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Roosevelt pianificò la distruzione del Tripartito per imporre l'egemonia mondiale americana

di Francesco Lamendola - 20/02/2009


 

Nel precedente articolo «Fu la pretesa della resa incondizionata che spinse la Germania a una resistenza insensata» (sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice) abbiamo sostenuto che la dichiarazione di Roosevelt alla Conferenza di Casablanca, nel gennaio 1943, secondo la quale le nazioni del Tripartito non avrebbero potuto ottenere se non una resa senza condizioni, spinse invece queste ultime ad una resistenza fanatica - ad eccezione dell'Italia - e che ciò costò all'Europa e al mondo ancora due anni e mezzo di inutili distruzioni e la perdita di alcune altre decine di milioni di vite umane.
Ora, se sotto il profilo ideologico la dichiarazione di Roosevelt (che colse di sorpresa Churchill e contrariò perfino il suo supposto beneficiario, Stalin) si spiega in termini di guerra totale che il secondo conflitto mondiale assunse, da una parte e dall'altra, concretizzando il concetto di «nemico» come totale dis-valore, secondo le teorie di Car Schmitt (cfr. il nostro precedente saggio «Amico e nemico nel pensiero politico di Carl Schmitt», anch'esso reperibile sul sito di Arianna), sotto il profilo geo-politico tale spiegazione risulta insufficiente.
La maggior parte degli storici e dei saggisti (compreso Laslo Havas, da noi citato nell'articolo sulla pretesa di resa incondizionata) si sono sforzati di presentare Frankin Delano Roosevelt come un sentimentale idealista ed emotivo, che possedeva il difetto di una eccessiva ostinazione, ma con il grande pregio di una indiscussa - e indiscutibile - buona fede, della quale si sarebbe approfittato il perfido e astuto dittatore sovietico.
Ma questa è una versione di comodo, per presuppone appunto ciò che, secondo  il metodo di una storiografia imparziale, bisognerebbe provare. In altri termini, non si può «porre» la «bona fides» democratica di Roosevelt, per poi addossare a Stalin la responsabilità di averla sfruttata in un'ottica cinicamente imperialista; e, più in generale, non si può stabilire a priori che l'onestà politica è un attributo della democrazia, mentre tutte le storture di quest'ultima dipenderebbero, almeno in linea di principio, dai regimi totalitari.
L'Atene di Pericle, tanto per allargare il campo della riflessione, ci offre il classico esempio di una democrazia spietatamente imperialista, determinata a passare a fil di spada tutti gli abitanti di una "polis" che non accettava di sottostare alla servitù della Lega di Delo. E, in quanto alla buona fede - o, addirittura, alla pretesa ingenuità - di Roosevelt, possiamo osservare che ammettere il ruolo che essa poté avere, come fattore psicologico, nell'alleanza tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica, non esclude affatto che il presidente americano avesse comunque le idee estremamente chiare circa gli scopi ultimi della «pace punitiva» (e non certo della «pace democratica nel senso wilsoniano») che, palesemente, voleva infliggere alle nazioni del Tripartito.
Non basta, cioè, affermare che Roosevelt voleva infliggere una punizione esemplare ai dirigenti del Tripartito, per costringerli a rendere conto dei crimini dei quali si erano macchiati durante la guerra. È evidente, infatti, che egli intendeva punire non solo i dirigenti, ma anche i popoli tedesco, italiano e giapponese: tanto è vero che, proprio durante la Conferenza di Casablanca, egli mise a punto, insieme a Churchill, il piano per la distruzione sistematica delle città nemiche mediante i bombardamenti delle «fortezze volanti». E questo non è stato, semplicemente, il frutto di un atteggiamento «emotivo», bensì di un preciso ragionamento strategico.
Per Roosevelt, più pragmatico di quanto i suoi biografi generalmente siano disposti ad ammettere, la seconda guerra mondiale, diretta prosecuzione della prima, avrebbe condotto a una drastica e brutale «semplificazione» del quadro geo-politico.
Solo le potenze di tipo continentale avrebbero superato la prova: gli Stati Uniti in primo luogo, indi l'Unione Sovietica e, in prospettiva, la Cina e, forse, l'India. La Gran Bretagna si illudeva di poter conservare il proprio Impero, ma Roosevelt sapeva bene che ciò non sarebbe stato possibile, visto che la guerra si stava caratterizzando sempre più come uno scontro ideologico totale fra l'idea democratica dell'autodecisione dei popoli e quella totalitaria della conquista violenta.
Roosevelt era persuaso di ciò fin da quando si era incontrato con Churchill a bordo di una nave da guerra, al largo di Terranova, nel momento più difficile per i «cugini» inglesi (14 agosto 1941), allorché i due "leaders" avevano stilato la Carta atlantica. In quella occasione, il primo ministro britannico aveva dovuto ingoiare il boccone amaro di sottoscrivere la dichiarazione in cui si riconosceva il diritto all'autodeterminazione per tutti i popoli. Lo aveva fatto in mala fede, pensando al modo di scansarne, a tempo debito, l'inevitabile conseguenza, ossia la disintegrazione dell'Impero britannico, a cominciare dall'India. Ma, in questo caso, egli aveva la vista corta e s'ingannava circa l'inevitabilità della decolonizzazione; mentre l'idealista Roosevelt si mostrò infinitamente più lucido e realistico di lui.
Dunque, se solo le potenze di tipo continentale sarebbero uscite vittoriose dalla guerra, la Germania, l'Italia e il Giappone non sarebbero state, semplicemente, ridimensionate sul piano politico ed economico, come già era stato fatto per la Germania nella prima guerra mondiale; questi Stati sarebbero stati debellati per sempre nel loro ruolo, o nella loro aspirazione, di grandi potenze mondiali. Ciò sarebbe accaduto comunque, visto che la Germani avrebbe dovuto rinunciare all'Austria, alla Cecoslovacchia e agli altri territori dell'Europa centro-orientale; l'Italia e il Giappone avrebbero perduto le loro colonie e i loro possedimenti d'oltremare, rientrando nei rispettivi, angusti confini peninsulari ed insulari, oltretutto poveri di materie prime.
Ma ciò, a Roosevelt, non bastava; egli voleva troncare per sempre ogni possibilità che, in futuro, quelle tre nazioni riprendessero la marcia interrotta verso l'affermazione al rango di potenze mondiali; voleva che il campo della grande politica fosse sbarazzato per sempre della loro presenza,  così come sarebbe stato parzialmente sbarazzato della Gran Bretagna e della Francia, che sarebbero rimaste solo formalmente delle grandi potenze, ma, in realtà, avrebbero dovuto gravitare verso la superpotenza americana, per fronteggiare il colosso sovietico. E, dal momento che l'Unione Sovietica sarebbe a sua volta uscita stremata dal conflitto (al presidente americano erano note le cifre spaventose delle perdite sovietiche in uomini e mezzi), egli poteva giustamente aspirare, per il proprio Paese, a quel ruolo incontrastato di massima potenza mondiale che, poi, la costruzione dell'arsenale atomico le avrebbe realmente assicurato, almeno per alcuni anni.

Ha scritto lo storico Andrea Hilgruber nella sua ormai classica monografia «Storia della seconda guerra mondiale» (titolo originale: «Der Zweite Weltkrieg 1939-1945», 1982; traduzione di Enzo Grillo, Roma, Laterza Editore, 1987, 1994, pp. 205-209):

«Che gli stati vinti dovessero essere non solo indeboliti, ma espulsi dal novero delle grandi potenze., era nella logica ella politica della coalizione antihitleriana", una politica che, compressa nella formula della "capitolazione senza condizione" quale "risposta" alla "sfida" degli "aggressori", aveva obiettivi di guerra estremi. Ma questo risultato lo si sarebbe ottenuto di fatto anche senza una simile esasperazione degli obiettivi di guerra alleati, , con una pace di compromesso sulla base dello "status quo ante". Infatti, sia il rapido sviluppo della tecnica militare e della connessa strategia militare "a largo raggio", che lasciava ormai la "chance" della "sovranità" politica soltanto agli Stati di dimensione continentale, sia l'incapacità (constata già nella prima guerra mondiale da parte di una serie di ex grandi potenze) di rendersi economicamente autosufficienti entro i rispettivi confini nazionali, rendevano necessario un allargamento dell'area di influenza di Stati dell'ordine di grandezza della Germania, dell'Italia e del Giappone, al di là della cornice statale nazionale che una volta era stata sufficiente  ad assicurare la loro posizione di grandi potenze. Era questa la condizione per tenersi al passo con le "potenze predestinate "in termini geografici e di potenziale economico-militare come gli Usa e la Russia, e per non ricadere inermi al livello degli Stati intermedi. Lo spostamento dei confini oltre l'ambito statale-nazionale, quindi, non era solo un programma di ideologi estremisti, ma anche l'obiettivo delle forze dirigenti moderate di questi Stati, ampiamente maggioritarie sul piano numerico ma ferme alla tradizionale mentalità da grande potenza, le quali sostenevano gli estremisti appunto sulla base di un'oggettiva identità parziale di interessi. Puntare all'obiettivo della conservazione ovvero della riconquista della "sovranità" come potenza politica entro le mutate condizioni esterne alla metà del XX secolo, era oltretutto il tratto fondamentale comune, per così dire, l'unico anello di congiunzione tra le tre potenze "have not" per il resto divergenti sotto molti altri aspetti. Ma ricacciarle entro i loro vecchi confini statali nazionali era, dalla parte opposta, l'obiettivo minimale anche dei gruppi più moderati, quella parte del ceto dirigente americano e britannico rimasto isolato durante la guerra dopo le speranze deluse in un'opposizione tedesca a Hitler (nell'inverno 1939-40), e poi fino alla svolta delle ultime settimane di guerra.
Giudicato sulla base di queste premesse, l'esito della guerra significò, per le tre grandi potenze sconfitte, la conclusione di un'epoca storica, la fine di un cammino ascendente - fino ad  allora certamente interrotto molte volte ma mai troncato definitivamente - che le aveva portate fuori dalla sfera delle potenze intermedie a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del XIX secolo. Per esse, il ruolo di grandi potenze sovrane nell'ambito del sistema delle potenze rispettivamente europee e mondiali, era durato soltanto 80-90 anni circa.
A prima vista, la cesura dell'anno 1945 fu tra le più profonde ma, nella lunga prospettiva, ancora la meno drastica per il Giappone, che dalla restaurazione Meji del 1868 in poi aveva compiuto, malgrado alcune crisi, uno sviluppo in senso progressista che appariva stupefacente e che lo collocava in prima fila tra le potenze mondiali. Con la capitolazione, tuttavia, la sua funzione di grande potenza con piena "sovranità" politica era terminata, e insieme era fallito il primo tentativo di creare uno Stato non-"bianco", uno Stato asiatico di pari rango tra le grandi potenze. Ciò poteva essere interpretato come un trionfo postumo dei suoi concorrerti "bianchi". Dopotutto, l'ondata imperialistica delle forze occidentali, quando ormai quasi tutta la terra era caduta direttamente o indirettamente nella sfera d'influenza dei "bianchi", si era infranta sulla resistenza del Giappone, e la sua ascesa, a partire dalla guerra cino-giapponese, e soprattutto da quella russo-giapponese, era diventata il simbolo della prima formazione di forze contrarie alla dittatura "bianca" sul mondo, che appunto per questo non si era mai attuata interamente. Ciononostante, come sarebbe risultato chiaro in seguito, la sconfitta del Giappone nel 1945 non significò la fine repentina di uno sviluppo, secondo le supposizioni iniziali connesse alla "desacralizzazione" dell'imperatore giapponese, del tenno, e all'adozione di numerose idee e istituzioni americane, avvenuta in parte in modo coercitivo ma in parte anche in modo semivolontario con un duttile processo di adattamento. Anzi - per usare una metafora  - essa fu soltanto una "sferzata" in una direzione alquanto diversa e più moderna, favorita dal contributo di vari fattori: la dipendenza da un'unica potenza vincitrice (gli Usa); le ripercussioni della rivoluzione iniziata nell'immediato dopoguerra in Cina, nella quale era iniziata, sotto la guida di Mao Zedong - e in conseguenza dell'esito del conflitto est-asiatico in corso dal 1937 in poi e delle tendenze anticolonialiste che lo accompagnarono -, l'ascesa di un secondo Stato non-bianco, asiatico, verso la posizione  di grande potenza mondiale "sovrana" (ascesa che inutilmente Chang Kai-shek aveva tentato di compiere d'accordo con gli americani a partire dalla conferenza del Cairo del 1943); infine, la connessa riqualificazione del ruolo del Giappone nell'ambito della strategia globale degli Usa, che era però già una risultante anzitutto del confronto sovietico-americano nel Lontano Oriente.
Il risultato di tutto questo fu una profonda trasformazione che  offrendo al Giappone la possibilità di sfruttare il poderoso potenziale economico di un grande Stato - certamente non più pienamente "sovrano" ma tornato ad essere un fattore di prim'ordine -, gli permise d'inaugurare una nuova epoca della sua storia che conteneva ben più elementi tradizionali di quanto si potesse immaginare dopo la capitolazione del 1945. Non si può non notare una certa analogia con la situazione della Germania dopo la prima guerra mondiale, espressa anche nella rivendicazione ostinata della revisione degli effetti della guerra nei confronti dell'Unione Sovietica, alla quale si richiede la restituzione delle quattro isole Kurili meridionali, che giacciono immediatamente all'estremo nord dell'isola principale di Hokkaido.
Il destino dell'Italia assomiglia a quello del Giappone nella misura in cui anche quello Stato, nella sconfitta, ebbe a che fare in effetti con una sola potenza vincitrice, o meglio con un gruppo di potenze (Usa-Gran Bretagna) in sé largamente omogeneo, e riuscì quindi a conservare l'unità nazionale. Al contrario del Giappone che aveva seguito consapevolmente una via fortemente autonoma dopo la restaurazione Meji, l'Italia, a partire dal machiavellico "imbarco" nella "grande politica"  realizzata da Cavour durante la guerra di Crimea (che alla conferenza di pace di Parigi del 1856 aveva portato al riconoscimento del Piemonte-Sardegna quale quasi sesta grande potenza europea), aveva potuto svolgere il proprio ruolo sempre e solamente in appoggio e all'ombra di altre potenze più forti: per il periodo più lungo sotto la protezione della Gran Bretagna, poi giocando l'alternativa della Triplice Alleanza nel periodo bismarckiano e in quello che precedette la prima guerra mondiale, infine  come "juniorpartner" della Germania hitleriana I conati di espansione imperiale nei Balcani e in Africa, che durante la seconda guerra mondiale l'Italia, sfruttando le tensioni tra le altre potenze e muovendo dalla sua testa di ponte  al di là del Mediterraneo, la Libia, aveva sperato di allargare  ad Impero mediterraneo appoggiandosi alla Germania, furono completamente vanificati dall'esito della guerra. L'Italia veniva così ricacciata nei suoi difficili problemi politici e sociali interni che il regime fascista aveva inteso dominare per vent'anni. Diversamente dal Giappone l'Italia non aveva un'importanza così centrale nel sistema clientelare americano da far ritenere  il consolidamento della sua situazione interna - al di là dello stato d'emergenza - una questione vitale dell'egemonia americana nel Mediterraneo. Di conseguenza essa si ritrovò a dover contare sulle proprie forze insufficienti, adattandosi al suo ruolo di potenza intermedia in cui era rimasta, in fondo, tra il 1861 e il 1943.
A differenza del Giappone e dell'Italia, a sua volta, la Germania di Hitler non si era limitata, nei suoi obiettivi, alla conquista di una posizione egemonica in un'area regionale. Il Giappone e l'Italia, è vero, avevano cercato anche di scacciare le altre grandi potenze dai territori coloniali e dalle basi d'appoggio, ma non avevano avuto alcuna intenzione di minacciarle addirittura di eliminarle come grandi potenze.  Il lato singolare degli obiettivi di Hitler era appunto questo: che essi andavano quantitativamente e qualitativamente al di là di una posizione egemonica in una Mitteleuropa allargata, quale era stata l'aspirazione dell'Impero germanico  nella prima guerra mondiale del 1914-18. Essi miravano invece a raggiungere, attraverso una posizione di potenza mondiale, una posizione di vero e proprio predominio mondiale, e nel lungo periodo addirittura di egemonia mondiale, seguendo un "programma graduale" che prevedeva l'eliminazione della Francia e della Russia quali grandi potenze, e precisamente la Francia ridotta a livello di Stato intermedio dipendente, la Russia ridotta ad oggetto di dominio coloniale o al ruolo di "India" tedesca. Lo sterminio degli ebrei rappresentava la conseguenza estrema più sistematica, anche se non l'unica, del dogma ideologico-razziale dell'antisemitismo universale più radicale, del social-darwinismo e della dottrina degli "esseri inferiori". Per convincersene, basta dare un'occhiata ai progetti di trasferimento coatto di oltre trenta milioni di persone dall'Europa centro-orientale e orientale, nell'ambito del cosiddetto "piano generale est". Certo, nel quadro della storia della grande potenza tedesco-prussiana, gli obiettivi espansione territoriale di Hitler rappresentavano il culmine definitivo e l'estrema dilatazione  di antiche aspirazioni. Ma nel loro nucleo essenziale  essi erano qualcosa di qualitativamente diverso e realizzavano  una profonda cesura col passato tedesco…»

Questo, dunque, era il calcolo di Roosevelt; e nel calcolo rientrava, fin dal principio, l'eventualità di dover cedere mezza Europa allo «zio Joe», come di fatto avvenne nel 1945; mentre non vi rientrava affatto la disponibilità americana a sostenere la Gran Bretagna (e tanto meno la Francia) nell'impresa impossibile di conservare, o recuperare, il proprio ruolo di potenza mondiale.
L'intimazione di resa incondizionata al Tripartito, pronunciata a Casablanca nel gennaio 1943 e mai più smentita, ebbe un ruolo decisivo nel sospingere i dirigenti tedeschi e giapponesi a irrigidirsi in una resistenza senza speranza, trasformando le rispettive guerre di aggressione in guerre difensive per la sopravvivenza nazionale.
Hillgruber è molto chiaro su questo punto (Op. cit., p. 210):

«Siccome d'altra parte fu chiaro ben presto che, al contrario di quanto era accaduto nel 1918, in caso di una sconfitta l'Impero germanico come grande potenza non sarebbe rimasto in piedi perché ora la slavina delle potenze avversarie da est e da ovest si sarebbe abbattuta sull'Europa centrale e sulla Germania senza incontrare ostacoli, la fine della potenza mondiale qualitativamente nuova, così come la intendeva Hitler, significava necessariamente anche la fine della posizione di grande potenza della Germania  in senso tradizionale ossia dell'Impero bismarkiano. Questa conseguenza - il fatto cioè che Hitler e il suo regime, compresi i vecchi gruppi dirigenti della burocrazia statale, dell'economia, degli organismi militari e della diplomazia, si considerassero , come si dice, tutti in una stessa barca - ha generato prima l'ostinata volontà tedesca di prolungare la resistenza contro l'alleanza nemica (la quale  chiedeva la "capitolazione incondizionata") anche quando ormai tutto era finito; poi, quando fu evidente che era stato questo prolungamento della guerra già perdita a rendere possibile il completamento del genocidio degli ebrei e di tanti altri crimini di guerra, essa contribuì sa trasformare la capitolazione in una catastrofe non solo militare ma anche morale per i tedeschi.»

Dunque, il fatto che l'intimazione di resa incondizionata - insieme ai bombardamenti sempre più massicci sulle città nemiche -  non avrebbe indebolito la volontà di resistenza del Tripartito, ma, al contrario, avrebbe portato la sua determinazione a battersi fino al parossismo, non poteva essere, per Roosevelt, un effetto imprevisto.
Tutto lascia pensare, invece, che il presidente americano abbia calcolato in anticipo un tale risultato e che lo abbia scientemente perseguito, perché solo la resistenza ad oltranza del nemico gli avrebbe consentito di portare avanti sino in fondo i suoi piani di distruzione totale di esso. Una tale resistenza, infatti, avrebbe fornito agli Stati Uniti l'alibi per intensificare la guerra di distruzione,  fino ad un punto quale non si era mai visto nella storia moderna, fornendo a una simile strategia delle giustificazione di tipo sia strategico, che morale. La distruzione di Dresda, ad esempio, fu presentata come una necessità strategica, mentre quella di Hiroshima e Nagasaki, come l'unico modo per evitare che un milione di soldati americani dovessero morire nello sbarco sul suolo giapponese.
Né si dimentichi che la bomba atomica, affannosamente realizzata dagli Stati Uniti nel corso del 1945, era destinata inizialmente a colpire la Germania; fu solo il crollo inarrestabile di quest'ultima, nella primavera, che fece dirottare il suo impiego contro il Giappone (predisponendo l'opinione pubblica mediante l'affondamento dell'«Indianapolis», mandata allo sbaraglio davanti ai siluri di un sottomarino giapponese proprio a tale scopo).
Noi non arriviamo fino al punto di pensare che anche il genocidio degli ebrei fu previsto e calcolato da Roosevelt, anche se è certo che egli era stato sufficientemente informato di quel che avveniva, a questo riguardo, fin dall'epoca della Conferenza di Casablanca; per cui è inevitabile concludere, con Hillgruber, che - paradossalmente - la certezza della sconfitta e l'approssimarsi della fine indussero il regime nazista ad accelerare i modi e i tempi dello sterminio, onde non si può certo dire che la richiesta di resa senza condizioni abbia giovato al destino degli ebrei.
Oppure si può pensare che alcuni circoli sionisti, che esistevano ed erano assai potenti nell'entourage del presidente americano, avessero non solo previsto un tale esito, ma, in qualche misura, lo avessero perfino auspicato, allo scopo di porre in maniera ultimativa, a guerra finita, la questione della ricostituzione di uno Stato ebraico in Palestina, profittando anche del fatto che il Gran Muftì di Gerusalemme aveva commesso l'imperdonabile errore di calcolo di puntare sul cavallo sbagliato, legandosi a Hitler e a Mussolini?
Sia come sia, il fatto è quello. La richiesta di resa incondizionata inasprì la resistenza tedesca (e giapponese), prolungò la guerra, spinse i nazisti ad accelerare la «soluzione finale» del problema ebraico e pose le premesse per la costituzione dello Stato d'Israele.
Forse Roosevelt non aveva previsto le due ultime conseguenze; ma le prime due, certamente, sì. Eppure, egli fece ugualmente la dichiarazione di Casablanca: segno che era o molto stupido, o molto astuto.
A ciascuno spetta di trarre la conclusione che ritiene più vicina alla verità storica.