L'occupazione militare e le colonie o Hamas sono di ostacolo alla pace?
di Giancarlo Paciello - 14/01/2009
Fonte: comunitarismo
1. Premessa. 2. Il nazionalismo palestinese. 3. Il movimento islamico palestinese 4.
L’Intifada. a) La generazione dell’Intifada b) L’organizzazione c) La strategia 5. Medio Orientein guerra 6. Il processo di pace. 7. Camp David e
l’Intifada al-Aqsa. 8. Repetita juvant. 9. Leragioni della vittoria elettorale. 10.Reazioni e commenti 11. Conclusioni
1. Premessa
La vittoria di proporzioni del tutto inaspettate di Hamas alle elezioni palestinesi ha creatouna situazione decisamente nuova nei Territori (illegittimamente) occupati da Israele, nelle
cancellerie di tutto il mondo, in Israele, nei Territori, tra coloro che sostengono in vario modo la
lotta del popolo palestinese e anche tra coloro che non la sostengono. Delle reazioni a questa
situazione parlerò nella parte finale di questo articolo, ma prima cercherò di ricostruire il quadro
(e le origini) dell’islàm politico palestinese, proprio per non cedere alle reazioni istintive (eprobabilmente sbagliate) che pure mi pare contribuiscano in grandissima maggioranza alla
valutazione dell’evento. Confesso di misurarmi per la prima volta con un’analisi “all’interno”
della realtà palestinese, avendo privilegiato, come scelta metodologica, il riferimento al popolo
palestinese nel suo complesso e alle sue vicissitudini occorse con la nascita del sionismo
politico e la relativa colonizzazione della Palestina prima e alla partizione della Palestinamandataria da parte dell’ONU poi. Mi auguro quindi di non commettere errori troppo vistosi,pur nella consapevolezza di percorrere un terreno assai accidentato. Sicuramente eviterò
l’errore, questo si irreparabile, di farmi tifoso di questa o quella posizione del “campo
palestinese”. Elemento centrale di questa analisi sarà l’Intifada del 1987, cui dedicherò la partepiù corposa dell’articolo, e che ritengo essere stata un momento di svolta nel quadro della lotta
per la liberazione nazionale, che i palestinesi portano avanti ormai da quasi quarant’anni, in
particolare contro l’occupazione (che dura dal 1967) e contro la colonizzazione dei Territori
occupati.
2. Il nazionalismo palestinese
Il rilancio dell’islàm in quanto religione, ideologia e politica sociale nei paesi musulmani(e cioè a maggioranza musulmana), e in quelli islamici (quelli cioè che hanno fatto dell’islàm il
fondamento della loro legittimità), può essere datato dalla rivoluzione iraniana, guidata da
Khomeini, del 1978-9. Ma nei Territori (illegittimamente) occupati da Israele, diverse ragioni
hanno impedito, o meglio ritardato questo rilancio. L’assenza di uno Stato palestinese ha fatto
del nazionalismo il fondamento della lotta armata e della battaglia politica, sia all’interno che
all’esterno, e dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), il rappresentantelegittimo ed unico. Di fatto, il sentimento di appartenenza nazionale è stato (ed è) talmentepreponderante nell’identità palestinese che l’
islàm, uno dei pilastri di questa identità, ha finitoper restare in ombra per gli stessi palestinesi. Inoltre gli islamici, che facevano riferimento alla
tradizione dei Fratelli musulmani, in un primo momento non hanno avuto aspirazioni
rivoluzionarie, preferendo sopperire alle carenze dell’occupazione militare in ambito sociale, esviluppando perciò una strategia che puntava alla conquista della società civile. Finanziati
dall’Arabia Saudita e dal Kuwait, puntavano ad una reislamizzazione dal basso che individuavanelle donne senza velo, negli spacci di bevande alcoliche, oltre che nei laici e nel partito
comunista i loro ostacoli.
Non che non esistesse una posizione radicale contro lo Stato d’Israele. Sul piano teorico,partendo dalla considerazione che occorreva salvaguardare l’islàm dagli attacchi ripetutidell’Occidente (da più di un secolo) e tenendo conto che lo Stato d’Israele rappresentava il
momento più avanzato di questo attacco, era necessario respingere la minaccia occidentale,
annientando l’entità sionista. Ma nella pratica, fino alla prima Intifada, gli islamici non si sonoopposti in alcun modo all’occupazione, perdendo così ogni legittimità politica fino ad essere
accusati talvolta di complicità con il sionismo. Figuratevi che Arafat, e siamo ad una intervista
dell’11 ottobre 1993 ad Algérie Actualité, dichiarò, a proposito degli islamici palestinesi: “èRabin che ha permesso il loro attivismo, vietando a ogni militante – fosse pure un bambino – di
agire in nome dell’OLP”. Per aggiungere poi che gli islamici “sono una creazione del governoisraeliano”.Quest’ultima affermazione, a mio parere, non è vera nella sostanza. E’ sicuramente vero
che la politica d’Israele nei confronti degli islamici ha puntato al rilancio di un contropotere
islamico e conseguentemente all’indebolimento dell’OLP. L’intento israeliano era chiaramente
quello di permettere ai religiosi e ai movimenti islamici di estendere il campo delle loro attività
e di legittimarsi tra la popolazione araba, con la speranza di ridurre l’influenza e il sostegno di
cui godevano le forze nazionaliste e in particolare l’OLP. Ma è altrettanto vero che il rilancio
islamico è un prodotto della politica israeliana di occupazione. La politica di confisca delle terre
e delle risorse naturali ha portato migliaia di contadini palestinesi nei campi profughi, dove le
pessime condizioni di vita richiedevano servizi sociali di ogni tipo che gli islamici erano in
grado di fornire, restituendo anche una dignità a queste masse diseredate.
Con lo scatenarsi della prima Intifada, Hamas e la Jihad islamica avvieranno un processoche, con il fallimento del processo di pace, farà loro prendere il posto dei fedayn dell’OLP,trasferendo sul terreno culturale e simbolico, oltre che militare, la dinamica nazionale avviata a
suo tempo dalla prima generazione dei nazionalisti laici.
Dopo la firma degli accordi di Oslo (13 settembre 1993) respinti sia dagli islamici sia da
alcune componenti dell’OLP, contrari al processo di pace, si è poi temuto che l’ANP (AutoritàNazionale Palestinese) potesse arrivare ad uno scontro con Hamas. Un altro momento difrizione forte si verificherà nel 1996, quando
Hamas inviterà i palestinesi a boicottare le elezionipresidenziali e legislative indette dall’ANP, producendo un effetto del tutto contrario a quello
sperato. Il risultato sarà una vittoria schiacciante di Arafat.
Sia detto per inciso, queste ultime, del 25 gennaio 2006, non sono state perciò le prime
elezioni democratiche in Palestina. Le elezioni del gennaio 1996, (altrettanto se non più
democratiche, perché meno in balia della potenza occupante), secondo me, non espressero il
reale rapporto di forza tra nazionalismo e islamismo, tra al-Fatah e Hamas, poiché gli elettori
espressero una preferenza quasi esclusiva ai candidati originari del loro spazio di solidarietà
(villaggio, gruppo di villaggi, quartiere o campo) a scapito dell’orientamento politico.
3. Il movimento islamico palestinese
Aldilà dei pregiudizi derivanti più dall’immaginario occidentale che dalla realtà politica
del movimento islamico palestinese, pregiudizi che dominano nei media e anche tra gliintellettuali di casa nostra, mi sembra, come ho già accennato prima, di poter definire il rilancio
islamico in Palestina come il trasferimento della lotta armata del movimento nazionalista, che ha
optato per il ramoscello d’ulivo, al movimento islamico, radicalizzatosi dopo la prima Intifada,volendo sostenere con questo che la spinta essenziale in Hamas è il nazionalismo e non l’islàm.Questo rilancio ha origini lontane, è in sostanza il prodotto della colonizzazione ebraica, della
occupazione britannica nel 1917 della Palestina, dell’esperienza dei rifugiati del 1948,
dell’amministrazione egiziana e giordana del 1948-67, dell’occupazione israeliana dopo il 1967,
dell’esperienza del nazionalismo palestinese, dell’Intifada ed infine del processo di pace. Miripropongo di percorrere, in un futuro articolo, le tappe di questo rilancio. Ora, mi limiterò a
richiamare brevissimamente, la nascita di quel movimento, i Fratelli musulmani, dal quale
questo rilancio ha preso le mosse.
Nel suo bel libro, uscito postumo, “Il mondo islamico. Breve storia dal Cinquecento adoggi”, Pier Giovanni Donini, nell’introduzione, fa una semplice osservazione dicendo che:
“… la seconda parte della storia dei musulmani, quella che arriva ai nostri giorni, si
potrebbe sintetizzare nel confronto tra due cartine schematiche. La prima mostra la diffusione
attuale dei musulmani nel mondo, la seconda quella dei cristiani. Lasciando da parte per ora
qualche questione di qualche importanza (queste mappe sono attendibili? Come si misura la
qualità di cristiano o di musulmano?) e accontentandosi di una prima approssimazione, si
rimane colpiti dalla constatazione che, salvo eccezioni da considerare tra un attimo, la prima è
una mappa dei paesi che hanno subito una dominazione coloniale, la seconda è quella dei paesi
che l’hanno esercitata. L’eccezione più notevole è rappresentata dalle Americhe, dove la
presenza dei musulmani nelle ex-colonie britanniche, francesi, spagnole, portoghesi, olandesi e
così via, in sostanza trascurabile”.E’ questo, a mio parere, l’aspetto più importante da mettere in evidenza quando si parla
del Medio Oriente e in particolare delle lotte anticolonialiste che vi si sviluppano, e non soltanto
l’islàm e le istanze islamiche poste dalle popolazioni coinvolte.Siamo in Egitto, immediatamente dopo la conquista dell’Impero ottomano da parte di
Francia e Gran Bretagna, dove il tallone di ferro britannico preme da più di 35 anni. Dopo
violenti disordini, nel 1919, nasce il Wafd (Delegazione), in origine proprio una delegazione di
notabili egiziani che intendeva partecipare alla Conferenza di pace a Versailles, un movimento
di massa che si batte per l’indipendenza dell’Egitto. Nel 1922, la Gran Bretagna concesse
unilateralmente l’indipendenza, ma condizionandola pesantemente. Nel 1923 l’Egitto divenne
una monarchia, e le elezioni furono vinte dal Wafd. La Gran Bretagna cercò allora di
coinvolgerlo in un trattato a tre, ma nello stesso tempo, stimolò le confraternite religiose ed
alcuni notabili a costituirsi in partito, per fronteggiare il Wafd, che era essenzialmente laico. Si
trattò dell’applicazione di un metodo classico per gli stati coloniali, cui faranno ricorso anche
Israele, nei Territori (illegittimamente) occupati e i regimi arabi per impedire o almeno ritardare
la nascita di uno spazio civile, laico e democratico. E che costituirà un dato costante nella storia
del Medio Oriente.
Passeranno ancora cinque anni prima che la componente religiosa si organizzi. Nel marzo
del 1928, ad Ismailia, un giovane istitutore, Hassan al-Banna, getta le basi di quella che
diventerà l’associazione dei Fratelli musulmani. Per i Fratelli musulmani, l’islàm è ad un tempodogma, convinzione, culto e patria, cittadinanza, tolleranza e forza, morale e cultura, ed infine,
legge. La crescita di questa organizzazione è assai rapida. Nel 1949 raggiungerà, secondo
Jacques Berque, i due milioni di adepti. Si capisce allora perché desterà l’attenzione degli
“Ufficiali liberi” in Egitto e anche quella dell’élite palestinese presente al Cairo negli annicinquanta. E sia Sadat che Arafat ne faranno parte.
Concentriamoci ora sull’evento più importante per la storia del popolo palestinese e che ne
ha segnato definitivamente la sua lotta per l’indipendenza.
4. L’Intifada
Nel corso dei primi mesi del 1987, dopo venti anni di occupazione militare, niente lasciava
prevedere quanto sarebbe successo alla fine dell’anno e cioè quello straordinario movimento di
massa noto in tutto il mondo con il nome di Intifada. Aldilà di qualche sporadico lancio di pietre
contro veicoli israeliani, in realtà vi erano state alcune azioni importanti organizzate dai
palestinesi, in particolare uno sciopero della fame di alcune centinaia di prigionieri che
intendevano protestare in primo luogo per la loro condizione in carcere, ma anche contro
l’occupazione israeliana, iniziativa questa sostenuta da diversi settori della società. C’erano stati
sit-in permanenti di parenti ed amici davanti alla sede della Croce Rossa a Gerusalemme, corteidi studenti, diverse petizioni. Era l’aprile del 1987. Ma, per tutta risposta, il governo israeliano
accentuò la sua politica repressiva, chiudendo anche l’università di Bir-Zeit.
In questo contesto, Arafat convocò ad Algeri il Consiglio Nazionale Palestinese (C.N.P.)
per tentare di ricostituire quell’unità dell’OLP, messa fortemente in crisi dopo la cacciata da
Tripoli (Libano, 1982) delle forze fedeli ad Arafat. Il 25 aprile si giunse ad un accordo, e anche
se regnava un notevole scetticismo sulla effettività degli impegni presi, si poteva pensare che
l’attenzione del CNP si sarebbe concentrata su Cisgiordania e Gaza. Ma tutto questo si potrà
cogliere soltanto dopo lo scoppio dell’Intifada. L’estate del 1987 passò senza avvenimentiimportanti. Nell’autunno poi, i palestinesi poterono constatare una volta di più che nessuno si
interessava alla loro causa. Al vertice arabo di Amman i partecipanti volevano occuparsi
soltanto della guerra Iraq-Iran e Arafat venne trattato come un intruso di cui non si sapeva che
fare. A livello mondiale, i palestinesi non compariranno mai nell’agenda Reagan-Gorbaciov.
L’otto dicembre si verifica a Gaza un brutto incidente stradale: un camion militare
israeliano urta violentemente due automobili palestinesi provocando la morte di diversi
passeggeri. Subito corre voce per la città e nei dintorni che non si tratta di un incidente, che
l’autista del camion ha voluto uccidere deliberatamente. Tra le voci, ne circola una che
attribuisce all’autista la volontà di vendicare un colono ucciso qualche giorno prima. Il giorno
dopo, 9 dicembre 1987, nascono le prime manifestazioni, durante le quali due ragazzi restano
uccisi e una trentina feriti… Nessuno lo sapeva ancora, ma era il primo giorno dell’Intifada.
a) La generazione dell’Intifada
Ma chi sono i protagonisti di questa rivolta? Sono giovani ed è proprio questa
caratteristica che ha permesso al mondo di vedere sotto una nuova luce un vecchio problema.
Adolescenti che, all’improvviso, si organizzano in massa per prendere a sassate i soldati, èquesta l’immagine forte e simbolica che ha colpito l’opinione pubblica internazionale, e anche,
ma meno, i responsabili politici di numerosi paesi. La generazione dell’Intifada è la prima natasotto l’occupazione militare. Prima c’era quella della fine degli anni 1960, che era stata
affascinata dal mito della lotta armata, al punto di immaginare che la liberazione fosse sulla
canna del fucile. Prima ancora c’era stata quella, della fine degli anni 1940, che aveva perduto
tutto, per ritrovarsi in esilio o in minoranza sulla propria terra.
Buona parte dei giovani del 1987 sono perciò i nipoti dei rifugiati della guerra del 1948:
sono nati in un contesto segnato dall’accumularsi delle disillusioni, relative ai molteplici
insuccessi dei loro genitori. Tutti sono cresciuti in un sistema chiuso che non ha concesso loro
alcun diritto e assai poche prospettive per il futuro, perché l’occupazione sembra così potente da
essere ritenuta da molti irreversibile. Per tutti questi anni essi hanno imparato a non contare se
non su loro stessi, dal momento che le solidarietà espresse sono sempre rimaste sul piano
puramente verbale, a partire da quelle degli Stati arabi.
Ora, che sia la gioventù a ribellarsi, non può essere considerato un fatto originale, visto
che tutti i grandi movimenti storici ne sono stati segnati, ma la specificità dell’Intifada sta nelfatto che i giovani sono all’origine stessa del suo scoppio e che hanno agito proprio per prendere
nelle loro mani il loro destino, o almeno per influenzarne il corso. Questo slancio fu, ad un
tempo, spontaneo e creativo perché è stato necessario inventarne le forme e non soltanto
raggiungere strutture esistenti come avevano fatto i loro adulti nel 1968, unendosi alle
organizzazioni della resistenza.
I giovani che per primi sono entrati in azione sono originari dei campi-profughi, luoghi
dove l’intensità delle frustrazioni è molto, molto più alta che altrove. Infatti, a differenza di chi è
nato a Nablus, a Hebron o a Ramallah, in un ambiente con delle radici, il giovane cresciuto in
un campo non ha mai conosciuto una struttura sociale coerente, perché la sua famiglia è dovuta
fuggire da quello spazio dove aveva vissuto per poi finire in questa specie di terra di nessunodell’esistenza, costituita dai campi-profughi. Per questi giovani un simile contesto è disperantee, per molto tempo, l’unica aspirazione sarà quella di andarsene a vivere altrove.
Con l’Intifada, le cose si sono trasformate: i campi, da simboli di miseria e rassegnazione,sono diventati esempi di resistenza e dunque di identità. Da allora, ogni palestinese dichiara con
fierezza il campo di provenienza. E tutti questi giovani, dei campi, dei villaggi e delle città non
solo non rimarranno isolati dal resto della popolazione, ma riusciranno a raccogliere intorno a
loro tutta una società attraversata da numerose contraddizioni sociali e politiche. Riusciranno
così anche a guadagnarsi il sostegno morale dei loro genitori restituendo loro in cambio una
dignità. Da anni infatti la società palestinese viveva raggomitolata su sé stessa, mentre la
maggior parte dei suoi componenti restava in attesa, nella paura di fare qualcosa che lo additasse
alle autorità dell’occupazione. Non che non continuassero le attività di resistenza, ma nella
primavera del 1987 nessuno intendeva superare una certa soglia di mobilitazione. Ora si agitava
un settore, ora un altro, ma mai l’uno e l’altro insieme e senza alcuna sistematicità.
L’innovazione decisiva della sollevazione di dicembre consiste proprio nella rottura con il
passato. In poche settimane, l’Intifada conquista tutti i segmenti della società. Ciascuno si
coinvolge a suo modo, in funzione della sua sensibilità, dei suoi percorsi personali, del suo
statuto sociale. Tutte le città entrano in azione e così i villaggi, rompendo quella dicotomia
città/campagna sulla quale le autorità israeliane avevano costruito tanti piani per tentare di
metterle l’una contro l’altra. L’effetto di trascinamento è irresistibile. Tutti i settori della società
si ribellano, Per la prima volta, il rapporto oppressore/oppresso non svolge più quella funzione
di condizionamento psicologico e l’oppressore non è più lo stesso agli occhi dei palestinesi, che
si scoprono essi stessi diversi. La gioventù, con la sua tranquilla audacia, ha provocato unavera catarsi di tutta la società.E si tratta di un sentimento profondo. I giovani si lanciano in questa lotta come se tutta la
loro esistenza dipenda da essa, al punto che per molti di loro, l’Intifada diventa un modo divivere, un modo di sognare, una sorta di base materiale del loro immaginario. In un tale
contesto, c’è poco spazio per la paura, anche se saranno tantissime le occasioni per trovarsi con
la gola stretta e il cuore in gola.
b) L’organizzazione
Molto rapidamente nasce un’organizzazione complessa ed efficace a tutti i livelli. E il
carattere di questa struttura è del tutto spontaneo, senza però dimenticare le feconde esperienze
accumulate nel passato, dal momento che mai il terreno sociale era stato lasciato incolto ed eraperciò ampiamente strutturato, in particolare per quanto riguardava la medicina, l’agricoltura e
l’istruzione tramite molteplici associazioni più o meno legate a un movimento politico, che
spesso forniva loro i quadri necessari per l’attività specifica.
C’è però un altro fattore assai importante che spiega questa capacità di autoorganizzazione
del movimento. Tutti o quasi gli individui coinvolti nella lotta sono strettamente
legati al loro partito, e non si tratta di una semplice adesione formale, ma di un’appartenenza
fortissima che conferisce all’individuo una parte importante della sua identità sociale, oltre che
una garanzia, e cioè che alla sua fedeltà politica corrisponderà la sicurezza di un sostegno in
caso di bisogno. Questo attaccamento alla fazione, che ha tutti i suoi aspetti negativi nel
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contribuire a conservare (e a volte ad esacerbare) le divisioni all’interno del movimento
nazionale, risulterà però indubbiamente uno strumento assai efficace di mobilitazione collettiva,
fornendo infatti un quadro istituzionale vicino agli individui, che possono così più facilmente
riunirsi intorno ai vari nuclei esistenti, scegliendo in questa rete concorrenziale di lottaideologica chi meglio esprima la loro sensibilità.E così, in ogni quartiere delle città, in ogni villaggio, in ogni campo, per ognuno c’è la
possibilità di aggregarsi ad un movimento già organizzato, contribuendo al suo sviluppo e alle
sue azioni. Fin da subito, nascono comitati popolari sia in Cisgiordania che a Gaza, capaci di
garantire la continuità e l’efficacia dell’iniziativa e nello stesso tempo di drenare tantissimepersone. Intorno ai più esperti nascono luoghi di raccolta e, con la scoperta di nuovi bisogni,queste strutture assumono molteplici funzioni sociali e politiche, per fornire cure mediche, per
garantire gli approvvigionamenti in previsione del coprifuoco, per mettere in piedi circuiti
alternativi alla chiusura delle scuole, per aiutare la popolazione a sviluppare un’agricoltura
domestica, per rendere operative le direttive del Comando unificato.
A poco a poco, i comitati appariranno agli occhi dei partecipanti come un abbozzo di
strutture alternative, capaci di sostituirsi all’amministrazione israeliana. Questa prima fase (i
primi mesi del 1988), corrisponderà ad un periodo di grande entusiasmo popolare, e saranno in
tanti a pensare come prossimo il ritiro dell’esercito israeliano e quindi, la creazione dello Stato
palestinese. Con il passare dei mesi però, si capirà che nulla sarebbe stato così semplice, e che
era estremamente importante affrontare le sofferenze e le difficoltà, tanto più che le autorità
israeliane cominciavano a reprimere brutalmente i vari gruppi che si formavano, avendone colta
la pericolosità.
Si pensi che, già nel mese di agosto, queste strutture vengono dichiarate illegali con
l’esplicito intento di colpirne con pesanti condanne i loro membri ed indebolire così il
movimento. Nei loro confronti si attua anche la detenzione amministrativa (ti tengo dentroanche se non ti accuso di nulla!), e in alcuni casi l’espulsione.A questo punto i comitati si trasformano per essere più efficaci, si strutturano e, proprio
per poter resistere alla repressione, diventano clandestini. Con il risultato di ridursi
quantitativamente e di risultare sotto il controllo delle quattro formazioni politiche nazionaliste
più importanti: al-Fatah, FPLP, FDLP e il partito comunista. L’aspetto più importante di questa
fase è che, mettendo da parte il contenzioso esistente tra di loro, queste forze si muovono di
concerto all’interno della popolazione palestinese. In parte ciò è anche dovuto al fatto che fanno
parte dell’OLP e che la pratica sul terreno è relativamente omogenea.
La questione dell’unità risulta assai più delicata quando riguarda i rapporti tra nazionalisti
ed islamici. Questi sono organizzati in due gruppi sostanzialmente: Hamas e la Jihad. Hamas
(zelo o coraggio) è l’acronimo che sta per Movimento della Resistenza Islamica, si dichiaraun’ala dei Fratelli Musulmani in Palestina, è riuscita a diffondere sensibilmente la sua influenza
nel corso dell’Intifada, fino a diventare la seconda forza politica, dopo al-Fatah. E’ moltopresente nei campi-profughi, nella regione di Tulkarem e Nablus nel nord della Cisgiordania e
ad Hebron al sud. La sua roccaforte è a Gaza.
La Jihad è viceversa un piccolo gruppo, o un insieme di piccoli gruppi, costituita da
militanti assai radicali, che fin dal 1986 avevano deciso di passare all’azione violenta contro lo
Stato d’Israele. Contro di essa si era scatenata una repressione implacabile che era costata la vita
ai suoi elementi di maggior spicco. Con l’inizio dell’Intifada il gruppo metterà da parte la lottaarmata per non compromettere il successo del movimento popolare basato sulla non-violenza o
forse anche per lo stato assai provato delle sue forze. Cosa lo divide da Hamas? Essenzialmente
il metodo da adottare contro Israele, mentre sui principi generali dell’analisi sviluppa temi del
tutto analoghi, decisamente contrapposti alle tesi nazionaliste.
Per evidenziare in modo sintetico le differenze tra islamici e nazionalisti metterò a
confronto su alcuni punti essenziali due documenti nati negli ultimi quattro mesi del 1988, e
cioè la Carta di Hamas dell’agosto e i testi adottati dall’OLP al CNP di Algeri in novembre. In
quel contesto, l’OLP, accettando la risoluzione 242 dell’ONU riconosce implicitamente Israele
e vuole creare uno Stato palestinese a fianco di quello ebraico. La dichiarazione d’indipendenza
dello Stato palestinese si pronuncia inoltre per:
“un regime parlamentare democratico, basato sulla libertà di pensiero, la libertà dicostituire partiti, il rispetto da parte della maggioranza dei diritti della minoranza e il
rispetto da parte della minoranza per le decisioni della maggioranza”,mentre la carta degli islamici preconizza invece:
“la creazione di uno Stato islamico che verrà proclamato dall’alto delle moschee”e ritiene che:
“la Palestina è una terra santa islamica, attribuita alle generazioni di musulmani fino allafine dei tempi; non la si può abbandonare in tutto o in parte, o rinunciare ad essa in tutto
o in parte…”Dunque, l’idea della divisione di questa terra, comprendente due Stati, uno a fianco
all’altro, viene respinta in assoluto così come viene respinto il progetto di uno Stato democratico
pluralista.
Per realizzare i suoi obiettivi l’OLP punta su di una conferenza internazionale. La
dichiarazione politica della XIX sessione del CNP afferma la necessità di:
“convocare una conferenza internazionale, il cui centro sia la questione palestinese, sottol’egida delle Nazioni Unite e con la partecipazione dei membri permanenti del Consiglio
di Sicurezza e della totalità delle parti in conflitto nella regione, ivi compreso l’OLP…”Gli islamici respingono radicalmente un simile approccio:
“le iniziative e tutto ciò che viene qualificato come soluzione per la pace, ivi comprese leconferenze internazionali per regolare il conflitto palestinese sono contrarie ai principi
del Movimento della Resistenza Islamica…Queste proposte sono del tutto inutili”,dal momento che è loro intenzione:
“impiantare il problema della Palestina nel cervello di generazioni di musulmani comeproblema religioso…E’ su questa base che va trattato”.Non mi sembra necessario aggiungere altro, per dimostrare l’inconciliabilità tra le due
posizioni e dunque l’impossibilità di operare nelle stesse strutture. Ma, benché in disaccordo su
tutto, gli islamici evitano in ogni modo di entrare in conflitto con i nazionalisti. E poi,
nonostante tutto, nella pratica, non è impossibile scoprire convergenze (personali, tattiche,
ideologiche o politiche) fra correnti di fazioni diverse… Ad esempio, si colgono facilmente
legami esistenti tra gruppi di al-Fatah e della Jihad islamica.
Fin dalle prime settimane del movimento, nasce una struttura di direzione al livello
dell’insieme dei Territori. Nasce dove nessuno se l’aspettava, al di fuori della rete di
collegamenti in cui si collocavano le personalità politiche vicine all’OLP. Anzi, per un certo
periodo, questi personaggi verranno marginalizzati da questa direzione, capace di trarre la sua
legittimità direttamente dalla popolazione e non dalla prossimità all’OLP. Questa nuova
struttura appare immediatamente come il centro politico dell’Intifada, cui fanno capo le quattro
organizzazioni nazionaliste. La Direzione unificata garantisce il ruolo centrale di orientamento e
di regolazione dell’insieme del movimento: all’incirca due volte al mese, pubblica dei
comunicati che vengono immediatamente utilizzati dalla popolazione e dalle varie strutture
locali come guide per le iniziative da prendere. Rappresentano le direttive dell’Intifada.
Le autorità israeliane le proveranno tutte pur di mettere le mani su questi nuovi dirigenti,
tanto più inquietanti in quanto sconosciuti. E anche se la macchina repressiva israeliana riuscirà
ad individuarne e ad arrestarne qualcuno, ciò servirà a poco perché i membri di questa direzione
sono soltanto i rappresentanti della loro organizzazione: se qualcuno viene incarcerato, altri li
sostituiscono. I comunicati finiranno con l’essere redatti a turno da ciascuno dei quattro gruppi
politici, per poi sottoporli agli altri. Una Direzione unificata assolutamente introvabile.
I suoi responsabili entreranno rapidamente in contatto con l’O.L.P. che per la prima volta
dopo il 1967, dovrà misurarsi con un’istanza politica dell’interno in grado di parlare a nome di
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tutta la popolazione dal momento che rappresentava tutti i gruppi ed era riconosciuta da tutti
come l’espressione politica di un potente movimento di massa. E’ certo che, in un primo
periodo, l’autonomia della Direzione ha prevalso e i suoi comunicati sfuggivano perciò al
controllo dell’O.L.P., in particolare il giudizio estremamente negativo nei confronti della
Giordania, che non poteva essere condiviso dall’OLP. Questo periodo di autonomia è durato,
più o meno, fino all’estate del 1988, anche se tutto questo non ha impedito stretti accordi con la
Direzione e Abou Jihad che ha svolto un ruolo considerevole.
In seguito, l’influenza dell’OLP si consoliderà. Il CNP del novembre 1988 segnerà una
tappa importante nella natura dell’articolazione tra l’esterno e l’interno. A partire da
quell’evento infatti l’OLP disporrà di una linea strategica chiara e il coordinamento tra le sue
iniziative diplomatiche e gli orientamenti del movimento diventano sempre di più un problema
politico importante. Tunisi interviene ormai in maniera preponderante anche se i responsabili
palestinesi dell’interno affermano la loro volontà di far sentire la loro voce e di conservare
l’ultima parola per alcune azioni sul posto.
c) La strategia
La linea assunta dai dirigenti dell’Intifada è in aperta rottura con i principi che avevano
guidato, fino a quel momento, la lotta del movimento nazionale palestinese. Tutta la
problematica era stata infatti orientata alla lotta armata, divenuta ormai un vero mito
dell’ideologia palestinese di resistenza degli anni 1970. Mito che continuerà ad avere il suo
potere d’attrazione, ma che nel periodo della prima Intifada, apparirà relegato nella memoria dei
palestinesi.
Eppure, quando nel 1985, Moubarak Awad aveva aperto a Gerusalemme un centro-studi
sulla non-violenza, questa sembrava del tutto estranea al mondo palestinese, e anzi
l’atteggiamento nei confronti dell’ideologo era al limite del disprezzo o della condiscendenza.
Le idee da lui propugnate sembravano allora fuori dalla storia, anche se a rileggerle si
dimostrano assai lucide:
“la non-violenza – scriveva – è una vera guerra contro un avversario, perché il suoutilizzo non implica evidentemente che egli non risponda con la violenza. Questa
strategia comporta perciò un costo elevato in vite umane, in feriti, in perdite materiali di
ogni genere… Essa non è passiva ed esige molti sforzi organizzativi; deve essere
concepita in segreto, con rigore e disciplina... I palestinesi soffriranno ma queste
sofferenze contribuiranno a forgiare l’unità sociale e nazionale”.E più avanti, sempre in questo documento del 1985, analizzava come organizzare al
meglio le manifestazioni, i boicottaggi, gli scioperi, la solidarìetà, il rifiuto di collaborare con
l’occupante senza dimenticare la creazione di istituzioni alternative e l’organizzazione
sistematica della disobbedienza civile.
Poco importa in definitiva di sapere se Moubarak Awad abbia svolto un ruolo importante
nella concezione della strategia dell’Intifada come ritenevano gli israeliani che pensarono bene
di espellerlo; un simile movimento non può in ogni caso essere ispirato da un uomo solo, del
resto assai isolato. Quello che importa è che queste frasi scritte più di tre anni prima che
scoppiasse l’Intifada, riassumono bene la strategia messa in atto dal movimento.
Le direttìve lanciate dalla Direzione unificata sono infatti, in grande maggioranza, appelli
ad azioni non violente. Si possono raggruppare in quattro categorie principali che costituiscono i
cardini di questa strategia e che analizzeremo una per una:
- il confronto mediante lo sciopero e la manifestazione,
- la non cooperazione amministrativa con l’occupante,
- la ricerca dell’autosufficienza economica
- il valore simbolico dell’Intifada.
La continuità dell’Intifada è tale che è più conveniente analizzarla non tanto come un
movimento nella società palestinese nei Territori occupati, quanto piuttosto come un movimento
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dell’intera società. Non si tratta di scioperi o manifestazioni che nascono qui o là. Si tratta
piuttosto di un modo di organizzarsi, nel quale la manifestazione o lo sciopero (tra le altre cose)
sono diventati un modo d’essere, una forma d’esistenza, un altro tipo di vita sociale. E la
Direzione unificata dovrà misurarsi ogni giorno con una domanda essenziale: come lanciare
iniziative efficaci per animare, rendere dinamica, strutturare la resistenza di tutta una società.
Ciò comporterà innanzitutto che venga mantenuto in permanenza una certa pressione
sull’esercito israeliano. Di qui gli appelli costanti a organizzare qui e là manifestazioni e
scioperi. Passiamo ora ad analizzare i cardini su cui ruota la strategia.
- il confronto mediante le manifestazioni e lo sciopero
All’inizio si trattava di imponenti raggruppamenti di folla, e all’interno di esse, i giovani
lanciatori di pietre svolgevano il ruolo motore. Un anno dopo non si vedranno più simili
assembramenti. Ormai l’esercito spara su qualsiasi manifestazione importante, e quindi le
iniziative di massa avvengono a un livello ridotto oppure ci sono piccoli gruppi che attaccano
l’esercito con pietre o altri strumenti. Si tratta di gruppi d’assalto che dal primo gennaio 1989
sono stati ribattezzati “esercito popolare”. Gli scontri, in questi casi, sono molto più brevi,anche se molto più violenti e purtroppo in numero di morti e feriti rimane costante…
I,o sciopero è un altro mezzo di confronto collettivo diretto. In questo caso il ruolo
principale lo assumono i commercianti. Fino allo scoppio della rivolta, questo segmento della
piccola borghesia palestinese, non era mai stato in prima fila nella lotta contro l’occupazione
israeliana. Per smuoverli era spesso necessario che i responsabili dovessero cercare di
persuaderli circa la necessità di fare un gesto. E solo così intervenivano poi puntualmente
accettando di abbassare le loro saracinesche per un giorno (o anche più), in segno di protesta
contro una certa misura repressiva decisa dagli israeliani. Il loro atteggiamento aveva già
cominciato a cambiare qualche anno prima, quando il governo israeliano aveva istituito la TVA
(la nostra IVA) nei territori.
Questa misura fiscale li aveva colpiti come una frustata, perché dovevano subirne la quota
più grande. Quando la Direzione unificata ordinò il boicottaggio delle tasse, essi si lanciarono
rapidamente in questa lotta in cui i loro interessi economici erano legati immediat