epitome tipiche di modelli virtuali che rimangono embrionali, eppure perfettamente viventi,

configurabili attraverso l’
imagery della prateria natante.

Mare dentro un oceano, designato dalle alghe alla deriva che vi si accumulano a motivo del vortice

di correnti, il Mare dei Sargassi è un biotopo ospitale, perfetto esempio di mimetismo fra individui

di diverse specie come insetti e molluschi. Colonie di alghe nutrono e danno rifugio a colonie di

larve di anguille, tartarughe marine, gamberetti e granchi e polipi, individui che a loro volta

alimentano con le loro secrezioni di ammonio e fosfato le propaggini delle alghe. Questi scambi

suggeriscono la relazione di interdipendenza simbiotica fra mondo vegetale ed animale, di fatto il

rapporto fra
habitat e nutrimento può essere un indizio utile per comprendere il nesso allusivo fra

colonizzatori occidentali, francesi e inglesi, e i neri autoctoni della Dominica e della Giamaica. Il

ruolo parassitico dei colonizzatori francesi e inglesi che fornirono gli strumenti tecnologici al

progressivo sfruttamento dell’habitat caraibico e dei suoi sistemi di risorse ( principalmente la

canna da zucchero) può essere integrato con altre immagini della catena alimentare oceanica

relativa all’ibridismo del fitoplancton, si pensi agli idroidi e ai crostacei che albergano sulla

superficie dei sargassi. I microscopici individui attaccati alle vesciche aeree che mantengono il

galleggiamento delle alghe, sono il correlativo oggettivo di una
imagery del parassitismo coloniale

relativa alla relazione preda-predatore.

La griglia metaforica che rinvia al mare dei Sargassi si avvale di numerosi elementi compositivi

proprio nel riferimento sistematico all’ambiguità del suo mondo virtuale, evocata attraverso

messaggi di dislocazione: il riferimento implicito è dato dallo sfondo tropicale che alberga ambigue

creature a metà fra il vegetale e l’animale. Esattamente come lo strano habitat sargassiano, anche il

giardino edenico caraibico di Coulibri, dove cresce l’infelice Antoinette, bambina meticcia,

genera capricci della natura, inquietanti
freaks, come l’orchidea-polipo “o “octopus-orchid”

rievocato dalla memoria dell’autrice. I tentacoli scuri della serpigna “orchidea-polipo” ribadiscono

l’associazione con la natura ibrida di un prodigioso capriccio della natura, triforme convergenza del

fiore, del serpe, del polipo: correlativo-oggettivo del prodigio della bellezza insidiosa che Rhys

coglie nel prodigio mimetico dell’ibridismo etnico, ribadito dall’imagery emblematica dell’alga

vitiforme dei sargassi. Ancora, le alghe fluttuanti rinviano alla metaforica dei “fluttuanti”, instabili

umori dell’autrice, ri-suggeriti attraverso le portavoci, figure di donne alla deriva. La dicotomia

interna della storia, sottesa al tema della deriva, suggerisce che l’incrinatura della stabilità, cui il

fluttuare delle alghe allude, riflette il precario senso dell’appartenenza che connota tanto Antoinette

quanto la madre Annette. D’altronde non si può non associare quel movimento instabile delle

praterie marine sargassiane, alla deriva emotiva e intellettuale, ossia alla precarietà delle fonti

3[3] Franco Moretti, Opere Mondo, Einaudi, Torino 1944, p. 47.

5

d’ispirazione della scrittrice, disperatamente azzerate per decine d’anni prima di tornare a sgorgare

copiosamente proprio attraverso “quel” titolo,
The Great Sargasso Sea: opera narrativa che, nel

1966, salutava la riapparizione sensazionale sullo scenario letterario inglese di Jean Rhys,

consacrandone tardivamente la reputazione nell’ambito del dibattito postmodernista

. L’alternanza del ciclo vitale dell’alga bruna è analogamente soggetta a drammatiche, periodiche

fluttuazioni di crescita/decrescita; ragion per cui, per certi aspetti analogo è il flusso mentale

relativo al processo percettivo e di rielaborazione/ri-creazione, attivato pel tramite di misteriose

correnti sotterranee. In modo analogo possiamo riportare il concetto di “wilderness”, suggerito

dall’immagine-tipo della distesa sterminata o prateria dei sargassi alla deriva, al paradigma

dell’oblio della coscienza, soppiantato dai viluppi dell’inconscio. Vi è una probabile corrispondenza

simbolica fra il ribollire dell’inconscio, considerato a motivo delle sue insondabili,

insospettatamente vitali potenzialità, e la superficie immobile del mare dei Sargassi; che, essendo

considerato a prima vista deserto e visibilmente privo di vita, ricoperto dalla coltre di alghe, è

ritenuto a torto una zona morta. Ma quando la brezza dell’ispirazione torna a spirare, allora la vita

segreta dell’energia inconscia tornerà a fluttuare e pulsare, rovesciando i suoi tesori stratificati nel

profondo, come il fitoplancton rivelato da una lente di ingrandimento.

Il mare dei Sargassi sembra evocare immagini e significati eminentemente contradditori. Se

talvolta è connotabile come barriera insuperabile, a motivo dell’erratica superficie di alghe in cui si

intrappolano le navi, qualora si considerino le creature che albergano nelle sue acque ospitali,

soprattutto in rapporto alla concezione di biodiversità, emerge un criterio totalmente diverso:

essendo completamente circondato da gruppi che incorporano altri e differenti soggetti viventi, può

essere associato alla cognizione di enclave, di colonie di gruppi isolati. Nell’incipit del romanzo,

tuttavia, la concezione di ambiguità all’interno della struttura omogeneità/disomogeneità non viene

completamente suggerita dalla simbologia della barriera, che sembra piuttosto designare una salda

protezione contro l’invasione/penetrazione di forze ostili. D’altro canto, le barriere non veicolano

unicamente l’idea della protezione ma anche quella dell’isolamento e della costrizione/ostruzione,

come emerge dalla relazione esclusiva e simbiotica fra la madre Annette e il figlioletto minorato,

Pierre. E’ un legame invischiante che a poco a poco finisce per sommergere Antoinette,

bloccandone il processo di crescita interiore e di positiva identificazione con l’
imago materna.

Emerge anche l’accenno implicito alle barriere etniche e sociali, suggerite dalla difficoltà di

comprendere – attraverso il
patois – i codici culturali dell’altra isola caraibica, “ I could not alwaysunderstand her patois songs, - she also came from Martinique” (Wide Sargasso Sea, p. 5).

Nel ricreare l’atmosfera caraibica pericolosa e avvincente (ovvero il binomio di allerta suggerito

per l’uomo bianco che Antoinetta ha sposato) , come pure le minacce che prorompono dal mondo

esterno, l’odio razziale che irrompe sulla casa natale incendiata dai facinorosi, Rhys utilizza la

stessa simbologia della marina sargassiana. E’ ambivalentemente ricreata come barriera/ostruzione/

e successivamente come minaccia/irruzione, che insidia la pace dell’enclave meticcio. La vastità

dell’oceano-mare racchiuso nella distesa di sargassi è dunque l’intelaiatura simbolica che sostiene

il fondale degli spazi chiusi caraibici, come il vasto giardino cintato dell’infanzia protetta di

Antoinette, che precede la morte del padre. Gli spazi edenici della natura caraibica sono ribaditi in

associazione diametralmente opposta alla concezione britannica di “enclosure”, una recinzione che,

in questo caso, comporta la cognizione sociale e politica di esclusione inflessibile e di impedimento

di accesso a coloro che “non appartengono”. Così nella prigione inglese della “casa di cartone”, la

carceriera di Bertha, Grace Poole, suggerirà con visione metonimica “England is a black and cruel

world to a woman” (p.106).

Come afferma Franco Moretti in
Atlante del romanzo europeo 1800-1900, nel romanzo coloniale

non emerge un cammino alternativo, ma solo la concezione della barriera, dell’ostacolo visto nella

funzione narrativa di avversario: “ Nel romanzo coloniale non ci sono bivi: né locande accoglienti,

o brillanti ufficiali, o pittoreschi castelli per cui valga la pena di lasciare il cammino previsto. In

queste storie…si dà un solo tipo di cammino: avanti o indietro. …Da una parte i bianchi,…la

tecnologia occidentale, una vecchia mappa un po’ stinta. Dall’altra…leoni, caldo, liane, mosche,

6

pioggia, malattie – e indigeni. Tutti avvicinati, tutti equiparati dalla loro funzione narrativa di

ostacoli: tutti ugualmente inconoscibili e pericolosi”. 4[4]

Nella mescolanza del naturale e dell’umano si evince la struttura profonda del romanzo coloniale,

basato sull’assunto della perfetta corrispondenza fra animali e gente di colore, agli occhi

dell’europeo bianco civilizzato. Ecco come Antoinette, ribattezzata dal marito Bertha, assumendo

l’identità della pazza canonica della letteratura inglese ottocentesca, ridiventa nuovamente,

rievocando l’intreccio brontiano, una pericolosa “wild beast”, la fiera da rinchiudere e sorvegliare

nel recinto di uno spazio asserragliato al terzo piano.

La società neocoloniale degli ex schiavi delle piantagioni, del resto, non è stata meno esclusiva e

settaria: non ha accettato Antoniette come non ne accettava la madre di colore, sposata ad un

trafficante di schiavi, sicché l’ibridismo che in lei si esprime viene sdegnosamente respinto

attraverso l’epiteto di “blatta bianca”, “
white cockroach” o “negra bianca”. A sua volta, Antoinette

avverte come un impiccio l’inestricabile complessità dei loro rituali, secondo lo schema dicotomico

del dilemma razziale insolubile agli occhi di chi, come lei, “non appartiene”. L’alienazione è

dunque un motivo che viene riproposto con molte varianti, non ultimo quello della fluttuante intesa

amorosa fra l’adolescente Antoinette e il cugino di colore, Sandi. L’onda fluttuante non verrà mai

governata dal timone dell’instabile mente di Antoinette, per la eccessiva prevalenza dei contenuti

onirici che finiscono con il vanificare il processo di consapevolezza.

La distesa del mare dei Sargassi, che con la sua sterminata espansione di alghe, contribuì a

designarne la fama di “deserto galleggiante”, è associabile, come si è visto, all’imagery della

wilderness che affiora in numerosi fondali del romanzo: dal giardino-memoire di Coulibri allo

scenario nuziale della foresta di Granbois. Tutte queste implicite allusioni rivelano fino a che punto,

attraverso la politica di sfruttamento coloniale, il Giardino Edenico secolarizzato dal contratto

sociale è degenerato a selva ricoperta da viluppi di piante inselvatichite.

Il più importante riferimento al tropismo suggerito dalla proliferazione di alghe ( e di giungla

infestante) appare essere in associazione al sistema dello sfruttamento coloniale invasivo, e alla sua

irrimediabile fine. Il semantema “wilderness” designa altresì una condizione materiale di

abbandono che è tipica di un luogo deserto, che non è più oggetto di cura, tanto che già nelle

pagine introduttive il “passing” nella fattispecie è suggerito dalla progressiva decadenza

dell’insediamento coloniale nella tenuta edenica di Coulibri “All Coulibri estate had gone wild like

the garden, gone to bush. No more slavery – why should anybody work? ”(p. 5).

Bush si configura come parola chiave della letteratura coloniale, un comune “setting paradigm”

utilizzato tanto da Olive Schreiner quanto da Katherine Mansfield per evocare lo stato naturale

della macchia nei fondali coloniali sudafricani o neozelandesi. E in effetti il termine “wilderness”

può alternativamente evocare un’area selvaggia colta nella primitiva, edenica condizione dello stato

di natura, che precede l’opera di antropizzazione, ovvero l’inselvatichirsi e la desertificazione

susseguente all’abbandono di cure umane. Nel caso di Massacre, il villaggio postcoloniale dove

sostano Antoinette e lo sposo in luna di miele, la natura selvaggia suggerisce l’assenza di civiltà

umana, agli occhi dell’indigeno accompagnatore, mentre per l’uomo bianco ciò che è ‘
wild

appare tanto più minaccioso. L’insidia è celata nell’intricata rete dei viluppi che avanzano sul

territorio della piantagione di canna da zucchero andata in rovina. Ed è precisamente su quelle

tracce, ora cancellate, dell’antico lavoro negriero, nell’inestricabile viluppo di arbusti che si

oppongono alla strada, un tempo crocevia della piantagione, che il neo sposo, quale “revenant”

della narrazione brontiana, ritorna. Nelle vesti di Uomo Bianco, inquietante anti-eroe culturale

rovesciato dalla prospettiva destabilizzante, egli ritorna al mondo edenico-arcadico della colonia,

ma vano è il suo tentativo di affrontare la perfetta
wildlife. Dopo le ferite inferte dalla sistematica,

selvaggia opera di sfruttamento della natura, egli non potrà che smarrirsi nell’inestricabile turbine

mimetico. La Nemesi che opera su di lui come una vera e propria Nemesi, proprio a partire dalla

scoperta della civiltà della piantagione, ora soppiantata dalla giungla, gli dischiude un mondo, fatto

di codici animistici e visioni di trascendente bellezza, imperscrutabile alla luce delle categorie della

4[4] Franco Moretti, Atlante del romanzo europeo 1800-1900, Einaudi, Torino 1997, p. 62.

7

razionalità europea. Attraverso la caduta dell’idillio primordiale caraibico, emerge il motivo

soggettivo/oggettivo della fine dell’idillio in cui la vita emozionale e naturale un tempo trovava

conforto. Il dilemma del presente relativo alla incertezza epistemologica si inscrive entro una

cornice tipica definibile con il paradigma gotico di Anthony Luengo, lo “spazio romantico” che

privilegia, nella descrizione del paesaggio, la natura soggettiva della “rovina gotica”. Se leggiamo

correttamente fra le righe del contesto, il defunto sistema della piantagione, che Rocherster trova

nella foresta ormai invasiva, appare il correlativo oggettivo della malinconica reliquia del passato

medievale in cui l’ordine feudale si inscriveva. Nel
setting di Wide Sargasso Sea il sistema

architettonico è sostituito da quello della foresta tropicale che ha invaso i resti dell’opificio,

invasiva come le alghe marine del titolo: prende il posto del tetro castello medievale avviluppato dai

tralci di vegetazione inselvatichita, o dell’anfratto dell’antica abbazia ricoperta d’edera. Così si

genera lo
spleen o malinconica contemplazione, da parte dell’uomo moderno che non appartiene al

sistema invasivo della colonia, ma è evitabilmente condizionato dall’antinomia natura/cultura.

Il grande mare dei Sargassi è un sistema chiuso, esattamente come il sistema della piantagione che

si avvale di dilaganti contraddizioni, e laceranti ripetizioni. E’ un mondo di dominio e di

sopraffazione, di tensioni irrisolte, un dilagante mare di impenetrabili segreti, di villi e di gorghi

insidiosi fra i quali traccheggia l’io narrante, sia esso la voce di Antoinette o quella del tormentato

marito. Costituiscono comunque il legame con l’autore implicito, la scrittrice espatriata in cui si

rispecchiano le sue protagoniste alla deriva, il suo eroinismo rovesciato nella consapevolezza

dell’estraneità. In tutte le sue opere Rhys ritrae la stessa donna, alle prese con laboriose storie

d’amore e lavori impossibili, che sembra fluttuare sui tralci di dolorose esperienze dopo essere stata

trascinata dai flutti delle correnti dello scoramento, vuoi per circostanze di inevitabile fallimento,

vuoi per genetica instabilità di temperamento. In tale prospettiva, le alghe alla deriva costituiscono

uno spunto di riferimento esplicitamente costante rispetto al modello del determinismo ambientale.

Tutte le protagoniste sono accomunate dal sentimento di non appartenere, come l’autrice stessa

sottolinea con l’espressione “ Otherness itself”. In
Quartet Marya Zelli, un’inglese sposata con un

polacco come lei esule, si rivela progressivamente incapace di integrazione nel mondo cosmopolita

europeo.

Sylvie Maurel ha sapientemente annotato il carattere recessivo delle origini delle varie protagoniste,

le cui radici etniche appaiono confuse e disarticolate, o fluttuanti, “roots… are something you are

forever cut off from something you never return to” .
5[5] Questo tema è polarizzato sulla metaforica

delle alghe del sargasso: prive di radici e di stelo, estensivamente fluttuanti in uno stato intermedio

fra due mondi: la terra di nessuno. Del tutto analogamente, in
After Leaving Mr. Mackenzie, Rhys

ritrae l’apolide Julia Martin, un’inglese di madre sudamericana, che condivide il patrimonio

minimalista comune degli esseri marginali, degli esuli alla deriva, ciò che Julia Kristeva definisce

attraverso il termine l’
étrangeté.

Analogamente, Antoinette è un essere alla deriva, prigioniera com’è del viticcio di inevitabili

fallimenti. Incapace di emanciparsi dai legami familiari e dal pregiudizio di casta all’interno della

comunità caraibica, è intrappolata nelle maglie del determinismo ambientale. Il procedimento della

myse en abyme riguarda non solo il livello della somiglianza fisica fra madre e figlia, ma anche il

reiterarsi degli eventi indipendenti dalla loro volontà: entrambe sposano uomini di nazionalità

britannica e scivolano sempre più nella trappola del disordine mentale, della promiscuità sessuale e

dell’abuso di alcolici, in una parola nell’abbrutimento della dipendenza. Il vortice che le porta

all’isolamento sociale è suggerito dalla percezione del movimento di cui partecipano le alghe del

titolo (la fluttuazione /stagnazione) individuabile, nella prospettiva del ruolo autorale, come

inevitabile ripetizione della storia archetipa. Quello che effettivamente Rhys cerca di fare, è di

riappropriarsi dei protagonisti-deuteragonisti della storia-capostipite (Jane Eyre, Bertha Mason,

Edward Rochester), aggirando l’ostacolo della palude della ripetitività e della virtualità, attraverso

una manovra di accerchiamento, riscrivendone la fine e il fine: cioè, come ha scritto Rachel Blau

Du Plessis, forzando la storia affinché risulti aperta su un ulteriore punto di vista. Focalizzato a

5[5] Sylvie Maurel, Jean Rhys, St. Martin’s Press, 1998, p. 53.

8

poco a poco su quello della prima moglie, respinta e in seguito reclusa come folle conclamata,

affinché il sogno di conflagrazione dell’incendiaria appaia una risoluzione ad agire piuttosto che

una descrizione del suo ruolo marginale, estinto dal fuoco: il messaggio del ribaltamento di ruolo

fra colonizzatore e colonizzato si legge nell’andragogia della sfida finale, “Now at last I know why

I was brought here and what I have to do”- La prolessi che si configura è il segno del processo

rigenerativo. Definitivamente designata come portavoce della ribellione costruttiva femminista,

Antoinette non parla più come il pappagallo della cultura patriarcale suggerito dal centro

metropolitano della cultura patriarcale britannica, nata sulla scia delle Brontë.

Il finale aperto sul nuovo, possibile ruolo di appassionata rivendicatrice mostra a che punto la

decostruzione/ricostruzione del testo può portare, attraverso nuove correnti di comunicazione

rigenerativa nel vasto, stagnante non-luogo della superiorità coloniale.