Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Sovente, quando gli altri ci deludono, quel che ci brucia è la delusione di noi stessi

Sovente, quando gli altri ci deludono, quel che ci brucia è la delusione di noi stessi

di Francesco Lamendola - 27/01/2009

 


Nel precedente articolo «Siamo tutti feriti nell'anima e tutti bisognosi di compassione e di perdono» (sempre sul sito di Arianna Editrice) avevamo sostenuto che ciascuno di noi reca nell'anima la cicatrice di qualche ferita, abbastanza profonda da aver impresso una svolta irreversibile nel nostro orientamento esistenziale; e che ciascuno di noi è, per ciò stesso, meritevole di compassione e di perdono.
Poi, nell'articolo «La delusione esistenziale è la "malattia mortale" che produce amarezza, cinismo e disperazione», avevamo riflettuto, sulla scia di Kierkegaard, sulla condizione tipica dell'uomo moderno, di sradicamento dall'Essere e di conseguente alienazione e perdita dell'orizzonte di senso esistenziale.
Infine, nell'articolo «Oltrepassare la delusione per non sciupare l'incanto de mondo», avevamo affermato che, sovente, gli esseri umani non sono afflitti da una singola delusione, per quanto grande essa sia stata, ma di una somma d'infinite delusioni, medie e piccole e, per così dire, quasi quotidiane; delusioni che subentrano al trauma di veder scemare in sé - e, di riflesso, fuori di sé -, l'incanto del mondo.
Al tempo stesso, avevamo osservato che, per il bambino, il mondo è un luogo incantato; per l'adulto, è un luogo profano, arido e banale: il luogo della perenne disillusione.; e che, pertanto, dovremmo sforzarci di tornare a vedere il mondo con l'incanto, la freschezza e l'innocenza (e sia pure l'innocenza relativa di un adulto) che sono propri dei bambini.
Ora vogliamo soffermarci su un particolare aspetto della delusione esistenziale, quella derivanteci dal rapporto con gli altri: rapporto mediante il quale noi formiamo il nostro io e in relazione al quale costruiamo le nostre coordinate esistenziali, buone o cattive che esse siano; poiché - come è stato detto - nessun uomo è un'isola e anche l'individuo più isolato e solitario ha pur sempre una struggente necessità di misurarsi e confrontarsi con gli altri, e sia pure, magari, solo da lontano e indirettamente, come può essere il caso di un detenuto alla pena dell'ergastolo.

Gli altri, sovente, ci deludono: questo è il fatto; e a deluderci sono proprio coloro dai quali più ci aspetteremmo: questo è ciò che ci fa più male.
Potremmo aggiungere che la delusione si manifesta principalmente in due forme, attiva e passiva. Attiva, quando gli altri ci deludono perché il loro comportamento contraddice le nostre aspettative, nel senso che li vediamo agire in maniera che stride con quanto ci saremmo attesi da loro; passiva, quando essi scompaiono, nel momento in cui maggiormente desidereremmo la loro presenza, il conforto della loro vicinanza, fisica o ideale.
Ciò corrisponde ai due modi che noi abbiamo per rapportarci al prossimo e alle responsabilità che ne derivano: l'accostamento e l'allontanamento. Tutti siamo consapevoli di esercitare un influsso sulla vita degli altri, allorché, in un modo o nell'altro, ci avviciniamo a loro; in genere, però, non siamo altrettanto consapevoli di esercitare un influsso non meno importante - almeno in certi casi - sottraendoci al contatto con essi, negando loro la nostra presenza.
Per cui è corretto dire che noi, qualunque cosa facciamo e perfino quando non facciamo (apparentemente) nulla, esercitiamo sempre un influsso sugli altri; e la stessa cosa fanno gli altri nei confronti di ciascuno di noi.
Che ci piaccia oppure no, siamo importanti, sempre e comunque: nel senso che le nostre azioni pesano sempre sugli altri, e lo stesso dicasi per le nostre azioni mancate, per i nostri silenzi e i nostri allontanamenti.
Possiamo rendercene conto, se vi prestiamo un minimo di attenzione, in diverse occasioni della nostra vita, anche in quelle di tipo relativamente ordinario.
Può capitarci, ad esempio, di venire aggrediti, in maniera talvolta brutale e, comunque, del tutto inaspettata, da persone da cui non ce lo saremmo mai aspettato: e ciò per la buona ragione che non le avevamo mai «viste», cioè non le avevamo mai considerate importanti entro il quadro delle nostre relazioni.
Può trattarsi, per esempio, di un collega di lavoro, il quale, di punto in bianco, ci assale con una veemenza, con un livore, con una aggressività che ci lasciano, a tutta prima, sconcertati. Dal momento che di quella persona non avevamo mai fatto alcun conto, ci domandiamo, da dove gli possono venire tanto astio e tanta malevolenza?
Ma poi, se solo ci riflettiamo un po' sopra, non tarderemo a renderci conto di avere già la risposta ad un tale interrogativo: tutta quella aggressività, quell'astio e quella malevolenza sono, appunto, conseguenza del fatto che quella persona si è sentita ignorata da parte nostra; del suo sentirsi esclusa, rifiutata e, forse, disprezzata da noi. Non ce ne eravamo mai accorti: ma la nostra indifferenza ha agito su di essa come un tarlo molesto e inarrestabile, ha provocato un continuo accumulo di frustrazione e risentimento: finché tali sentimenti negativi sono esplosi alla minima occasione, al minimo pretesto (che noi non ci siamo nemmeno accorti di averle dato).
Certo, potremmo alzare le spalle e concludere che, stando così le cose, il problema del rancore nutrito da simili persone nei nostri confronti non ci riguarda; che è un problema esclusivamente loro; che esse si sono create dei fantasmi nella loro mente e hanno perciò voluto vendicare delle offese puramente immaginarie. E sarebbe una parte di verità, senza dubbio.
L'altra parte, però - se vogliamo essere sinceri con noi stessi fino in fondo - è che la nostra indifferenza ha ferito quelle persone, sia pure in modo non deliberato, tanto quanto ci saremmo sentiti feriti noi, se ci fossimo trovati a parti rovesciate: se, cioè, ci fossimo visti sistematicamente ignorati da coloro che, forse, stimiamo e ammiriamo e dai quali, pertanto, vorremmo essere gratificati di un minimo di attenzione e di considerazione.
La dinamica qui descritta è particolarmente evidente nei rapporti fra i due sessi.
A molti, crediamo, sarà capitato quel che è capitato a noi: di cogliere uno sguardo di autentico odio da parte di una persona dell'altro sesso, conosciuta magari chissà quanto tempo prima, non più rivista per anni e anni, e alla quale sappiamo di non aver mai fatto alcun torto, tranne quello (appunto) di essere usciti dalla sua vita.
Quello sguardo carico di risentimento è la spia, evidente e inequivocabile, del fatto che la nostra scomparsa ha deluso e ferito nel profondo qualcuno che, sia pure a nostra insaputa, provava dei sentimenti per noi: sentimenti di amore, probabilmente, e sia pure (magari) non analizzati in profondità; i quali si sono, poi, fatalmente trasformati nell'esatto contrario di ciò che erano all'origine, a causa della frustrazione del vedersi rifiutati, allorché noi, un bel momento - e senza rendercene conto o, comunque, senza alcuna precisa intenzionalità - abbiamo rivolto altrove i passi della nostra vita, uscendo dall'orizzonte di quella tale persona.
Tutto ciò conferma quanto avevamo sopra teorizzato, e cioè che il nostro rapportarci agli altri non è mai indifferente, non è mai privo di effetti, anche quando si riduce a un non rapportarci, a un sottrarci, e sia pure non intenzionale.

Un altro tipo di esperienza che conferma quanto sopra è la reazione di dolore, di rincrescimento, a volte di estrema agitazione, che si produce in alcune persone con le quali abbiamo stabilito un dialogo, ma che, a un dato momento, si sentono da noi rifiutate, magari non interamente, ma in quello che esse hanno più a cuore, in quello che considerano l'aspetto qualificante del loro modo di essere e della loro relazione con noi.
Di nuovo, può accadere che la cosa ci colga alla sprovvista, anzi, perfino che non riusciamo a farcene una ragione. Ci domandiamo allora: ma perché quella persona, alla quale abbiamo pure accordato un certo grado di intimità, di amicizia, si rivolta contro di noi; perché si mostra ferita ed offesa; perché si dimostra così irragionevole e incontentabile?
In realtà, c'è ben poco di «ragionevole» nei sentimenti umani; e, per quanto sia buona norma quella di saperli analizzare anche in maniera distaccata e razionale, resta il fatto che essi, al loro fondo, ci rimangono avvolti in una densa nube di mistero. Chi mai potrebbe dire perché certe persone facciano scattare in noi sentimenti di attrazione e repulsione profonda, a volte quasi immediata; e perché lo stesso accada agli altri, nei nostri confronti? Chi mai potrebbe dire (al di là delle presuntuose certezze della psicologia e, peggio, della psicanalisi) perché noi ci sentiamo attratti da coloro che non ci ricambiano o che, magari, giocheranno con noi e ci faranno soffrire; mentre noi, forse, faremo la stessa cosa, a nostra volta, con altri?
Sia come sia, il fatto è quello; ed è particolarmente evidente - di nuovo - nelle relazioni fra i due sessi. In genere, sono le donne (ma non sempre) a provare sentimenti che esitano a esplicitare, e quindi ad accumulare aspettative che poi, forse, andranno deluse; e sono perciò loro, sovente, a ricambiare indifferenza o scarsa attenzione con rancori implacabili, piuttosto che con aperte accuse. Di che cosa potrebbero accusare l'oggetto del loro risentimento, del resto? In ogni caso, se lo facessero, dovrebbero anche confessare a se stesse il proprio segreto: cosa che richiede molta dirittura morale e molta onestà intellettuale (si pensi al caso di una persona già sposata e, magari, con figli), che non tutti possiedono.
Perciò, potrebbe succedere che una persona sposata, la quale prova o ha provato una forte attrazione per un altro individuo, ma senza osare ammetterlo mai pienamente a se stessa, finisca per stravolgere entro di sé i termini della questione, fino ad autoconvincersi di aver subito una doppia, imperdonabile offesa: quella di essere stata sedotta (il che, magari, è vero solo nelle sue fantasie solitarie) e, poi, di essere stata rifiutata. Ma chi mai riuscirà a fare chiarezza in quella povera anima, e a convincerla che le cose stanno altrimenti?
Una bugia, a forza di essere ripetuta, finisce per diventare una verità certa, incontrovertibile: e ciò vale anche per quella particolare categoria di menzogne che noi raccontiamo a noi stessi, nel segreto della nostra vita interiore. Se, poi, sono passati degli anni dall'epoca di tali presunti torti, peggio ancora: l'accumularsi del tempo non migliora mai questi genere di cose, al contrario: l'anima sempre più si aggrappa disperatamente alla propria «verità» di comodo, diviene tutt'uno con essa, come l'edera al tronco dell'albero: tanto che esse finiscono per diventare una cosa sola.
Di più: la menzogna finisce per diventare una ragione di vita. Senza di essa, quell'anima non troverebbe più la forza e il coraggio per andare avanti.

Sì, siamo delle creature piuttosto curiose: curiose e contorte.
Ecco perché è cosa tanto rara incontrare una personalità schietta, diritta, franca con se stessa, prima ancora che con il prossimo: rara e ammirevole.
Che fare, dunque?
Niente; di certo non possiamo porre rimedio, mediante degli atti intenzionali della volontà, a una carenza della nostra struttura ontologica; né, meno ancora, ai mille equivoci e alle mille sofferenze, apparentemente inutili, che da essi si generano.
In altri termini, non potremo mai sottrarci né alla delusione che ci provocano gli altri, né a quella che noi provochiamo loro. Non potremo evitare di sentirci frustrati, amareggiati e irritati dal fatto che coloro verso i quali siano attratti, ci ignorino; né che gli stessi sentimenti provino altri, che da noi si sentono attratti, ma si vedono ignorati o rifiutati. Non potremo mai sottrarci del tutto a quegli assalti improvvisi di colleghi infuriati, a quegli sguardi d'odio da parte di donne (o di uomini) che ci amavano in segreto, e che mai abbiamo preso troppo sul serio.
E allora?
Niente: ma è importante essere consapevoli di tutto questo. Non solo per farsi una ragione di tante apparenti stranezze del comportamento umano, ma anche per imparare una virtù sempre più rara al giorno d'oggi: quella della compassione.
Compassione verso gli altri, ma anche verso noi stessi.
Dobbiamo imparare a perdonarci i nostri errori, le nostre debolezze, le nostre incoerenze; non per cullarci in esse; ma, al contrario, per trovare la forza di andare oltre e ricominciare da capo, dopo ogni caduta.
Ciascuno di noi, come dicevamo all'inizio, è una creatura ferita e, in quanto tale, meritevole di compassione e di perdono.
E, se vogliamo imparare a perdonare e a compassionare il nostro prossimo, è necessario che  incominciamo a farlo proprio partendo da noi stessi.