È possibile ricominciare a vivere, voltare pagina senza guardarsi indietro?
di Francesco Lamendola - 05/02/2009
È possibile che un essere umano imprima alla propria vita una svolta radicale; che ricominci a vivere su basi del tutto nuove, e che proceda in avanti, guardando verso la luce, senza mai più voltarsi indietro?
Esistono, in proposito, due scuole di pensiero perfettamente antitetiche: l'una risponde di no, l'altra di sì; ma, in genere, entrambe lo fanno sulla base di elementi emotivi o di esperienze personali, senza stare troppo a ragionare.
Noi, invece, è proprio questo che vogliamo fare: provare a ragionare su tale questione, che ci sembra di somma importanza per tutti coloro i quali, inquieti e insoddisfatti della loro vita presente, aspirano a compiere un balzo evolutivo su di un livello superiore, ma esitano sul limitare, gravati da tutto il peso del passato, degli insuccessi, delle delusioni.
Il problema di «ricominciare a vivere» si pone, in genere, all'indomani di qualche evento traumatico, oppure come effetto di una graduale presa di consapevolezza della tranquilla disperazione in cui si trascina la propria vita: senza una meta, scienza uno scopo, senza un raggio di bellezza e di speranza che illumini i nostri passi.
Una mattina ci si alza, ci si guarda allo specchio (trovandosi imbruttiti ed invecchiati) e si dice a se stessi: «Ora basta: così non posso continuare. O trovo il modo di lasciarmi alle spalle le macerie del passato, oppure cado e non mi rialzo più».
Ci si guarda intorno: e un brivido di ribrezzo corre nell'anima. A perdita d'occhio, e fino al limite dell'orizzonte, non si riesce a scorgere nulla di bello, nulla di fresco, nulla di desiderabile o di incoraggiante o di rasserenante: né un amico capace di ascoltare e consigliare, né un obiettivo da raggiungere, né un luogo accogliente ove rinfrancarsi: niente di niente, insomma, di quel che sembra necessario per trovare un punto d'appoggio. Come quando si sale in montagna lungo una parete sempre più difficile, e non si osa tornare indietro solo perché non si ha il coraggio di affrontare i pericoli della discesa.
Eppure, si sa che non esistono alternative: si sa che bisogna ripartire da zero, ricominciare tutto daccapo; si sa che è necessario, ma non se ne ha la forza. Istintivamente si cerca un aiuto, ma non si riesce a scorgerne neppure l'ombra.
E poi, che cosa vuol dire ricominciare? Che cosa vuol dire volgere le spalle al passato? Sono cose possibili?
Alcuni pensano che noi siamo e rimarremo sempre gli stessi; che non abbiamo il potere di cambiare; che, pertanto, ci porteremo sempre dietro, ovunque, il peso del nostro modo di essere, compresi gli errori che già ci hanno fatto cadere una volta; comprese quelle disposizioni dell'animo, a causa delle quali siamo giunti fin sull'orlo del baratro.
Così pure, alcuni pensano che noi non potremo mai liberarci dal nostro passato; che esso ci seguirà per sempre, come un'ombra, come un compagno indesiderato, ma sin troppo fedele, condizionando sino all'ultimo il nostro presente. Non solo: che non sia neppure giusto voltare le spalle al passato; che esso sia parte di noi, nel bene come nel male; che noi non saremmo quel che siamo, se non fossimo stati quello che siamo stati.
In ciascuna di queste proposizioni c'è una parte di verità; ma nessuna di esse deve essere assolutizzata, nessuna deve inibire la nostra tensione verso il cambiamento positivo (perché di questo, ovviamente, parliamo: quello negativo, non c'interessa).
Ma, prima di domandarci se e in che modo si possa imprimere un cambiamento significativo alla propria vita e se e in che modo si possa evitare di restare imprigionati nella trappola del passato, crediamo che la cosa migliore da fare, sia dare una definizione di colui che dovrebbe essere il soggetto di tali tentativi.
Quando diciamo frasi del tipo: «noi non possiamo cambiare la nostra natura», oppure «non è possibile liberarsi dal peso del passato», chi è il soggetto di tali impossibilità (o, secondo l'opposta scuola di pensiero, di tali possibilità)? Chi è quel «noi» al quale ci si riferisce, facendo simili affermazioni?
Si dirà: «l'essere umano». Questa, però, non è una risposta adeguata. Essa, infatti, non fa che spostare l'ulteriore, ineludibile domanda: «Chi siamo noi»?
Abbiamo tentato di rispondervi nel precedente articolo: «Il paradosso della coscienza: uno o molti?» (sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
In quella sede, eravamo giunti alla conclusione che la persona ha l'essere, ma non è l'essere; possiede un essere contingente, non la pienezza dell'essere: quasi un pegno e una caparra d'infinito, che le rende più acuto e struggente il desiderio di riconquistare ciò che le manca; e che, tuttavia, in qualche modo - ella lo sente, sia pure in maniera oscura - le appartiene.
Tutto, in fondo - avevamo detto - si riduce al problema centrale, al problema dei problemi: il nostro essere destinati alla morte fisica.
Al tempo stesso, avevamo affermato che la categoria della libertà e le sue inevitabili compagne, angoscia e inquietudine, ci forniscono la bussola per orientarci nel mare nebbioso e tempestoso dell'esistenza. L'unità della coscienza si regge con fatica al di sopra del magma ribollente della ferita originaria. Quel che può far pendere la bilancia verso la dissoluzione irrimediabile dell'io oppure, al contrario, verso le forze centripete che preludono al reintegro della persona nell'essere, è precisamente la scelta che noi, posti nella situazione dell'esistenza, volta a volta operiamo per poterci determinare, appunto, come persone.
In ultima analisi, avevamo sostenuto che dare la preferenza alla nostra componente transitoria e contingente significa aprire la strada a quella discesa verso le tenebre che caratterizza un'esistenza disperatamente rivolta ad inseguire la propria fine. Puntare, al contrario, sulla componente necessaria e imperitura del nostro io, significa gettare un ponte in direzione dell'unica possibile redenzione dal nostro essere-per-la-morte e creare le premesse, mediante il potenziamento della nostra spiritualità superiore, del nostro reintegro finale nell'Essere originario, nell'Assoluto e nell'Eterno.
Da tutto questo consegue che quell'«io», rispetto al quale ci domandavamo se sia o meno in grado di ricominciare a vivere e se sia o meno in grado di superare il peso del passato (pur senza rinnegarlo, e anzi assumendolo come parte costitutiva di se stesso), non va inteso in senso statico, ma dinamico; non tanto come un dato, ma come un divenire e, quindi, in definitiva, come una possibilità.
Ecco il punto: la persona umana è colei-che-si-protende-verso-l'infinito; e, dunque, anche colei che può continuamente oltrepassarsi, gettarsi oltre se stessa (ed, evidentemente, oltre il proprio passato, inteso come bagaglio inerte e mortificante).
In termini religiosi (Vangelo di Giovanni, 3, 3): «Nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce nuovamente».
Ed esiste anche - scenario pauroso, ma reale - la possibilità inversa: quella, cioè, di regredire verso forme sempre più primitive, sempre più povere e disarmoniche del proprio io, fino alla negazione definitiva del progetto trascendentale inscritto nel concetto medesimo di persona.
E non sono pochi, invero, coloro che regrediscono al di qua della condizione di persone, ad esempio annullandosi come numeri nella massa amorfa; decisamente pochi, invece, coloro i quali - lucidamente e consapevolmente - si avviano con passo deciso verso il superamento dell'io contingente; gli altri, oscillano nella terra di nessuno, talvolta avanzano, poi si fermano o, addirittura, tornano indietro.
Si guardano intorno, come dicevamo all'inizio, quasi cercando una ispirazione, un suggerimento, un punto di appoggio; non trovano in se stessi la forza sufficiente. Allorché questo stato di incertezza si prolunga indefinitamente, si prospetta il fenomeno della vita mancata (cfr. F. Lamendola, «La vita mancata come problema filosofico» (sempre sul sito di Arianna).
Non sanno, o non ricordano, che una potente forza amica è lì, a portata di mano: i cristiani la chiamano Grazia; ma, per poterne beneficiare, occorre imparare a riconoscerla e a domandarla. Ne abbiamo parlato nell'articolo «Possiamo contare solo su noi stessi per realizzare l'oltre-uomo?» (sul sito di Arianna).
M. Scott Peck, una bella figura di uomo e di studioso recentemente scomparso, ha fatto in proposito una riflessione significativa, che - a nostro parere - andrebbe letta e riletta e profondamente meditata. Nel suo libro «Voglia di bene» (titolo originale: «The road less traveled», Milano, Frassinelli, 1985, p. 233), ha scritto:
«Qual è l'origine della grazia? L'amore infatti appartiene alla coscienza, ma la grazia no. Da dove viene questa «forza che si origina oltre i confini della coscienza e favorisce la crescita spirituale degli esseri umani?». (…) Per spiegare i miracoli della grazia e dell'evoluzione noi supponiamo l'esistenza di un Dio che, amandoci, desidera la nostra crescita. A molti quest'ipotesi appare troppo semplicistica, addirittura ingenua e infantile. Ma non abbiamo molte alternative. Nessuno del resto è riuscito a formularne una migliore o anche semplicemente diversa. Siamo perciò costretti a scegliere fra l'ipotesi forse puerile di un Dio che ci ama e il vuoto teoretico.
Se accettiamo questa ipotesi, scopriremo tuttavia che le sue implicazioni filosofiche sono tutt'altro che semplici.
Se postuliamo che la nostra capacità d'amare, l'impulso a crescere ed evolverci è un afflato divino, non possiamo fare a meno di chiederci perché Dio voglia la nostra crescita. Qual è il fine di questa crescita? Qual è l'obbiettivo dell'evoluzione? Cosa può volere Dio da noi? (…) Tutti coloro che postulano l'esistenza di un Dio benevolo non possono che giungere a un'unica, terribile conclusione: Dio vuole che diventiamo Lui. La nostra crescita ha come fine ultimo la divinità. Dio è il fine ultimo dell'evoluzione. Dio è la fonte della forza che ci spinge a crescere e ne è al tempo stesso la meta. È infatti questo che diciamo quanto intendiamo che Dio è Alfa e Omega, il principio e la fine.»
Dunque, non è mai troppo tardi per arrivare a comprendere il vero significato della vita; e non è mai troppo tardi per ricominciare a viverla.
Non si parla qui, naturalmente, di quei pretesi cambiamenti che consisterebbero in eventi puramente esteriori, quali il cambiare casa o città, il cambiare guardaroba o magari pettinatura, il cambiare lavoro, il cambiare moglie o marito, e magari - perché no - il cambiare amante o cambiare gusti sessuali; e così via.
Queste sono tutte sciocchezze in pretto stile americano: fino alla suprema banalità della chirurgia estetica, ossia al voler cambiare aspetto fisico a colpi di bisturi. Ma tutto ciò non ha niente a che fare col cambiare, semmai con il fuggire da se stessi, ma portandosi dietro il peso di tutte le proprie paure, delle proprie insufficienze e delle proprie vigliaccherie.
Dare una svolta alla propria vita significa sapere, finalmente, da che parte si vuole andare; significa liberarsi della zavorra inutile, come il pallone aerostatico che voglia levarsi alto nel cielo; significa imparare a guardarsi per quel che si è, ma desiderando diventare migliori.
Per quanto profonde possano essere le ferite che ci si porta dietro; per quanto ardua possa apparire la difficoltà di rialzarsi in piedi, dopo certe cadute, pure è un tentativo che va fatto e che non eccede le nostre effettive possibilità. Anche se può sembrare che le cose stiano altrimenti, non ci sarebbe mai dato da portare un peso superiore alle nostre forze.
Dare una svolta alla propria vita significa, inoltre, reimparare a vedere l'incanto del mondo, a cominciare dalle piccole cose di ogni giorno: lo spettacolo meraviglioso del mondo che ci avvolge e ci fa simili al sovrano di un regno ricchissimo, dono gratuito di un dio benevolo.
Non è mai troppo tardi per intraprendere una simile svolta: si può presumere di avere innanzi a sé ancora molti anni da vivere, oppure un giorno solo. Non è questo che conta: perché un salto qualitativo non ha niente a che fare con il regno della quantità.
C'è un bellissimo passaggio, nel discorso di Ivan Karamazov a suo fratello Alioscia, nel quale egli spiega al fratello, rivelandoglisi per la prima volta a cuore aperto, il suo irreferenabile amore per la vita, a dispetto dei suoi stessi convincimenti filosofici e morali estremamente pessimisti (in: Fëdor Dostojevskij, «I fratelli Karamazov», traduzione italiana di Pina Maiani, Firenze, Sansoni Editore, 1969, p.336):
«Sul nostro pianeta c'è ancora moltissima forza centripeta, Alësa. Abbiamo voglia di vivere, e io vivo, magari a dispetto della logica! Ammettiamo pure che non creda nell'ordine delle cose: ma mi sono care le foglioline viscose che si aprono a primavera, mi è caro il cielo azzurro, mi sono care certe persone, che a volte, ci credi?, uno non sa nemmeno perché gli siano così care, e mi sono cari tanti ideali umani, nei quali forse non ho più fede da un pezzo, ma che il cuore continua a venerare come vecchi ricordi…»
Ecco, quelle foglioline viscose che si aprono a primavera, quel cielo azzurro, dei quali parla Ivan Karamazov, riassumono tutto l'incanto del mondo e, in un certo senso, costituiscono la migliore risposta alle domande: perché ricominciare, con quali forze, verso quale meta?
Finché vi sia la bellezza nel mondo, sempre vi saranno anche la verità e la bontà dell'Essere.
E queste ragioni sono tali, crediamo, da rispondere esaurientemente a ogni genere di domanda che si possa porre circa il senso e la necessità di imprimere una svolta alla nostra vita, qui e ora.