Il declino occidentale e il modo di uscirne
di Tonino Perna - 26/02/2006
Fonte: carta.org
Prima ancora di confrontarci sul significato ed il senso della «decrescita», su cui si è acceso un interessante dibattito, vorrei partire da un dato: l’economia della gran parte dei paesi occidentali è entrata, con il nuovo secolo, in un lungo periodo di stagnazione. Il Giappone, dopo l’esplosione della bolla finanziaria del 1990, ha conosciuto quasi un decennio di stagnazione, con alcuni anni in cui la variazione del Prodotto interno lordo [Pil] ha fatto registrare, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, il segno meno. Gli Usa sono di fatto entrati anch’essi, dalla metà degli anni novanta, in una situazione di ristagno/declino della loro economia a cui hanno risposto iniettandole dosi massicce di droga: debito pubblico e aumento della spesa militare. Senza queste due potenti iniezioni di liquidità, l’economia della maggior potenza del mondo avrebbe fatto segnare tassi di crescita vicini allo zero o negativi. Il fatto che questa immissione di liquidità – sproporzionata rispetto alla produzione di ricchezza materiale – non abbia generato inflazione è dovuto al fatto, come hanno dimostrato tanti studi1 che le potenze emergenti, a partire dalla Cina, hanno invaso il mercato americano con prodotti a prezzi decisamente più bassi, dirottando la maggior liquidità del sistema sulla sfera finanziaria e bloccando la spirale inflazionistica. Insomma, si è dimostrata infondata la teoria quantitativa della moneta, cara alla scuola monetarista di Chicago, mentre è stato rivalutato il pensiero keynesiano e la sua variante: il keynesismo militare .
La recessione/stagnazione è dunque una realtà a cui i governi occidentali tentano di rispondere maldestramente con uno sforzo generale di indebitamento del sistema: crescita del debito pubblico, dell’indebitamento delle imprese e delle famiglie [in Italia il tasso di crescita dell’indebitamento delle famiglie è un fenomeno inquietante], cioè caricando sulle generazioni future l’onere di coprire una montagna di debiti. è invece inevitabile che, come avviene per tutti fenomeni che conosciamo, a partire dal ciclo vitale del prodotto teorizzato da Vernon, dopo una lunga fase di fase di crescita c’è un periodo di stagnazione, ed infine il declino. Lo possiamo rimandare, ma il declino è inevitabile.
La «decrescita» pertanto non è un obiettivo politico che, grazie alla presa di coscienza sui guasti ambientali e sociali, la popolazione occidentale tende a scegliere, ma una realtà ineluttabile, per l’occidente, con cui bisogna fare i conti. E poi, da un punto di vista semantico, bisogna ammettere che in natura «la decrescita» non esiste, ed è strano che autori di grande ingegno che ci parlano di bioeconomia non si rendano conto di questo abbaglio. Non ho mai visto un albero crescere, in una prima fase, diventare alto e robusto, ricco di foglie e di frutti, e poi, lentamente, cominciare a rimpicciolirsi. Se qualcuno ha mai visto in natura un fenomeno di «decrescita» per favore ce lo segnali. Come è vero che non esiste una crescita infinita, e qualunque essere vivente è una testimonianza di ciò, non esiste in natura la «decrescita» bensì l’invecchiamento. Purtroppo. Nella storia delle società umane l’invecchiamento si chiama declino. Grandi civiltà sono nate, cresciute, hanno prodotto opere mirabili e poi hanno intrapreso la via del declino e sono scomparse. Le citazioni potrebbero richiedere alcune pagine - dalla civiltà greca a quella egiziana, dagli Inca all’impero africano, ecc. – che ci raccontano tutte la stessa storia. Lo specifico della società capitalistica, rispetto alle società del passato, è che il declino coincide con la stagnazione/recessione del sistema produttivo.
I fondamenti storici e teorici della decrescita
Partiamo da una constatazione: abbiamo ormai tutti una memoria corta, breve, tendenzialmente istantanea. La velocità dell’informazione ed il suo processo di accumulazione quantitativa sta distruggendo la nostra capacità di ricordare, oltre che di assimilare, metabolizzare e digerire le informazioni, di trasformarle in coscienza, consapevolezza. Il dibattito sulla «decrescita» è un caso esemplare. Non c’è stato un solo autore che abbia citato il grande dibattito su questo tema suscitato dalla «Campagna Nord/Sud: debito e sopravvivenza dei popoli», lanciata da Alex Langer nel 1987. Questa campagna, cui parteciparono tanti amici e compagni ancora oggi impegnati nelle battaglie ambientaliste, aveva proposto con determinazione la critica al concetto di «sviluppo» anche grazie ai contributi di W. Sachs, di C. Baker , G. Ciuffreda, e tanti altri. Nel 1988 si organizzò a Roma un grande convegno, cui intervenne anche Bettino Craxi in qualità di presidente del Consiglio, dal titolo decisamente provocatorio: «Sviluppo? No, grazie».
Sono passati quasi venti anni, e sembra un secolo. Nessuno lo ricorda, eppure quella «Campagna» aveva posizioni radicali rispetto alla crescita economica quanto quelle oggi dei sostenitori della «decrescita» . Dopo cinque anni di originali iniziative, dibattiti, convegni, la «Campagna» si spense, senza lasciare tracce evidenti. Vale la pena ricordarlo per imparare una cosa fondamentale: le critiche radicali allo sviluppo non spostano di un millimetro i rapporti di forza, le relazioni sociali e il meccanismo di accumulazione capitalistico, se insieme al rifiuto non fioriscono e crescono iniziative concrete, lotte sociali, alternative credibili e percorribili non da un’élite, ma da una parte rilevante della popolazione.
Se abbiamo perso la memoria breve, figuriamoci quella lunga. Quando parliamo di «decrescita» ci dimentichiamo che l’umanità l’ha già sperimentata tante volte, nella storia, anche se in un contesto non industrializzato e tecnologicamente avanzato, e prima che il capitalismo diventasse la forma sociale dominante. Il grande storico francese Fernand Braudel ci ha lasciato pagine memorabili che vale la pena ricordare: «La crescita - miracolo dei miracoli – è diventata continua, e non si interrompe mai del tutto, neppure nei periodi di crisi. [….] Nessun miracolo, nessuna ‘crescita continua’ si verificano prima del 1815, o piuttosto del 1850 [alcuni direbbero anche, non prima del 1870]». E Braudel passa in rassegna le onde lunghe della storia, onde che salgono – dove crescono la produzione e la popolazione – e onde che scendono, comunque onde lunghe che attraversano i secoli: dal 1100 al 1350 si registra in Europa un aumento della popolazione e del reddito, dal 1350 al 1450 reddito complessivo e popolazione crollano, poi per settanta anni c’è una ripresa fino al 1520, a cui segue un nuovo periodo di stagnazione che dura due secoli2.
Anche sul piano della teoria economica alcuni importanti economisti «classici» avevano chiaro che la crescita illimitata era impossibile. Il grande David Ricardo non aveva dubbi in proposito: la rendita crescente della terra avrebbe comportato un aumento dei beni-salario ed il calo del tasso di profitto, motore del meccanismo di accumulazione capitalistico. C’è un limite fisico allo sviluppo del capitalismo, secondo Ricardo, dovuto al fatto che il processo di crescita economica comportava l’utilizzo di terre sempre meno fertili e quindi ad una crescita della rendita differenziale che si mangiava una parte crescente del surplus, rompendo il circolo virtuoso dell’accumulazione. Marx era molto critico con questa teoria di Ricardo, a cui rinfacciava di non aver preso in considerazione le opportunità offerte dalla tecnica, i progressi della chimica che avrebbero potuto incrementare la produttività per ettaro, superando i «vincoli naturali» posti da Ricardo.
Chi aveva ragione: il Marx lo «sviluppista» o il Ricardo dei limiti allo sviluppo? La storia ha dato in questo caso ragione a Marx: la crescita della produttività agricola è stata straordinaria dalla metà dell’Ottocento ad oggi. E alla fine del secolo scorso, quando per la prima volta negli States si è fermata la crescita della produttività nelle grandi «farms», sono arrivate le biotecnologie, che la rilanciano. Con una postilla: cresce la quantità di prodotto per ettaro a danno delle qualità [salute] per il consumatore, per l’ambiente, per l’uso delle risorse non rinnovabili [petrolio]. Questo è un dato su cui non abbiamo mai riflettuto abbastanza, sul piano della teoria politica. Avendo Marx abbandonato l’analisi dei valori d’uso - che delegò alla merceologia3 - si è occupato solo della crescita quantitativa dei valori di scambio, con cui si misura tradizionalmente la ricchezza di un paese in una società capitalistica. Da questa impostazione Marx fa derivare un noto assunto: il capitalismo potrà andare avanti finché sarà in grado di spingere in avanti le forze produttive, finché sarà in grado, diremmo oggi, di mantenere un buon tasso di crescita. Il regresso del Pil è incompatibile, nel medio-lungo periodo, con il modo di produzione capitalistico perché produce una caduta del tasso medio di profitto.
Quando parliamo di sviluppo non dobbiamo mai dimenticare che stiamo parlando di sviluppo capitalistico, che significa crescente mercificazione della realtà che ci circonda, compreso l’essere umano con i suoi sentimenti ed i suoi desideri. Chi pensa che questo modo di produzione presenta un conto salato in termini di qualità sociale e ambientale, punta a decelerare la macchina capitalistica dell’accumulazione. Già nella metà dellOttocento, nella fase clou delle rivoluzioni industriali europee, c’è stato chi coraggiosamente ha osato sfidare il mito della crescita.
Sismonde de Sismondi è stato il primo teorico della crescita zero, del freno all’accumulazione del capitale, il primo che ha indicato nella crescita capitalistica il male, il cancro della società moderna. Marx lo attaccò come «reazionario», come piccolo borghese, e Lenin rincarò la dose. Il socialismo scientifico non poteva non essere fortemente critico con chi, individuando le contraddizioni del sistema capitalistico, pensava di risolverle bloccando i processi in atto. Solo Rosa Luxemburg riconobbe il valore della critica di Sismondi allo sviluppo capitalistico, anche se gli rinfacciò di aver trovato la soluzione al problema «nella scappatoia piccolo borghese del freno all’accumulazione»4. Leggetevi Sismonde de Sismondi, le sue acuminate frecce lanciate contro i miti della crescita capitalistica che produce un aumento delle povertà e del degrado sociale, e confrontatelo con l’ultimo libro di Serge Latouche. Vi verrà il dubbio che la reincarnazione non è solo una moda della «new age», ma una realtà tangibile, almeno nella storia del pensiero. Certo, esistono delle differenze nelle analisi e soprattutto sui punti chiave di attacco al sistema della crescita: per Sismonde de Sismondi è il mutamento tecnologico che deve essere rallentato o fermato, se non vogliamo continuare a distruggere la società; per Latouche c’è un’emergenza ambientale, provocata dalla crescita economica illimitata, che ci impone di puntare alla «decrescita». Ma entrambi sono figli di quel romanticismo economico che Marx ed i suoi epigoni hanno sempre attaccato duramente. A questo filone appartengono grandi intellettuali come Carlyle, Ruskin e W. Morris, il padre del design moderno, che tanto si batterono nell’Ottocento contro i disastri ambientali, urbani, sociali, del modo di produzione capitalistico5. A differenza dei socialisti utopisti, che indicavano, e spesso sperimentarono, forme sociali «alternative» [pensate ai falansteri di Fourier], i socialisti romantici hanno posto l’enfasi sulla capacità degli esseri umani di cambiare rotta, una volta presa consapevolezza del disastro in cui viviamo e, soprattutto, siamo destinati a vivere se non cambiamo rotta.
Come sopravvivere al declino della civiltà occidentale
Chi vuole salvare l’occidente dall’inevitabile parabola discendente deve riuscire a separare il suo destino dal paradigma economicista, deve riuscire a scindere il legame tra civiltà e crescita economica . Deve evitare che la stagnazione/recessione economica comporti una riduzione dei servizi socio-sanitari, della cultura, della cura dell’ambiente e, soprattutto, dei diritti di cittadinanza. Bisogna separare, come si diceva una volta, il bambino dall’acqua sporca, per salvare quelle autentiche conquiste della società occidentale, frutto di secolari lotte dei lavoratori, dalla follia della crescita energivora, distruttrice di beni ambientali e sociali. Un compito difficilissimo ma ineludibile: è questa la più grande sfida che ha di fronte il nostro mondo in questo secolo. Chi evita di confrontarsi su questo terreno, o addirittura sente i brividi quando sente parlare di salvare la civiltà occidentale, regala alla nuova destra «teocon» uno spazio politico immenso, foriero di tragici eventi.
Come non ricordare che la nascita del nazismo è legata ad un filone di «risveglio», «rinascita» della Grande Tradizione Occidentale, dello spirito che s’incarna nella storia, a partire dalle opere di Hegel per finire con Spengler ad al suo «Tramonto dell’Occidente»6, in un momento di gravissima recessione economica che seguì il crollo della borsa di Wall Street nel 1929?
Oggi, nel primo decennio del ventunesimo secolo, la crescente precarietà del lavoro, la caduta del potere d’acquisto delle famiglie, la mancanza di futuro per le nuove generazioni, sono tutti elementi che concorrono a creare un clima di nostalgia per il passato, per gli anni mitici della crescita tumultuosa, i famosi «trenta gloriosi», in cui investimenti, occupazione stabile ed aumento del reddito reale delle famiglie andavano a spasso insieme. Non c’è cosa più pericolosa di un clima nostalgico in una fase storica in cui si sgretolano antiche certezze, in cui la gente, di tutti i ceti, sente tremare il terreno sotto i piedi. Se non si capisce che la «decrescita» si traduce anche in questa perdita d’identità e di orizzonti credibili, allora si rischia di lasciare alla destra estrema uno spazio politico che sarà immediatamente occupato. Solo se si riesce a costruire, giorno dopo giorno, un nuovo progetto di società che possa risorgere dalle rovine dello sviluppo, un progetto credibile e desiderabile che vive nella prassi di migliaia di iniziative locali, allora possiamo pensare che esiste una alternativa sociale al declino della società della crescita infinita.
Il valore maggiore di tutta l’opera di Serge Latouche è quella di aver tentato, in tutti i modi, di «decolonizzare» il nostro immaginario. Tutti i saggi di Latouche hanno questo filo che li tiene assieme: allargare il nostro immaginario, rompendo il pensiero unico dello sviluppo economico come alfa ed omega del benessere delle popolazioni. Riuscire ad immaginare un’altra società che costruisca altri parametri di benessere, riducendo l’impatto ambientale e costruendo una pluralità di legami sociali. La scommessa è tutta qui. Una scommessa che va riempita di contenuti, che deve fare i conti con una lunga fase di transizione in cui la parte più debole della società paga in prima persona i costi della decrescita.
Come difendere la qualità della vita nell’era della decrescita
La delocalizzazione del sistema industriale europeo cammina a ritmi sostenuti e sta producendo una crisi pesante per milioni di famiglie. Agli operai, ai tecnici di una fabbrica che chiude , non si può andare a raccontare favole sui vantaggi della decrescita. Ai giovani precari a vita e senza un futuro – in termini di stabilità, miglioramento delle proprie condizioni di vita, ecc. - che cosa raccontiamo? Che la crescita illimitata è impossibile, che questa condizione è il frutto del meccanismo di sviluppo capitalistico, che lo sviluppo comporta un degrado ambientale e sociale ulteriore? Sì, va bene tutto, ma i giovani precari e gli operai/tecnici che perdono il lavoro vogliono sapere come vivranno domani mattina.
Allo stesso tempo, si deve evitare che questa caduta verticale della produzione di beni e servizi scateni campagne xenofobe come quella a cui stiamo assistendo contro la Cina. In ogni fase di forte recessione si sono sviluppati i virus dell’irrazionalismo, è cresciuto il desiderio di trovare un capro espiatorio, sono emersi leader populisti e demagogici che hanno manipolato il disagio di massa.
Insomma, la recessione/stagnazione inaugura una fase di fibrillazione del sistema sociale e politico, a cui bisogna dare risposte concrete e praticabili.
La prima questione riguarda lo sganciamento del diritto alla vita dalle leggi dell’economia.
Nella grande crisi dell’Inghilterra di fine Settecento, il potere politico decise di emanare una legge, la famosa Speenhamland Law del 1795, che, come ha evidenziato K. Polanyi, garantiva il diritto alla vita e congelava il mercato del lavoro7. Se è stato possibile due secoli fa, nella povera Inghilterra nella fase iniziale della rivoluzione industriale, è sicuramente possibile oggi. Dopo due secoli di accumulazione capitalistica, è ridicolo pensare che per dare a tutti il minimo vitale – o reddito di cittadinanza, come diciamo oggi - sia necessario aspettare una ripresa economica, per altro fuori dall’attuale scenario. Si possono immaginare forme sociali di controllo e partecipazione al welfare che comportino un coinvolgimento responsabile delle comunità locali, ma il diritto alla vita deve essere posto al di là della questione del lavoro e dello sviluppo locale. Se avessimo fatto venti anni fa questa scelta nel campo della cooperazione e solidarietà internazionale, non avremmo avuto un intero continente, come l’Africa, con decine di milioni di persone che muoiono di fame e malattie curabili. Invece ci siamo convinti che era attraverso lo sviluppo, magari eco/sociale e sostenibile, che si sarebbe data una risposta non assistenziale ma strutturale. Errore colossale, fatto in buona fede da migliaia di Ong occidentali e pagato a caro prezzo dalle popolazioni più povere del sud del mondo.
La seconda grande questione che si pone in questa fase di decrescita è quello della riduzione della nostra dipendenza dall’esterno. A partire dal nostro paese, dove, ad esempio, la dipendenza dal petrolio non è più sopportabile – e non solo sul piano ambientale – ed è urgente puntare a tutte le forme di risparmio energetico e di promozione di energie rinnovabili. E naturalmente questo vale anche nel campo alimentare, dove s’intreccia il bisogno di protezione della nostra salute con la conservazione delle economie locali, degli antichi saperi e sapori, che acquistano oggi una valenza ecologica di prima grandezza. Come non è possibile, né intelligente, pensare a barriere doganali che difendano i nostri pomodori o le nostre mele dalle produzioni cinesi, è altrettanto folle accettare passivamente che il 70 per cento delle passate di pomodoro faccia un viaggio di diecimila chilometri. E questi non sono che esempi di un problema più generale che si può così enunciare: in una fase di decrescita bisogna procurarsi delle «uscite di sicurezza», e quindi individuare tutti gli strumenti che ci rendono meno dipendenti: dal denaro, dalla tecnologia, dallo Stato e dal mercato globale. E, naturalmente, scatenando la nostra immaginazione.
La risposta locale a questo meccanismo folle e perverso di globalizzazione non può che passare attraverso una riconsiderazione dello strumento monetario. Se vogliamo assicurare, a livello locale, il diritto alla vita e la qualità della vita ai cittadini, dobbiamo riacquistare il controllo sulla moneta. In tempi di tagli feroci agli enti locali, quella che sembrava una cosa bizzarra fino a pochi anni fa, sta diventando una questione centrale. O gli enti locali si doteranno di una moneta complementare – nell’accezione di B. Lietaer8 – oppure saranno costretti ad assistere, impotenti, al disfacimento del welfare, al degrado sociale e ambientale, alla loro perdita di ruolo nella fase politica in cui più si parla di federalismo e decentramento. Certo, alcuni enti locali che gravitano in aree ricche si salveranno, ma per il resto sarà la morte civile.
Una moneta locale complementare è la chiave di volta per rispondere sia alle necessità sociali, sia per rianimare e orientare in senso ecologico le economie locali. Ma richiede la costruzione di una grande rete socio-economica, di una fiducia dal basso, di una partecipazione convinta di tutti gli attori che gravitano in un determinato territorio. è un tema difficile e complesso, che merita un serio approfondimento. Ma, le variabili spazio/tempo ci inducono a rimandarlo alla prossima occasione.