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Ma è proprio vero che la «Fisica» di Aristotele ha ritardato la nascita della scienza?

di Francesco Lamendola - 17/01/2009


È opinione corrente, non solo presso il vasto pubblico ma anche presso gran parte dei cosiddetti specialisti, che l'affermazione della «Fisica» di Aristotele, non solo nella cultura del mondo antico,  ma anche lungo tutto il Medioevo, abbia costituito un fattore oggettivo di ritardo nella nascita della scienza.
Ma è un'accusa pertinente? E, soprattutto, è formulata in termini filosoficamente corretti?
Vediamo.
Si afferma, da quanti sostengono la tesi suddetta, che la vittoria - anzi, il "trionfo" - di Aristotele, e più ancora, dei suoi pedanti e ottusi seguaci, ha significato la "sconfitta" dell'unico sistema di fisica elaborato dal pensiero greco che avrebbe potuto mettere la scienza nella direzione che, duemila anni dopo, sarebbe stata imboccata da Galilei, da Francesco Bacone, da Cartesio e, poi, da Newton: ossia - sempre a parere di costoro - lungo la linea di sviluppo che avrebbe accompagnato la scienza nella giusta direzione, quella che nel XX secolo è culminata con Einstein e con la scoperta delle particelle subatomiche, rivoluzionando le nostre idee sulla fisica «classica».
Potremmo discutere a lungo - ma non sarebbe questa la sede adatta - se davvero la fisica einsteniana e la fisica quantistica indirizzino la scienza lungo la linea indicata da Galilei e dalla cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo; o se non suggeriscano, al contrario, non solo una profonda revisione del modello di universo da quest'ultima proposto, ma anche dei suoi inevitabili corollari epistemologici e, in genere, filosofici.
Quello su cui ci preme riflettere, per adesso, è verificare la plausibilità dell'accusa mossa ad Aristotele, di aver ritardato non solo il progresso, ma addirittura la nascita della scienza; o se, invece, egli non abbia ritardato piuttosto la nascita e lo sviluppo di un particolare modello di scienza, che, nel panorama delle culture umane, costituisce praticamente un unicum: materialista, ateista, meccanicista, quantitativo.
Tale, infatti, è - per la maggior parte - la scienza occidentale moderna: non la scienza in quanto tale, ma solo quella occidentale; e non quella professata dall'umanità per migliaia d'anni, né quella che si affaccia oggi all'orizzonte del panorama culturale (dato che viviamo già nell'era post-moderna, anche in questo campo), ma solo quella "moderna", ossia quella nata agli inizi del XVII secolo e terminata alle soglie del XX.
Per fare una simile verifica, torniamo - innanzitutto - a Democrito.
Democrito di Abdera distingue, innanzitutto, fra conoscenza sensibile e conoscenza razionale: la prima, oscura, che ci dà solo la superficie delle cose; l'altra, genuina, capace di penetrare nella verità dell'essere.
Poi, egli afferma che alla base del sistema della natura vi è l'atomo, realtà originaria e irriducibile: e vi giunge deducendo l'atomismo (le cui basi sono nella teoria eleatica), per via teorica, dalla distinzione della realtà in essere e non-essere: l'essere corrisponde al pieno, ossia alla materia; il non essere corrisponde al vuoto, ossia allo spazio.
Dunque, tutta la realtà è fatta di pieno e di vuoto, di materia e di spazio; la materia, a sua volta, è costituita da un insieme di atomi, ossia di particelle elementari, semplici e non ulteriormente suddivisibili.
La deduzione razionale dell'atomismo consiste nel fatto che, per Democrito, se si spinge all'infinito l'idea della divisibilità della materia, bisogna giungere per forza al concetto di una particella elementare indivisibile, altrimenti il fondamento della realtà sarebbe il nulla, il che è manifestamente impossibile.
Gli atomi, per Democrito, non si distinguono fra loro per le caratteristiche qualitative, dato che sono tutti composti di materia, ma solo per quelle quantitative, come la forma e la grandezza. Dalla loro unione e separazione dipende la generazione e la dissoluzione delle cose.
Gli atomi sono in continuo movimento, ma il non si tratta di un movimento armonioso, bensì  assolutamente caotico: essi volteggiano in tutte le direzioni, si urtano, si allontanano e così via, all'infinito: perché infinito è lo spazio in cui si muovono; e infinito, dunque, è l'universo (concetto che verrà ripreso da Epicuro e dal latino Lucrezio).
Eterno il movimento, eterna la sostanza di cui sono fatti gli atomi: ne consegue che la concezione della realtà di Democrito è materialistica (nulla esiste fuori della materia se non lo spazio vuoto, che è non-essere); ateistica (salvo un omaggio formale, non si sa quanto sincero, all'esistenza degli dei: ma l'universo esiste senza alcun bisogno di loro o del loro intervento); meccanicistica (le cose sono originate da cause efficienti perfettamente naturali e prive di scopo) e quantitativa (gli atomi si distinguono solo per caratteristiche di quantità).
È anche una concezione razionalistica e causalistica, perché presuppone che ogni cosa abbia un sistema ben preciso di cause che la produce; ma attenzione: poiché gli atomi si muovono a caso e poiché nessuna Intelligenza e nessuna Provvidenza presiedono al sistema della natura, con altrettanta verità si può dire che la filosofia di Democrito sia casualistica: per dirla con Dante (nel IV Canto dell'«Inferno»): «Democrito, che il mondo a caso pone».
Pertanto, paradossalmente, si può dire che, per il filosofo di Abdera, tutto ciò che esiste è, al tempo stesso, frutto del caso e frutto, anche, di una rigorosa e ben precisa necessità.
Bene.
Ora, si dice e si ripete che Democrito è importantissimo per la storia della scienza perché la sua teoria atomistica sarebbe stata ripresa, moltissimi secoli dopo, dalla scienza moderna, comprese le sue implicazioni relative al caso e alla necessità (si veda il celebre libro di Jacques Monod, «Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia moderna»).
In particolare, si rivendica a Democrito il «merito» di aver svincolato il pensiero scientifico dal finalismo, sostituendo alla domanda: «A che scopo avvengono i fenomeni?», l'altra: «Per quale causa avvengono i fenomeni?».
Ma poi sarebbe arrivato il nefasto influsso di Aristotele, che avrebbe seppellito per due millenni le promettenti intuizioni di Democrito, e avrebbe messo le pastoie alla nascita della scienza moderna. Questa, almeno, è l'idea corrente e oggi dominante, messa in giro dalla Vulgata scientifica e anche filosofica.
Già, perché si è pensato bene di dar ragione a Democrito e torto ad Aristotele proprio a partire dal momento in cui la filosofia ha rinunciato a svolgere il suo tradizionale ruolo di guida nel panorama del pensiero umano e ha «scoperto» di essere un sapere di seconda scelta, avendo a che fare con concetti e ragionamenti e non con le cose stesse, come invece la scienza. A partire da quel momento, ossia a partire dal XVII secolo, la filosofia si è adattata a sopravvivere, cercando di imitare i metodi e le finalità della sua giovane ma strapotente cugina, la scienza; anzi: quel particolare tipo di scienza materialistica, ateistica, meccanicistica e quantitativa, già preconizzata da Democrito e insediatasi sul trono del sapere, acclamata e riverita, in virtù degli straordinari successi che le sue applicazioni pratiche hanno consentito all'uomo moderno.
Ecco dunque una prima, singolare coincidenza: la filosofia dà «ragione» alla concezione scientifica di Democrito e dà torto a quella di Aristotele a partire dal momento in cui, entrata in uno stato di profonda crisi e di profondo dubbio circa se stessa, si persuade che l'unica maniera, per essa, di sopravvivere, è quello di fare propria la prospettiva di un'altra forma di sapere, quella della scienza materialista e meccanicista, rinunciando alla propria specificità e al proprio tradizionale ruolo di garante e suprema coordinatrice delle singole forme di sapere.
E la seconda coincidenza è questa: che il trionfo della concezione filosofica di Democrito, benché giunto a 2.000 anni di distanza dalle formulazioni del maestro, avviene proprio mentre il pensiero moderno giunge a far sue, per altre vie, le idee di Democrito sull'anima e sulla conoscenza. Cioè, solo quando si afferma definitivamente l'idea che l'anima sia di natura materiale (e, dunque, peritura e transeunte) e che la conoscenza debba distinguere fra  le qualità proprie degli oggetti e quelle ad essi attribuite dal soggetto (idea che sarà ripresa da Galilei e poi da Locke, con la celebre distinzione fra qualità "primarie" e "secondarie") il pensiero moderno è pronto ad accogliere anche la visione materialistica, ateistica, ecc. della natura (ma già Berkeley mostrerà che le qualità sono tutte secondarie: tutte, cioè, dipendenti dal soggetto conoscente).
In altre parole: il pensiero dà ragione alla concezione di Democrito circa un universo antifinalistico e antiprovvidenzialistico solo quando elabora e adotta definitivamente l'idea di un soggetto che concepisce sé stesso solo in termini quantitativi. Era dunque necessario un occhio fatto di pura materia e originato dall'incontro casuale di atomi per vedere nel mondo null'altro che un caotico movimento di atomi materiali, e nulla più.
Certo, Democrito, con la dottrina delle qualità oggettive (quelle che poi sarebbero state chiamate "primarie") intendeva salvare, contro il soggettivismo sofistico, l'esistenza di una dimensione oggettiva e del mondo, e della conoscenza; ma, di fatto, egli ha aperto la porta a quella preponderanza del soggetto rispetto all'oggetto, che, passando per Kant, sarebbe culminata nella follia solipsistica di Hegel.
È evidente, infatti, che se si postula la ragione del soggetto come unica forma di conoscenza della realtà, e poi si postula che essa, come ogni altra cosa, non è che il frutto di uno scontro casuale di atomi (e sia pure sottoposti a una indefettibile finalità), null'altro si può pensare della realtà in quanto tale, se non che essa è un meccanismo cieco ed inesorabile, che a caso procede e incessantemente crea e distrugge ogni cosa, senza uno scopo e senza una ragione.
Si tratta, a dispetto delle sue conclamate istanze razionalistiche, di una filosofia circolare e sostanzialmente autoreferenziale: si dice che tutto è materia che si muove secondo proprie leggi; si proclama che la ragione è in grado di individuarne la natura e il funzionamento; ma si proclama anche che la ragione che pensa e l'occhio che vede altro non sono che frammenti di tale realtà esclusivamente materiale ed esclusivamente meccanica: dunque, si finisce per trovare proprio quel che si era posto fin da principio, né si sarebbe mai potuta trovare qualche cosa di diverso, date le premesse.
E ora passiamo ad Aristotele.
Dunque, per i moderni paladini di Democrito, lo Stagirita aveva torto perché indugiava in domande sostanzialmente prive di senso, come quella circa il fine o scopo verso cui si muovono gli oggetti; mentre avrebbe dovuto domandarsi, piuttosto, in base a quali leggi essi si muovono.
Senonché, essi qui commettono una confusione - più o meno deliberata - fra il metodo della filosofia e quello della scienza quantitativa: non si accorgono che la filosofia ha tutto il diritto di domandare «perché» avvengono i fenomeni: è la sua natura, la sua ragion d'essere. Quanto alla scienza, se essa ha smesso di porsi tale domanda, è perché si è ridotto ad essere una scienza puramente descrittiva e, in seconda istanza, operativa, prolungandosi nella tecnologia: ma questa è, appunto, una opzione storicamente determinata di un certo paradigma scientifico, quello affermatosi con Galilei al principio del XVII secolo e oggi, in base a più segni, in procinto di tramontare.
Qual era dunque l'idea di scienza propria di Aristotele?
Per Aristotele, l'oggetto della fisica - che viene subito dopo la metafisica nel rango delle scienze teoretiche - è l'essere in movimento (suddiviso a sua volta in movimento sostanziale, qualitativo, quantitativo, locale).
Egli ritiene che i quattro elementi fondamentali dell'universo (terra, acqua, aria e fuoco) , in base al loro peso, siano attratti verso altrettanti luoghi maturali. Da ciò si origina una strutta dell'universo caratterizzata dalla perfezione e dalla finitezza (i suoi limiti sono segnati dal cielo delle stelle fisse). Lo spazio, poi, non può essere realmente vuoto, perché esso è sempre il luogo naturale di qualcosa, ossia di uno dei quattro elementi fondamentali.
Contro gli atomisti, che avevano affermato l'impossibilità del movimento in uno spazio «pieno», Aristotele sostiene, al contrario, che il movimento nel vuoto sia impossibile. Quanto al tempo, esso non è il mutamento delle cose, bensì la misura del loro divenire; e, poiché il concetto di misura implica quello di  una mente capace di misurare, perviene alla conclusione che soltanto l'esistenza dell'anima consente di parlare di uno scorrere del tempo.
Il mondo, dunque, per Aristotele, è perfetto, finito ed eterno: dunque non ha cominciato ad esistere, come aveva sostenuto Platone nel «Timeo»; e non finirà mai.

Scrivono Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero (in «Protagonisti e testi della Filosofia» (Milano, Paravia,  vol. A, tomo 1, p.296):

«L'importanza storico-culturale della "Fisica" aristotelica  è notevole. Da essa emerge  infatti una immagine globale del mondo che influenzerà per secoli la scienza occidentale.  La vittoria di Aristotele e il trionfo della sua 'mentalità'  hanno tuttavia come storico prezzo: 1) la sconfitta di Democrito, cioè del maggior sistema scientifico greco; 2) il ritardo della nascita della scienza.
La contrapposizione fra Democrito e Aristotele o meglio fra Democrito e la linea platonico-aristotelica, è netta e riguarda taluni punti essenziali della fisica. Per esempio, Democrito crede nel movimento degli atomi  nel vuoto, arrivando ad intuire il basilare principio d'inerzia. Aristotele porta contro quest'ultimo una serie di argomenti da cui dovrà dissociarsi a fatica la dinamica scientifica moderna. Democrito crede che il movimento sia una proprietà strutturale della materia, Aristotele lo fa dipendere da qualche cosa che esiste fuori della materia Democrito, sulla scia dei naturalisti precedenti, da Talete ad Anassagora, ritiene che cielo e terra siano costituiti dalla stessa materia, proponendo quindi l'idea di un cosmo unitario ed omogeneo; Aristotele, rifacendosi ai pitagorici e a Platone, nonché alla mentalità comune, torna alla bipartizione gerarchica fra mondo celeste e mondo sublunare, immaginandoli costituiti di sostanze diverse, infrangendo così quell'unità dell'universo che in seguito la fisica moderna dovrà di nuovo ricostruire.
Democrito crede in un universo "aperto", costituito da una molteplicità di mondi, Aristotele crede ad un universo "chiuso", limitato ad un solo mondo. Democrito cerca di ridurre le differenze qualitative dei fenomeni a differenze quantitative, ponendo le basi di una matematizzazione della fisica. Aristotele mete da parte questo tentativo, arenandosi in una fisica qualitativa che elimina il fondamento teorico di un'applicazione della matematica alla fisica (e su questo punto Aristotele compie un grave passo indietro anche rispetto a Platone).  Tutte queste differenze si originano o confluiscono poi in quella che è la maggior diversità  metodologico-filosofica dei due autori. Democrito si propone di spiegare il mondo mediante le sole cause naturali e meccaniche, Aristotele fa del ricorso ala cause finali una delle caratteristiche chiave della sua indagine fisica, poggiante sul principio che "la natura non fa niente senza scopo" e "tende sempre all'ottimo".
Come si può notare da questi esempi, alcuni dei grandi motivi che distanziano Aristotele da Democrito sono gli stessi che separano Aristotele dalla scienza moderna, che infatti, riprendendo e sviluppando molte intuizioni democritee, dovrà ingaggiare contro Aristotele, o meglio contro i suoi dogmatici seguaci, una lotta secolare.»

Se non altro, da questo brano di prosa appare evidente che al vecchio "ipse dixit" aristotelico si è sostituito ora, nel moderno paradigma scientifico, l'"ipse dixit" della scienza medesima. Ed è significativo che a far ciò siano, in primo luogo, i filosofi e gli storici della filosofia.
Strano che essi non si siano accorti che, per quanto le idee di Aristotele potessero essere meno esatte di quelle di Democrito rispetto a singole acquisizioni cui è pervenuta la scienza moderna (le quali, peraltro, sono in continua e rapidissima evoluzione, per cui bisognerebbe forse aspettare a intonare il canto di vittoria per l'atomismo e il meccanicismo democriteo), quello che conta per la storia del pensiero è la visione d'insieme di Aristotele.
Pertanto, è a dir poco improprio sostenere che, siccome nel mondo fisico si sono verificate aporie e contraddizioni relativamente al sistema di Aristotele, da ciò consegue che si possa intendere il modello fisico di Aristotele astraendo dal suo modello metafisico; poiché la sua visione dell'universo è molto più unitaria e omogenea di quanto forse non credano gli Autori sopra citati.
Nessuna difficoltà, dunque, a riconoscere che la teoria dell'impossibilità del movimento nello spazio vuoto contraddice il primo principio della meccanica moderna, quello d'inerzia; tuttavia è più importante, a nostro avviso, il fatto che la concezione aristotelica dell'universo in quanto tale, e non di single parti di esso, sia finalistica.
D'altra parte, non tutta la concezione scientifica di Aristotele è da considerarsi obsoleta e velleitaria: ad esempio, particolarmente notevole è la sua intuizione secondo la quale tutte le cose sono nello spazio, ma non l'universo, perché l'universo non è contenuto da alcunché, ma è esso ciò che contiene ogni altra cosa. Perfino Abbagnano e Fornero devono riconoscere che  questa dottrina presenta forti analogie con il modello di universo proposto dalla fisica einsteniana.
Dal punto di vista della filosofia, comunque, non è affatto stupido porsi la domanda: per quale scopo o funzione esistono l'uomo, la vita, il mondo. Il paradigma scientista oggi dominante vorrebbe farci credere che si tratti di domande prive di senso o, comunque, di domande alle quali è impossibile rispondere: ma ciò è vero solo se si assolutizza il generale quadro di riferimento della scienza materialista e ateista.
Ma se, invece, si accetta come ipotesi di lavoro una scienza che non chiuda la porta su ciò che non è puramente ed esclusivamente materiale e che, pertanto, ponga a se stessa (a se stessa, non alla realtà) dei limiti ben precisi, e quindi riconosca anche la perfetta liceità di una indagine sul mondo che adotti anche altri punti di vista, non solo quantitativi e non solo razionalisti, a cominciare da una filosofia che non sia la brutta copia della scienza materialista, descrittiva e quantitativa: ecco, allora, che l'intera impostazione speculativa di Aristotele tornerà ad apparirci tutt'altro che antiscientifica, bensì consapevole che esistono altre realtà e altre forme di conoscenza, al di sopra di quelle di un Logos puramente strumentale e calcolante.