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Dresda: 13 febbraio 1945

di Kurt Vonnegut - 13/02/2009

Fonte: gongoro

 
La notte del 13 febbraio 1945, sull'artistica città di Dresda, priva di industrie e di strutture militari, e per questo motivo affollata di profughi e di prigionieri di guerra, venivano scaricate circa tremila tonnellate di bombe, in gran parte incendiarie, che provocarono una terribile tempesta di fuoco e la morte – si calcola – di più di 100.000 persone.

Tra i pochi superstiti c'era lo scrittore Kurt Vonnegut, che dalla sua esperienza in questo enorme crimine di guerra trarrà l'ispirazione per il romanzo Mattatoio n.5. Questo è il brano in cui descrive la sua uscita dal rifugio.

La Voce Del Gongoro

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Di Kurt Vonnegut


Lui era giù nel deposito della carne, la notte che Dresda venne distrutta. Sopra si sentivano come dei passi di giganti: erano grappoli di bombe ad alto potenziale che cadevano. I giganti non la smettevano più di camminare. Il deposito della carne era un rifugio sicurissimo. Là sotto cadeva solo, di tanto in tanto, una pioggia di polvere d'intonaco. C'erano gli americani, quattro delle loro guardie, alcune carcasse di animali e nessun altro. le altre guardie, prima che cominciasse il bombardamento, erano tornate al calduccio delle loro case a Dresda. Sarebbero rimaste tutte uccise insieme alle loro famiglie.
Così va la vita.
Anche le ragazze che Billy aveva visto nude stavano morendo, in un rifugio molto meno solido, in un altro punto del macello.
Così va la vita.
Ogni tanto una guardia andava in cima alle scale a vedere cosa stava succedendo là fuori, poi tornava giù e bisbigliava qualcosa alle altre. C'erano degli incendi, fuori. Dresda era tutta una sola, grande fiammata. Quell'unica fiammata stava divorando ogni sostanza organica, ogni cosa capace di bruciare.
Non fu prudente uscire dal rifugio fino a mezzogiorno dell'indomani. Quando gli americani e le loro guardie vennero fuori, il cielo era nero di fumo. Il sole era una capocchia di spillo. Dresda ormai era come la luna, nient'altro che minerali. I sassi scottavano. Nei dintorni erano tutti morti.
Così va la vita.

Le guardie si strinsero istintivamente le une alle altre, roteando gli occhi. Passavano da un'espressione all'altra e non dicevano niente, pur aprendo continuamente la bocca. Formavano anche loro una specie di quartetto vocale, ma muto.
“Addio per sempre, ragazze e vecchi amici,” avrebbero potuto cantare, “addio per sempre, compagni e innamorate... Dio vi benedica...”

“Raccontami una storia” disse un giorno Montana Wildhack a Billy Pilgrim nello zoo tralfamadoriano. Erano a letto, fianco a fianco, ed erano soli. La cupola era coperta dalla calotta. Montana era incinta di sei mesi, grossa e rosea, e di tanto in tanto chiedeva pigramente a Billy dei piccoli favori. Non poteva mandarlo fuori a prenderle un gelato o delle fragole, dato che fuori della cupola l'atmosfera era satura di cianuro, e le fragole e il gelato più vicini erano a milioni di anni luce di distanza.
Poteva mandarlo ad aprire il frigorifero con l'immagine della coppia sul tandem o poteva sussurrargli, come adesso: “Raccontami una storia, Billy.”
“Dresda venne distrutta la notte del 13 febbraio 1945” cominciò Billy Pilgrim. “Noi uscimmo dal nostro rifugio il giorno dopo.” Raccontò a Montana delle quattro guardie che, nel loro stupore e nella loro angoscia, sembravano un quartetto vocale di dilettanti. Le parlò del macello con tutti i pali di cinta spariti, con i tetti e le finestre andati; le disse di aver visto qua e là dei piccoli ceppi carbonizzati. Erano le persone rimaste intrappolate nell'incendio. Così va la vita.
Billy le disse cos'era accaduto agli edifici che prima formavano come una scogliera intorno al macello. Erano crollati. Il legno si era consumato, le pietre erano cadute e si erano ammucchiate una sull'altra fino a formare delle dune basse e graziose.
“Era come sulla luna” disse Billy Pilgrim.

Le guardie ordinarono agli americani di mettersi in fila per quattro, e gli uomini ubbidirono. Li fecero marciare di nuovo verso la porcilaia dove erano vissuti fino ad allora. I muri erano ancora in piedi, ma le finestre e il tetto erano crollati e dentro non c'era altro che cenere, e grumi di vetro fuso. A questo punto ci si rese conto che non c'erano più né cibo né acqua, e che i sopravvissuti, se volevano continuare a sopravvivere, dovevano mettersi a camminare sulla superficie lunare, scavalcando una duna dopo l'altra.
Cosa che fecero.

Le dune erano lisce solo da lontano. Quelli che vi si arrampicarono impararono che erano cose frastagliate e infide – calde al tocco, spesso instabili – pronte, quando venivano smosse certe rocce particolarmente voluminose, a sfaldarsi ulteriormente e a formare dune più basse e più solide.
Mentre la spedizione attraversava la luna, nessuno parlò molto. Non c'era niente da dire. Una cosa era chiara: in città dovevano essere morti proprio tutti, e se c'era ancora qualche anima viva, rappresentava un'incrinatura in questa immagine. Sulla luna non doveva esserci proprio nessun altro abitante.