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Metodo infallibile per sapere quanta gente abita ancora la montagna

di Massimo Angelini - 24/01/2009

Fonte: L'ecologist


In un giorno d’inverno, nel tardo pomeriggio, all’ora del tramonto,
si sale in alto, in costa, da dove si possono guardare dentro
una valle i suoi paesi. E quando il sole si è infilato nell’orizzonte si
contano le luci che si accendono una dopo l’altra, e si continua a
contare fino a un’ora dopo il tramonto.
Piancasale, 14 case, una luce; Fontanafredda, 11 case, 3 luci;
Lònesi, 21 case, quattro luci; Sulmolino, 13 case, nessuna luce.
La luce e il fumo dal camino tradiscono la presenza degli abitanti:
abitanti, non residenti. Risiede chi è iscritto in un registro:
può esserci o non esserci, e a volte ci risiede solo per pagare meno
imposte o per altri inganni; ma abita chi tiene accesa la luce durante
l’inverno.
Piani, progetti, interventi. Sono certo che sulla montagna negli
ultimi venti anni sono stati più i consulenti dei contadini. Tutti
pronti a “valorizzare”, a “promuovere” il territorio, i suoi prodotti,
la sua cultura, il paesaggio, le vocazioni ... forse, sopra ogni
cosa, il loro interesse professionale e il credito politico di chi li
sostiene e con le loro parole e le loro carte si veste in pubblico.
Poi – terminati i progetti, pagati i consulenti – risalite la costa
e ricominciate a contare: Piancasale, 14 case, nessuna luce; Fontanafredda,
11 case, 2 luci; Lònesi, 21 case, una luce; Sulmolino, 10
case (3 nel frattempo sono crollate), nessuna luce.
Ecco, potrebbe essere questo un metodo per misurare la validità
delle proposte e delle azioni degli enti che dicono di volere
“valorizzare” e “promuovere” la montagna: dopo alcuni anni, una
sera d’inverno, si sale in alto e si contano le luci. Ce n’è qualcuna
in più? Anche una sola?
Decoro
Paesi bomboniera, dove tutto è pulito e in ordine ed è così coerente
con il contesto architettonico e ambientale, e dove ogni casa è
ristrutturata, con attenzione filologica: pietre bene in vista, via le
baracche e le lamiere! meglio i coppi, e meglio se sono come quelli
di una volta, magari corrosi o macchiati ad arte, meglio ancora
se sono proprio quelli di una volta. Sono presepi per turisti e per
villeggianti: non ci sono quasi più botteghe, molte sono diventate
garage: le poche rimaste vendono prodotti tipici ben presentati,
ricordi, vasellame e inutilità da turisti, o sono boutique. Care da
matti, ché i pochi del posto comprano altrove. Non c’è biancheria
appesa ai fili, né bambini per strada. Non c’è odore di letame nelle
vicinanze. Paesi così ne ho visti in diversi luoghi, molti in Umbria
e in Toscana; ma ho viaggiato poco e penso che ce ne siano molti
anche in altre regioni. In estate scoppiano di cittadini che ci vanno
quindici giorni a riposare e per quei quindici giorni tengono una
casa vuota tutto l’anno. In inverno sono sepolcri: con molti residenti
e pochi abitanti.
Poi ci sono i paesi abitati e sono diversi dalle “bomboniere”.
A volte la gente colta ci passa e torce il naso e dice che quel balcone
di cemento non dovevano permetterlo e che le lamiere sul
tetto del magazzino fanno schifo e le mutande e gli abiti da lavoro
stesi sulla strada stanno male, e chiocciano con sapienza che sul
selciato ci volevano le pietre, non l’asfalto. Come una volta. Esteti
compiaciuti e incontinenti, passano, giudicano e ritornano in
città, dopo avere affermato cosa è decoroso e cosa è inopportuno
o indecente. Però si appagano di chi sta piegato a lavorare sul
campo, e prima di tornare in città acconsentono che il calore della
legna è “un’altra cosa”. Proprio come se lo sapessero.
L’uso degli spazi e dei materiali, le ragioni del decoro, i colori e
le forme in un luogo sono parte del linguaggio locale, espressione
di un gusto, di regole e di consuetudini locali: è bene che li decida
e li giudichi chi ci vive, purché ci viva davvero. Così è nei paesi e
così è per la campagna.
Se è usata, una baracca di legno e lamiera per tenere gli attrezzi
è più decorosa di qualunque casa da villeggianti, benché
rispettosa, così consapevolmente rispettosa, dei materiali e delle
forme locali. Le ragioni che nascono dai libri, dai banchi dell’università,
dai pregiudizi di chi è esterno a un luogo, in quel luogo
non hanno alcun valore. Né hanno valore i grilli e le astrazioni di
chi pianifica gli spazi, più attento alle regole formali o al proprio
estro che alle esigenze e al gusto di chi li vive. Come succede
nei paesi-bomboniera, e ora sempre più anche nello spazio rurale
per mano di professionisti del paesaggio: architetti che si sostituiscono
alle comunità e ai contadini e dettano le ragioni del loro
decoro, da manuale.
Agghiacciante.
A che serve la nostalgia?
La montagna che si popola in estate e nell’inverno diventa ospizio
è un luogo triste.
I paesi che sopravvivono per il riposo e il divertimento dei
cittadini o come nicchia delle loro nostalgie sono luoghi tristi. Se
non c’è chi ci vive e ci produce, va bene che si spengano: lo ha
deciso chi se n’è andato via e chi ne amministra l’agonia, ma lo
decide anche chi si rifugia nei ricordi e tra i ricordi smarrisce il
proprio tempo. Perché la nostalgia è un’infezione dell’anima, una
malattia sottile che colpisce chi è stanco o ha paura. E la voglia del
passato è voglia di nulla.
A pensarci bene, il passato non esiste: esiste solo il ricordo che
ne abbiamo costruito, trasfigurato e reso più gentile dalla distanza.
E scrivere la storia, in fondo, è solo un altro modo per raccontare
il presente, perché, prima di ciò che è successo, la storia parla
di chi la scrive e di quelli ai quali è destinata.
A volte penso che – sui libri, così come a scuola – bisognerebbe
provare a raccontare il tempo partendo da qui e da oggi, per
poi retrocedere e allargarsi progressivamente per quanto si riesca,
leggendo e interpretando ciò che resta e, qui e oggi, rende testimonianza.
Pensa a come sarebbe un libro di storia che, invece
di partire dai Sumeri o da Roma o dal Medioevo e da migliaia di
anni fa (tutto così lontano ed estraneo nello spazio e nel tempo),
partisse da oggi e da questo luogo. Un libro così potrebbe sembrare
strano, ma sarebbe onesto, e anche utile, perché aiuterebbe
a capire che il passato – così come il futuro – è solo una proiezione
del presente.
Ti vorrei incoraggiare, quando vedi i villaggi spopolati sulle
nostre montagne, a non rimpiangere il passato, ti vorrei incoraggiare
a pensare a oggi: perché tutto è presente – insieme e in questo
momento – ed è presente chi è vissuto prima di noi. E forse è
presente anche chi ancora deve venire.
Chi è vissuto prima di noi non si trova nei cimiteri, ma nella
filigrana dei monti e della terra, nella trama dei boschi, delle fasce
terrazzate e dei prati; se guardi con attenzione, ne vedi i segni,
ancora e dappertutto, e dappertutto vedi i segni della comunità,
intrecciati nel tempo delle generazioni come fili di un tessuto.
Guardali questi monti. Hai pensato che i boschi, i campi terrazzati
e i prati che di questi monti disegnano la forma forse non
esistono in natura? Lo sai che sono anche costruzioni e manufatti?
Che sono anche fatica, conoscenze, rabbia e vita di chi è

vissuto prima di noi e in quei manufatti continua a vivere, come
vive nei nostri visi e nei nostri comportamenti?
Il viso dei morti è nel nostro viso, il loro carattere è nel nostro
carattere, così il loro lavoro e il loro sapere sono nella forma della
terra che ci hanno lasciato. Loro ci sono ancora e ci sono tutti,
perché, in fondo, non si muore, ma ci si libera nel presente e si
continua a vivere sotto forme diverse.
Ti racconto di un oratorio – a Borgo Fornari, alle spalle di
Genova – dove, fino alla metà del Novecento, il 2 novembre alle
due del mattino si faceva l’appello completo dei confratelli: prima
i vivi e poi i morti: tutti, a partire dalla fondazione dell’oratorio
(1500). L’appello poteva durare alcune ore e qualcuno rispondeva
anche per chi non c’era: erano tutti presenti.
Questa è la compresenza: siamo sotto forme diverse, ma ci siamo
tutti.
Chi è vissuto prima di noi ancora vive nei saperi tramandati e
in tutto ciò che testimonia il tempo, vive nelle consuetudini come
nei riti, nelle case come nei campi che ha costruito, conservato e
tramandato. E allora, quando portiamo fiori sulle tombe e intanto
lasciamo crollare la terra e i campi terrazzati abbiamo uno strano
modo di onorare i morti. E noi stessi.
Scrivo questi pensieri per metterti in guardia e dirti che le memorie,
i ricordi e i documenti che parlano del mondo contadino
non parlano di ieri, ma di oggi. E parlano di un mondo vivo, davvero
e nel profondo. Senza questa cautela si rischia di mettere il
passato su un altarino e di diventarne i chierichetti. Si rischia di
dire banalità su come era bella o come era brutta la vita di una
volta, senza capire che queste sono solo nostre proiezioni. Si rischia
di rimpiangere ciò che non c’è più (non è vero! c’è tutto, ma
in forme diverse) e di lamentarsi che non c’è più niente da fare. Si
rischia di giustificare la rassegnazione. Oppure la pigrizia.
Quando parliamo della nostra terra e di queste montagne, la
nostalgia non serve: lasciamola da parte e lasciamo da parte tutto
ciò che ne è imbevuto.
Molti, a parole, dicono che la terra e queste montagne devono
continuare a vivere. Ma cosa fanno perché sia così?
Mi guardo intorno. E vedo che si organizzano sagre, secondo
una moda che si è imposta negli ultimi vent’anni. Qualche volta
sono feste della comunità, purtroppo spesso sono i giochi di
società che i villeggianti organizzano, sempre in estate, per loro
stessi e per rimediare alla noia. A volte sono anche parodie del
tempo e carnevali seriosi di tradizioni inventate, travestimenti e
cortei mascherati. Vedo che si fanno musei piccoli e grandi, raccolte
di oggetti senza contesto o ristrutturazioni di edifici che non
servono a nulla se non a dare spettacolo di sé stessi. Oppure si allestiscono
spazi e percorsi guidati – li chiamano anche ecomusei o
parchi tematici – per addomesticare il territorio all’uso dei turisti,
per farne oggetto di godimento estetico e regno del tempo libero.
E così si moltiplicano le spese in consulenti, pubblicità, guide,
cartoncini illustrativi e cartelli stradali: il denaro pubblico dà sollievo
alla disoccupazione intellettuale; qualche cittadino si diverte
o si emoziona di fronte all’abbandono che non capisce; intanto la
montagna continua a spopolarsi e da qualche parte dei paesi si fa
un presepe e, dietro alle finestre, si mettono i manichini.
Cosa ci vuole perché i paesi vivano?
Serve che ci si viva. Che ci siano meno villeggianti e più abitanti:
il lavoro a volte non è vicino, ma oggi è un prezzo così alto fare
i pendolari, diciamo fino a un’ora, per andare al lavoro? Forse
per mantenere in vita la propria terra, si può fare. Allora se nei
paesi la gente ricomincerà a viverci, ci sarà più forza per chiedere
che la strada d’inverno sia mantenuta pulita, e che dove ci sono
bambini si riaprano le scuole, e avrà senso chiedere di ripristinare
gli uffici postali e i servizi sanitari e le linee delle corriere, e forse
ci potrà essere interesse ad aprire qualche bottega, oppure a non
chiuderla. E bisogna che le botteghe nei paesi possano restare
aperte senza essere schiacciate dal peso delle norme fiscali e da
norme igieniche astratte.
Poi servono persone che facciano gli amministratori pubblici
per servizio, solo per servizio, e che siano migliori di quelli che li
votano e non peggiori, e che qui ci vivano. La terra non ha speranza
di vivere quando è amministrata da foresti, incompetenti, narcisi,
falliti della politica o cialtroni che all’interesse della comunità
fanno precedere quello personale o quello del clan.
E serve che si rompa l’isolamento e che sia incoraggiata ogni
occasione buona per fare comunità, per stare e fare insieme: la
festa (d’inverno, prima che di estate!), la banda del paese e le
musiche, il ritrovo per giocare e parlare e insieme vedere la televisione,
i lavori condivisi, la gestione e la manutenzione collettiva
degli spazi comuni, dell’acqua e delle strade.
Poi serve che si torni a fare produrre la terra e il bosco, per
tanto o per poco, per lavoro o per passatempo, per fare commercio
o anche solo per l’orto di famiglia. E serve che i ristoratori
e i negozi preparino e vendano il più possibile i prodotti locali,
la carne degli allevamenti che tengono in vita i pascoli, le acque
minerali più vicine.
E bisogna fare in modo che chi lavora su questi monti possa
farlo in pace, senza l’aggravio di oneri, registri, carte, controlli
che generano burocrazia e giustificano l’impiego di funzionari e
consulenti, più di quanto serva al bene comune. E che i diritti comunitari
sulla terra e le sue risorse siano preservati e sia interrotta
la svendita e l’erosione delle terre comuni e degli usi civici.
È una cosa nobile recuperare la memoria ed è bene farlo senza
cedere alla nostalgia, ed è importante recuperare le musiche, le
varietà agricole, le case e le ricette; ma ciò che, soprattutto, bisogna
recuperare è la comunità, quella degli abitanti, quella di tutti
i giorni, nel bello e nel cattivo tempo.
Questa terra può vivere.