Resistere all'assalto della globalizzazione
di Ramzy Baroud - 28/02/2006
Fonte: Comedonchisciotte
Ho trascorso la maggior parte degli ultimi tre anni lavorando e viaggiando attraverso il Medio Oriente e l’Asia, in una delle più straordinarie ed appaganti esperienze della mia vita.
Questo viaggio mi ha portato non soltanto a mettere in discussione e a modificare tutta una serie di valori e credenze che per molto tempo ho ritenuto assoluti, ma ha anche effettivamente consolidato il mio sentirmi “fuori-posto”, che è diventato parte integrante della mia persona, discendente di rifugiati palestinesi espulsi dalle loro case in Palestina quasi sessant’anni fa. Eppure, visitando e vivendo in diversi paesi in quattro continenti, ho imparato ad accettare che la “non appartenenza” non è più una limitazione, ma una posizione privilegiata che mi ha aiutato efficacemente a superare stereotipi e superficialità.
Tuttavia, una delle tante prese di coscienza acquisite è stata anche l’incredibile e deliberata conformità che la maggior parte dei paesi del Terzo Mondo è indotta ad accettare, che necessariamente costringe l’unicità delle loro culture all’annullamento in favore di alternative culturali preconfezionate ed imposte dall’alto.
Ad esempio, la tradizionale struttura a villaggio delle culture del Golfo Arabo è quasi interamente scomparsa, per lasciar posto a grattacieli e a strutture abitative che non rappresentano e non si adattano alle identità culturali degli abitanti. Naturalmente non è la modernità ad essere sotto processo qui, ma il tentativo sconsiderato di abbracciare i simboli della civiltà occidentale sbarazzandosi dei propri.
Nel piccolo stato arabo del Qatar, per esempio, i villaggi abbandonati dopo il boom del petrolio cominciato negli anni 60 sono stati lasciati vuoti. Se ti fermi lì vicino, potresti giurare di sentire il lamento di un neonato o le risate dei bambini. Pare che non ci siano piani governativi per rinnovare o conservare in qualche modo questi villaggi, disseminati qua e là come città fantasma nella vastità del deserto, a dispetto dei miliardi di dollari spesi in gigantesche strutture in stile occidentale e in isole artificiali che sembrano non servire ad alcuno scopo specifico.
Oramai, l’era della globalizzazione appare inflessibile nel volersi sbarazzarsi delle culture locali nel loro complesso, perché queste non possiedono alcun tipo di potenziale economico utile. Così, nella maggior parte delle città del Medio Oriente i ristoranti di falafel sono ormai sorpassati, mentre i fast-food americani spuntano come funghi in tutta la regione.
Questa invasione culturale - a cui segue l’abbandono della propria cultura - sta trasformando le civiltà del Terzo Mondo, un tempo dominanti e fiere, in dissertazioni del tutto astratte e insignificanti; nel migliore dei casi, culture indigene che lottano per la loro stessa sopravvivenza.
Secondo la definizione classica, perché si possa parlare di una stirpe “nativa di un luogo” occorre precisare qualche caratteristica. Primo, la probabile supposizione che un territorio geopolitico sia stato occupato per un ragionevole lasso di tempo da un gruppo fisso di persone, e poi espropriato o caduto sotto la dominazione di un altro gruppo, attraverso un’intromissione esterna diretta o per mezzo di un nuovo assetto politico, come uno stato nazione. Secondo, anche l’ammissione che quel dato gruppo di persone abbia proprie caratteristiche sociali, culturali, religiose e perfino economiche, alcune delle quali sono da mantenere nell’ottica di preservare la designazione di “indigeno”.
Non sorprende allora che il tipico imperialismo del passato, e il più occultato imperialismo culturale del presente, siano stati e siano ancora categorici nel garantire il lento ma inarrestabile smantellamento di tutto ciò che rende una civiltà indigena presa di mira unica ed irripetibile; delle sue caratteristiche sociali e spirituali, dei suoi sostegni economici, delle sue credenze religiose; insomma, del suo modo di vivere.
Va da sé che le culture indigene sono sotto incessante attacco, sia in senso letterale, sia figurato. Alcune sono sopravvissute, alcune sono state distrutte, altre ancora stanno sostenendo una battaglia disperata per il riconoscimento dei loro diritti e per avere un po’ di spazio in un mondo che si sta sempre più polarizzando.
Dall’Arabia al Borneo, ho pochi dubbi sul fatto che le culture apparentemente dominanti in queste regioni abbiano in realtà da tempo ceduto il loro potere - ma non ancora la loro rilevanza - e siano state relegate al ruolo di “cultura (minore) nativa del luogo”. E comunque, anche questo ruolo secondario si trova sotto l’implacabile attacco della rapida globalizzazione economica, autoritaria e polarizzata.
In questa era di globalizzazione crescente, occorre capire che aggrapparsi ai vecchi retaggi ed alle vecchie tradizioni non equivale ad essere arretrati. Resta da vedere se il processo di globalizzazione ha lasciato abbastanza spazio alle culture locali per negoziare un ruolo per se stesse in un mondo di società invadenti, e di confini di stati nazione spesso indiscutibili.
Ramzy Baroud
autore di “The Second Palestinian Intifada: A Chronicle of a People’s Struggle” (La Seconda Intifada Palestinese: Cronaca di una Battaglia Civile - In stampa, Pluto Press, Londra). E’ anche il caporedattore di palestinechronicle.com. Lo si può contattare all’indirizzo di posta elettronica editor@palestinechronicle.com.
Fonte: http://onlinejournal.com/
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16.02.06
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di COOKIE