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La scienza ha il diritto, studiando le cause dei fenomeni, di risalire alla Causa Prima?

di Francesco Lamendola - 30/01/2009

 


Se vi è  un momento, nella storia del pensiero occidentale, in cui si può assistere agevolmente al passaggio dal pensiero metafisico al pensiero fisico, in cui si concepisce il mondo come staccato dalla sua Causa Prima, e si afferma che il compito della ragione si esaurisce nello studio della natura, quel momento è rappresentato dalla filosofia di Bernardino Telesio  (1509-1588) e, in particolare, dalla sua opera fondamentale, il cui titolo è già tutto un programma: «De rerum natura iuxta propria principia».
Per Telesio, calabrese di Cosenza, ma formatosi all'Università di Padova e, infine, trasferitosi a Napoli, la natura non può essere spiegata se non con principi che siano ad essa intrinseci, e non già con l'autorità di Aristotele o, in generale, con dei ragionamenti astratti.
Come ha  scritto E. Paolo Lamanna (in «Filosofia e pedagogia nel loro sviluppo storico», Firenze, Le Monnier, 1962, vol. 2, p. 76:

«… la natura va spiegata  secondo principii che siano intrinseci ad essa, "proprii" di essa, va spiegata mediante l'azione di forze naturali. Si ammetta pure (e Telesio la ammette) l'esistenza di un mondo soprasensibile e di un Dio che trascenda la natura; si ammetta pure (e Telesio la ammette) l'esistenza nell'uomo di un'"anima divina" che aspiri a qualcosa che è di là dalla natura; ma rimane fermo che una scienza della natura non è possibile se non a condizione che si prescinda da ogni azione diretta di Dio nel mondo e da ogni pretesa dell'uomo di essere come al di sopra o al di fuori della natura: l'uomo non può conoscere la natura, se non in quanto è parte di essa e s'inserisce in essa.
La natura è per lui il mondo del corporeo e del sensibile: dunque è da respingere, nella interpretazione di essa, qualunque principio non apprensibile per mezzo del senso, perché principii di tal fatta non potrebbero che essere estranei alla natura e toglierebbero a questa ogni sua autonomia. (…). [Noi] ci proponiamo di osservare le cose, in modo che queste manifestino da séP la potenza e natura di ciascuna.  La sensibilità è la rivelazione immediata e genuina che la natura fa di sé all'uomo, in quanto questo è parte della natura stessa. »

Anche Galilei, più tardi, dirà che Dio parla agli uomini in due maniere: con le Sacre Scritture e con il "gran libro dell'Universo", quest'ultimo scritto in caratteri matematici ed espressione immediata, diretta, della sua intelligenza creatrice.
Telesio, da parte sua, non nega affatto la creazione divina, né l'anima immortale dell'uomo; dopo aver sostenuto che la natura è materia soggetta all'azione di due forze che continuamente la trasformano, il caldo e il freddo (e la vita, presente in ogni aspetto della natura, è opera del calore), egli riduce la coscienza senziente all'azione della cosa sentita ed alla modificazione da essa prodotta nello "spirito", senza identificarsi interamente con esse.
Il sensismo di Telesio è conseguente e radicale: non vi è alcuna differenza tra materia organica e inorganica, perché in ogni corpo vi è un certo grado di calore; né vi è alcuna differenza tra intelletto e senso, dato che l'intelletto non è altro che senso illanguidito.
Egli perviene pertanto ad un monismo materialistico e naturalistico, tuttavia si ferma sull'orlo delle ultime conseguenze cui esso lo porterebbe, non osa compiere l'ultimo passo e afferma che, per quanto una scienza autonoma della natura esige che si prescinda da qualunque tipo di realtà che non sia espressione di forze naturali, bisogna tuttavia ammettere l'esistenza, nella coscienza, di un fattore immateriale, lo "spirito".
È vero che il mondo forma un tutto chiuso e che si deve cercare di spiegarlo all'interno delle sue leggi e delle sue costanti; tuttavia è altrettanto vero che esiste una realtà al di sopra della natura, un ordine divino riconoscibile in tutto l'universo.
L'uomo stesso è un essere naturale, nel quale pensiero e volontà non sono che manifestazioni dello "spirito caldo"; ma è anche un essere che partecipa del divino, poiché possiede un'anima spirituale, creata da Dio, mediante la quale egli è in grado di aspirare al soprasensibile.
Dunque, le cose stanno così: la scienza deve indagare la natura «iuxta propria principia», «secondo i propri principi» e, per definizione, non può cercare qualche cosa che la trascenda; e tuttavia, nella natura medesima è possibile scorgere e riconoscere un ordine divino, che rinvia necessariamente a un piano di realtà diverso e superiore rispetto a quello naturale. Vi è una Mente perfetta, infinitamente sapiente, che deve aver regolato l'universo così come esso è; per poterci avvicinare ad essa, dobbiamo necessariamente superare l'ordine delle cose naturali e trascendere anche l'ambito delle scienze.

Ecco, dunque, in che senso il pensiero di Telesio rappresenta il punto decisivo di svolta tra la filosofia del Medioevo e quella della modernità.
Da un lato esso ammette come evidente una realtà soprasensibile e invita gli uomini ad essere umili, a non insuperbire della loro scienza, anzi, a riconoscerne francamente il limite ad essa connaturato, ossia di poter indagare esclusivamente nell'ambito della propria sfera di realtà. Infatti, sia al di fuori dell'uomo, nell'ordine universale che lo circonda, sia in lui stesso, nella presenza di un'anima immortale, si manifestano delle forze che non sono affatto naturali, ma che sono il frutto dell'azione di Dio, creatore di ogni realtà. Al tempo stesso, Telesio ammonisce che sarebbe follia temeraria voler pretendere di penetrare la sfera della Causa Prima con il solo strumento della ragione, perché mai la mente umana potrà penetrare i disegni divini e mai potrà spiegare perché Dio abbia creato il mondo proprio in questo modo, e non in un altro.
Dall'altro lato, Telesio sostiene che l'uomo può indagare, mediante le scienze, tutto il gran mondo della natura, che può e deve spiegarlo in base ai principi e alle leggi ad esso intrinseci; che egli è una creatura sensoriale, come lo sono tutte le altre manifestazioni della natura; tutto in lui è senso, e il suo stesso intelletto è una manifestazione sensoriale. In questo ambito - quello della natura - Telesio mostra una sconfinata ambizione e una audace convinzione che l'uomo possa arrivare a spiegare, poco a poco, tutti i fenomeni della natura.
Ma, soprattutto, egli giustappone alla dimensione naturale dell'uomo quella soprannaturale, come se ben poco avessero a che fare l'una con l'altra; come se fosse possibile considerare l'uomo ora come una semplice manifestazione naturale del calore universale, ora come una creatura spirituale fatta a immagine di Dio; e, così facendo, ne incrina seriamente l'unità e quasi lo sdoppia in due creature totalmente diverse, sottoposte a leggi e principi indipendenti gli uni dagli altri.

Ecco come Bernardino Telesio, nei libri I e IX del suo trattato «De rerum natura», si esprime a proposito dell'oggetto della ricerca naturale e dei suoi limiti nei confronti dell'ambito del soprannaturale (da:«Bernardino Telesio e la filosofia del Rinascimento», a cura di Nicola Abbagnano, Milano, Garzanti, 1941, pp. 175-77, 193-95):

«Coloro che prima di noi hanno scrutata la costruzione di questo mondo e la natura delle cose in esso contenute sembra che abbiano lavorato molto, con poco risultato. Che cosa infatti sono riusciti a vederne, se tutti i loro discorsi contrastano gli uni con gli altri e con le cose? Convien credere che ad essi sia accaduto che, troppo confidenti in se stessi e non avendo osservato, come occorreva, le cose stesse e le loro forze, abbiano essi stessi posto nelle cose quella grandezza, quell'intelligenza e quelle facoltà, delle quali sembravano ad essi fornite. Ma gareggiando in sapienza con Dio nel ricercare con la ragione i principi e e cause del mondo, e nel credere e nel volere che dovessero esser da loro inventate quelle che non riuscivano a trovare. Hanno immaginato il mondo a lor proprio arbitrio. Così hanno attribuito ai corpi, dei quali il mondo sembra risulti, non la grandezza e la posizione che sembrano avere né la capacità e le forze di cui sembrano forniti, ma quei caratteri che la loro ragione indicava. Certamente però gli uomini non dovevano compiacersi  di sé e insuperbire a tal punto , da dare essi stessi alle cose (precedendo la natura e affettando non solo la sapienza, ma la potenza stessa di Dio), quei caratteri che non avevano osservati. Nelle cose e che avrebbero dovuto esser ricavati dalle cose stesse.
Noi invece, non confidando a tal punto in noi stessi, dotati di animo e di ingegno molto più dimessi, e amatori e cultori di una sapienza affatto umana (che sembra tuttavia dover giungere al sommo, se considererà le cose che il senso manifesta e quelle che possono essere ricavate dalla analogia delle cose percepite dal senso), ci proponiamo di osservare il mondo e le singole parti e le passioni, le azioni e le operazioni e le specie delle sue parti e delle cose in esso contenute. Esse infatti, rettamente osservate, manifesteranno da sé la grandezza che ognuna ha, nonché la loro capacità, le loro forze, la loro natura.
In tal modo, anche se in noi non ci fosse niente di divino, niente degno di ammirazione, e neppure una vista abbastanza acuta, non ci sarà in quel che diremo nulla che sia in contrasto in sé o con le cose: perché avremo seguito soltanto il senso e la natura: la quale, sempre concorde con sé e sempre identica, agisce sempre nel medesimo modo.
Tuttavia, ove qualcosa che sarà da noi affermato non sia in armonia con le sacre scritture e con la chiesa cattolica, sarà non da ritenersi, bensì da rigettarsi ciò che abbiamo osservato e difeso. Non solo infatti qualsiasi ragione umana, ma la stessa sensibilità è da posporsi alle sacre scritture e alla chiesa: e, se non è d'accordo con queste, è da rinnegarsi completamente la stessa sensibilità. (…)
Poiché sono stati abbastanza spiegati (come crediamo) i caratteri delle nature agenti dalle quali, oltreché dalla massa corporea, è costituito il mondo, ci apprestiamo ora ad osservare - per quanto è lecito ad un uomo- la causa per la quale il mondo è stato costruito così come è stato costruito e per la quale occorreva che il cielo si muovesse proprio con quel movimento col quale appare muoversi.
Non ci si deve affaticare a ricercare perché da una sola e stessa materia  e da un solo e stesso calore risulti un cielo non unico né uniforme, ma distinto in molte orbite; delle quali alcune, secondo l'opinione dei matematici, sono uniformi in se stesse per identica disposizione dell'universo, identica abbondanza di calore, identica forma; altre invece si sono trasformate in stelle in qualcuna  delle loro parti, essendo dotate di minore tenuità e perciò di più abbondante  e di più forte calore. Né tutte le stelle sono di grandezza  e di numero eguale, ma sono in se stesse immensamente diverse.  La Sacra Scrittura ed anche la ragione umana c'insegnano che il cielo non è opera del calore e di un agente privo d ragione, ma è opera di Dio., il più potente e il sapiente artefice, opera fatta per volontà e comando diretto di Dio. La ragione infatti non ci permette di attribuire né al calore né ad altro ente un'opera che è stata costruita con tanta arte, con tanta sapienza e con tanta potenza. Essendo il Cielo opera esclusiva di Dio, se qualcuno osasse con ragioni umane indagare il modo in cui è stato costruito, potrebbe apparire non soltanto arrogante ed empio, ma pazzo e condannabile non meno di chi volesse indagare la potenza con cui Dio ha voluto creare il mondo universo dal nulla.»

Decisamente moderna, dunque, è la volontà di Telesio di studiare la natura prescindendo dalle cause prime, come fosse una realtà chiusa in se stessa e, in definitiva, perfettamente autonoma; mentre ancora pre-moderna è la sua preoccupazione di salvare l'esistenza di una dimensione soprannaturale e di mettere in guardia la ricerca umana dalla pretesa di voler conoscere le ragioni ultime per le quali Dio ha creato l'universo in questo determinato modo.
Telesio è ancora in bilico tra una visione teocentrica ed una antropocentrica, tra una visione spiritualistica ed una materialistica, benché inclini per quest'ultima; ma l'ultimo passo verrà compiuto solo nel secolo successivo, con Galilei e Cartesio, i quali - di fatto, se non a parole - si getteranno dietro le spalle, per sempre, una millenaria visione unitaria del mondo, dove lo spirituale spiega il materiale e dove la Causa Prima spiega le cause seconde.
Con Telesio, le scienze della natura incominciano a rivendicare orgogliosamente la propria autonomia e a fissare l'ambito della loro competenza - il mondo materiale -, separandolo da quello della teologia e della religione, che spingono lo sguardo oltre. Ma, una volta spezzata l'unità della visione del mondo, fatalmente le scienze della natura avrebbero imboccato la strada della totale emancipazione da ogni istanza superiore e avrebbero finito per proclamare che non si dà altra realtà all'infuori di quella del mondo materiale; che il mondo e la materia sono una sola e medesima cosa; che non vi è bisogno di alcuna Causa Prima, di alcuna causa finale per spiegare il mondo; che il mondo si può spiegare benissimo da sé.
Oggi è divenuta cosa frequente vedere scienziati i quali, a conclusione di un trattato di biologia, di fisica o di cosmologia, si improvvisano scienziati e perfino teologi e sentenziano che, il mondo essendo fatto unicamente di materia, non v'è altra realtà all'infuori di esso, né altre cause che valgano a spiegarlo.
Un tale esito era, a nostro avviso, implicito ed inevitabile, una volta ammessa la rigida separazione tra conoscenza sensibile e conoscenza spirituale, tra sapere delle scienze fisiche e sapere delle scienze teologiche e morali. Fino a quando le scienze naturali non erano concepite se non come «filosofia naturale» (cioè per tutto il Medioevo), la visione unitaria del reale era ben custodita; ma quando Telesio innalzò la bandiera della recisa autonomia dello studio della natura in base ai principi della natura stessa, si innescò un meccanismo che fatalmente avrebbe condotto a negare l'esistenza di un mondo spirituale.
Infatti, se la natura si può e si deve spiegare da sé stessa, che bisogno c'è di ipotizzare una Mente divina, un Dio creatore e amorevole, che diriga il mondo - secondo un piano provvidenziale - verso il suo compimento, ossia verso il ricongiungimento con Lui?
È chiaro che, in una prospettiva rigorosamente naturalistica, Dio diventa un «caput mortuum», un elemento accessorio, tollerato dapprima per rispetto alla tradizione e per forza d'abitudine; ma destinato ad essere espunto, presto o tardi, in nome della radicale autonomia dell'uomo.
A quel punto, all'uomo non resta che compiere anche l'ultimo passo: e, in nome di quella scienza che doveva indagare solo l'ambito della natura, avendo riconosciuto che non v'è altra realtà fuori della natura stessa, egli dà l'assalto al Cielo e si proclama il Dio di sé stesso, allo scopo di prendere la creazione nelle proprie mani, di manipolarla illimitatamente, di «migliorarla» a proprio talento.
Con quali risultati, lo dimostra la storia mondiale degli ultimi quattro secoli: a partire, appunto, dall'avvento della cosiddetta scienza moderna: materialistica, meccanicistica, riduzionistica, tutta paga di sé stessa e dei propri successi quantitativi.