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1968: le origini della contestazione globale

di Alessandra Salvini - 20/02/2009


 


 

Quando si parla di “Sessantotto” è bene capire di cosa si sta parlando. Di un singolo anno? Il 1968 appunto? Di un movimento sociale iniziato ben prima e magari finito proprio nel 1968? Ovvero al contrario di un medesimo movimento cominciato proprio in quell’anno e precisamente con la battaglia di Valle Giulia del primo marzo 1968?
È questo uno dei punti (sostanzialmente tre) che indirettamente Marco Iacona tenta di chiarire nel suo 1968. Le origini della contestazione globale (Solfanelli, Chieti 2008, euro 10). Centosessanta pagine dedicate ai rapporti fra destra culturale e destra politica (non sempre coincidenti) e appunto il ‘68. Gli altri due punti ai quali l’Autore dedica alcuni capitoli riguardano invece l’uno esplicitamente la destra e lo scontro che al tempo della contestazione si consumò al suo interno, l’altro la riscoperta di un sentimento sessantottino in un periodo a noi abbastanza vicino. Qui di seguito un breve esame di ognuno dei tre punti.
1. Col suo primo capitolo, che segue un’intensa presentazione di Gianfranco de Turris e l’introduzione dello stesso Autore, Iacona sembra sposare l’idea che il ’68, come “spirito ribelle”, sia nato almeno un lustro prima. È di anni Sessanta che si dovrebbe parlare quando si accenna ai cambiamenti politico-culturali che di seguito a quelli economici, spinsero l’Italia sulla strada di una nuova e più concreta modernità.
I Sessanta sono gli anni del boom, del centro-sinistra e della crisi della destra politica, ma anche gli anni in cui l’Italia scopre di aver contratto qualche debito di troppo, in primo luogo con la moralità.
Mentre tuttavia un’intera generazione di arricchiti, o di semplici lavoratori, scala le colline del desiderio e del successo, dall’altra parte dell’Occidente si registra una serie di novità non di poco conto; in primo luogo si tratta di mode musicali, abbigliamento, linguaggio e costumi – l’Italia peraltro è un Paese americanizzato almeno dal dopoguerra – ma si tratta anche di novità in campo istituzionale (il kennedysmo con annessi e connessi); lampi di nuovismo abbagliano gli stessi figli dei nuovi ricchi e scatenano in molte famiglie delle vere piccole-grandi “guerre civili”. Ma andiamo con ordine.
Ha ragione chi dice che il vero Sessantotto sia nato almeno tre anni prima. 1965: a Roma si inaugura il “Piper club”, il simbolo di un’intera generazione “beat”, fenomeno di costume per i più giovani e non solo. Passano pochi mesi e in tre diverse città italiane (Milano, Genova e la stessa Capitale), arrivano i “Beatles”, il gruppo musicale per eccellenza, i capelloni che fanno impazzire l’intero pianeta e fanno disperare ogni genitore nato negli anni Venti o Trenta (anche se poi qualcuno di essi andrà pure a sentirli in concerto). Nella metà degli anni Sessanta per i più giovani sembra consolidarsi uno stile di vita nuovo, costituito da un certo numero di “beni” per essi stessi pensati e da essi stessi in primo luogo consumati.
Si tratta di un nuovo mondo. Quel mondo dei, ma soprattutto per i giovani sognato per buona parte del Novecento, posto a contatto con quella cultura americana già frontiera del tutto è facile. Gli italiani, spiega Iacona, guardano all’America moderna, alla grande nazione con invidia, attratti dal facile guadagno, e dalle mille possibilità che la terra del pragmatismo offre ed ha sempre offerto loro. Ma i più giovani guardano anche ad un altro tipo di America (che è l’altra faccia del progresso economico), l’America protestatoria della “generazione beat”, l’America di Jack Kerouac, il Paese che ha sancito il trionfo degli “scarafaggi”, di quei quattro capelloni sudditi di “Elisa-beat”, la cui carriera artistica, il cui stile di vita sono stati stroncati dalla maggior parte dei “matusa”.
C’è un’America che pervade il vecchio continente dunque, ma c’è anche una seconda metà del cielo, la metà comunista, che sta rapidamente alterando i propri connotati. Come se non bastassero gli ingredienti stelle-e-strisce per una lotta fra generazioni, scrive Iacona, altri modelli politici di riferimento stanno mutando in modo repentino. Dirsi comunisti negli anni Sessanta significava ancora tenere per l’Unione Sovietica? Sì e no perché da molti punti di vista le cose erano cambiate troppo velocemente. Ciò per non tacere delle trasformazioni che avevano investito anche una Chiesa cosiddetta moderna e marxistizzatasi.
Negli anni Sessanta – anni della “distensione” – lo stalinismo è oramai roba per vecchi sdentati, perché i comunismi come in un gioco di origami, si sono fatti in quattro. C’è quello nazionalista, dunque in parte ma solo in parte, quello italiano, c’è quello sovietico, c’è quello sudamericano essenzialmente guerrigliero e c’è quello orientale cioè cinese. Degli ultimi due sono eminenti rappresentati quel Mao che dal ’66 ha dato inizio alla Rivoluzione culturale e quel Che Guevara ad un tempo combattente, rivoluzionario idealista ed icona giovanile grazie alla strafamosa foto realizzata da Alberto Korda (siamo in anni warholiani non dimentichiamolo mai).
Queste novità piovono come mattoni, l’uno dietro l’altro sul capo dei “borghesi” occidentali. Ecco perché quando nel cuore degli anni Sessanta le Università americane vanno in agitazione per motivi prima di organizzazione e gestione dei corsi e poi – 1966 – per  ragioni politiche (la guerra del Vietnam), nelle menti e nei cuori dei giovani italiani comincia a introdursi il tarlo della rivolta. E di occasioni per giocare alla rivoluzione, in Italia non ne sarebbero di certo mancate.
Mentre il mondo sembra una fuori-serie che corre in autostrada, l’Italia è, scrive Iacona, un Paese «pallidamente riformista» guidato da uno dei più incomprensibili leader politici della storia del dopoguerra. Aldo Moro, quell’Aldo Moro che dieci anni dopo verrà barbaramente ucciso (e prima di lui gli uomini della sua scorta) dalle Brigate rosse. Peraltro e credo che Marco Iacona l’abbia fatto intenzionalmente, nel libro appaiono ampie testimonianze di intellettuali anti-sessantottini quali Montanelli e Carlo Casalegno che nei Settanta, lontano da certe logiche “confidenziali”, saranno vittime di feroci attentati terroristici (com’è noto solo il primo dei due sopravviverà). Come a dire: pagherete caro pagherete tutto!
L’Italia degli anni Sessanta l’aveva perfettamente inquadrata un intellettuale di destra che più di destra non si potrebbe, Giovannino Guareschi. Il buon padano aveva capito che col centrosinistra si sarebbero affacciati sull’uscio del potere, e pochissimi col cappello in mano, tutta una serie di individui che avrebbero poi fatto parlare di sé. I giovani adesso ambivano alla laurea, alla carriera dirigenziale e al posto fisso, molti di essi si sarebbero trasformati negli yuppies degli anni Ottanta, a loro volta cugini di primo grado dei più famosi tangentisti degli anni Novanta. E questa è un’altra triste storia di un Paese triste.
La scintilla che in Italia sembra far esplodere la polveriera dei Sessanta è dunque l’Università. Vecchia anzi decrepita, colma come adesso di baroni (ma almeno quei baroni avevano studiato…), così piccola da scoppiare, e così inadeguata da scoraggiare molti figli delle classi più povere che da pochi anni avevano avuto accesso agli studi superiori. Quella stessa Università peraltro che era stata puntata dal mirino riformista del ministro Luigi Gui, classe 1914, coinvolto in seguito (ma scagionato), nel celebre scandalo dell’azienda aeronautica Lockheed.
Siamo nella seconda metà del 1967, la riforma Gui va in parlamento. Il ministro non ha la bacchetta magica, e da buon italiano e democristiano vuol salvare capra e cavoli. Non vuol dispiacere né gli studenti, né i professori, molti come lo stesso Moro suoi illustri colleghi. Il meccanismo però è già in moto. «Ubriachi di ribellismo», scrive Iacona, i giovani «avevano interpretato le nuove norme come un fondamentale passo indietro». Adesso anche gli studenti italiani hanno un nemico e proprio in casa loro. Sarà invero difficile fermarli. La lotta prevede l’occupazione sul modello americano, prima Trento, poi Milano, poi Torino e via via le altre città italiane (Pisa aveva cominciato ancor prima). Le parole d’ordine sono assemblee, documenti in ciclostile, rivendicazioni e… mazzate. Spesso fra studenti a volte fra studenti e professori (a menare sono solo i primi però), in qualche caso fra studenti e forze dell’ordine. È il caso della celeberrima battaglia di Valle Giulia. Iacona scrive però che di “Valle Giulia” ce ne fu anche un’altra stavolta per i milanesi… e saranno contenti quella della Lega.
Si tratta di avvenimenti, diciamoci la verità più squallidi che splendidi, citati come e più del 14 luglio del 1789 in Francia. In quei giorni per qualcuno nacque già il terrorismo (sic!) inteso come lotta armata contro il potere e i suoi simboli. Ben prima dunque del fatidico – terribile – 12 dicembre 1969, dal quale secondo certe versioni “ufficiali” sembra sia dipesa la storia del nostro Paese per quasi vent’anni.  
Lo scontro fra studenti e forze dell’ordine provoca ai giovani un orgasmo collettivo della durata di circa quarant’anni (peraltro non interrotto dall’andropausa). È il sogno di ogni ribelle, la madre di tutte le battaglie, il duello finale, Gary Cooper contro il killer brutto e cattivo: i giovani contro lo Stato (quando si parla dello stato come forza delle “reazione” – dunque come nemico – chissà  perché si usa sempre la lettera maiuscola).
In questo scontro un po’ edipico un po’ gianburraschiano, fra i pochi a capirci qualcosa sono Pier Paolo Pasolini e secondo Iacona, Julius Evola. Per molti commentatori del tempo si tratta solo di ragazzate, tanto che verrebbe da dar ragione a Giuseppe Carlo Marino, opportunamente citato dall’Autore, che afferma che furono in molti in quei giorni a non capirci un bel nulla. Pasolini nella sua finta rivolta contro il mondo moderno, qualche cosa l’azzecca pure (il bolognese si schiererà dalla parte dei poliziotti, che sono dei lavoratori provenienti dalle classi più umili, i giovani invece “puzzano” di borghesia), Julius Evola invece nella sua vera rivolta contro il mondo moderno non può non condannare dei fenomeni che dal suo punto di vista nulla hanno da dire.
Evola scriverà contro il “mito” Marcuse, filosofo che in quegli anni sta spopolando grazie al suo modo di reinterpretare la rivoluzione a vantaggio dell’umanità marginale, contro i maoisti e contro tutti gli illusi che credono di contestare la società moderna senza tener presenti almeno tre necessità: superare la demonia dell’economia, il mito totalizzante della scienza e quello della specializzazione della tecnica (1968, pp. 145-149).   
Qui s’innesta però il secondo dei punti sollevati da Iacona cioè il rapporto fra la destra e il Sessantotto.
2. Leggendo 1968. Le origini della contestazione globale vien subito alla mente un’idea. La destra si è spesso occupata del Sessantotto anche se non come la sinistra che il Sessantotto invece l’ha fatto. Se ne è occupata per via diretta perché ne ha sempre criticato le ragioni e gli sviluppi, e per via indiretta perché bon gré mal grè anch’essa ha subito delle trasformazioni di breve e di lungo periodo a causa della contestazione globale. Prima di citarle però altre due parole sul dibattito interno alla droite. Tutti i pezzi grossi della destra da Veneziani a de Turris da Tarchi a Romualdi, si sono interrogati sul Sessantotto e salvo qualche nobile eccezione la condanna è stata quasi unanime. In quei giorni ci fu sì qualcosa di positivo – la ribellione contro i valori borghesi – ma  questa venne subito oscurata dalla piega politica che la rivolta prese dopo pochi mesi. Peraltro svolta politica che, secondo Iacona, era già nelle premesse, essendo appunto i Sessanta gli anni rossi per eccellenza.
Nella prima metà del Sessantotto, Giano Accame opererà una intelligente apertura verso le istanze giovanili nel tentativo sia di comprenderle sia di fidanzarle ad una rivolta che almeno una generazione prima (1950) era stata appannaggio, quella sì, della destra. Proprio la destra evoliana dei “figli del sole” della quale ha scritto ultimamente anche Antonio Carioti (Gli orfani di Salò. Il “Sessantotto nero” dei giovani neofascisti nel dopoguerra, Mursia, Milano, 2008, euro 17). Tuttavia alla destra legge e ordine, quella micheliniana che peraltro si trova nella difficilissima situazione di opporsi e al centro-sinistra e a chi al centro-sinistra a sua volta si contrappone cioè i giovani, l’apertura “rivoluzionaria” di Accame non può andare per nulla bene; alla tattica del dialogo predilige così la chiusura ermetica dello stesso Evola il quale interviene sulla stampa anche per condannare alcuni fenomeni di ibrida mescolanza fra giovani nazionalrivoluzionari e giovani della sinistra maoista. C’è chi pensa che Evola sia stato soltanto usato da alcuni periodici (Il Borghese) per scopi banalmente conservatori. Può darsi, sta di fatto però che Evola, come scrive Iacona, nei suoi articoli sul settimanale di Tedeschi non si discostò da un’impronta tipicamente antimoderna avulsa a contesti rivoluzionari. Insomma più che farsi usare, il filosofo della tradizione trovò l’ennesima tribuna per divulgare le proprie idee.
E qui veniamo al discorso relativo alle trasformazioni della destra negli anni Sessanta.
Reazione e rivoluzione, ragione e poesia (direbbe qualcuno), si sono sempre scontrati all’interno della destra giovanile. Leggendo il libro di Iacona si ha l’impressione che nei giorni della contestazione il tempo migliore per la gioventù di destra si fosse da tempo concluso, e che la maggioranza di essa fosse ormai ben irreggimentata all’interno di un M.S.I. partito fra i partiti e che solo una parte minoritaria, raccolta in sigle più o meno note, fosse del tutto contraria alla politica micheliniana. Ebbene questa destra (che peraltro, come dice Iacona, l’appellativo destra lo rifiuta), sarà quella che prima occuperà l’Università perugina e poi andrà a tirare le uova ai poliziotti schierati all’ingresso della facoltà di Architettura a Valle Giulia a Roma. Ma il contrasto che mina dall’interno la destra avrà un suo incredibile e vergognoso epilogo ancora nell’Università romana. La destra d’ordine, quella ufficiale di Michelini e Almirante, organizzerà una spedizione punitiva contro tutti i contestatori (quelli che sfilavano dietro i simboli cinesi), mostrando più con le cattive che con le buone quale sarebbe stata per il presente e il futuro la linea ufficiale del partito nato alla fine del 1946.
Già a metà di marzo del ’68, Michelini, scrive Iacona, ha capito che la contestazione gli è sfuggita di mano, che i giovani protestano contro l’Università  e la società tout court rifacendosi a modelli culturali che con la sua destra non c’entrano nulla, così ha preso la decisione di intervenire in maniera brutale ma efficace. Michelini tenta anche di raffreddare una situazione di contrasto relativa ad un problema di identità culturale. Un problema che negli anni Settanta con la nascita della “nuova destra” raggiungerà forse il suo punto di massima gravità e che anche ai nostri giorni (con un Fini scopertosi antifascista e con i giovani che sembrano ancora una volta non seguirlo in questa nuova avventura fatta di parole…) non si è mai del tutto appianato.
Qui entriamo non solo nelle trasformazioni della destra di lungo periodo, ma nel terzo punto del libro di Iacona e cioè della scoperta da parte della destra di un sentimento filo-sessantottino.
3. Una destra in rapidissima mutazione sta oggi guardando al futuro, e lo fa rielaborando la sua storia. Si è finalmente accorta che la realtà offre spunti che vanno al di là di una facile e poco-responsabile condanna di un “mondo” considerato per lungo tempo dall’ottica dei perdenti o degli sconfitti come un campo minato. Certo la destra non è stata solo questo, i grandi leader l’hanno condotta ad un passo dal governo, ma la combinazione fra il lutto per la guerra perduta e il ricatto antifascista di una sinistra che nella partecipazione alla Resistenza ha trovato il suo momento di gloria, ha finito per spingere i più giovani in un limbo dove, diciamoci la verità, in molti non stavano poi tanto male. Potendosi atteggiare un giorno a piccoli Parsifal un giorno a superuomini ben avvezzi alle opere di trasvalutazione (quando non erano solo dei miseri imbratta-muri). In ciò si sono incastrati alcuni meccanismi di totale rifiuto non della società ma della civiltà tout court e di tutti i suoi prodotti. Ecco perché tanti giovani in buona fede hanno preso parte alla contestazione globale… Più contestatori di loro?
La riflessione sul passato della destra e l’idea che non si debba cadere più in errori esiziali, lo dice anche de Turris nella presentazione al libro di Marco Iacona, è cosa buona e giusta. Ma il problema è uno. Nella foga di riscrivere la storia, come si ri-costruisce un palazzo mattone su mattone, è facile che ci si perda qualche pezzo, o magari si mettano per massima sbadataggine le tegole al posto del pavimento.
Gianfranco Fini (ancora lui!), nel tentativo di riabilitare il Sessantotto, che mi sembra si sia già da mo’ riabilitato da se stesso, ha detto che quel movimento fu portatore di importanti novità. È vero ed è perfino giusto (dopo il 68 anche per le donne comincerà un’altra era). Ma scrive Iacona nell’ultimo capitolo del suo libro, se si continuerà così, se si continuerà con la tecnica del salto in lungo – gara dopo gara alla ricerca di un nuovo record – non si arriverà un giorno a dire che loro, i comunisti, avevano ragione e che noi di destra, che peraltro stavamo dalla parte degli americani cioè dell’Occidente, avevamo torto? Mah, un modo ci sarebbe per sfuggire a questo bipolarismo dell’intelletto. Quello di proclamarsi terzaforzisti. Ma mi sa che anche lì, in quelle “zone”, l’innominabile fascismo sia sempre dietro l’angolo...
Spunti di questo genere, intermezzi e passaggi storici, inchieste oramai quasi del tutto dimenticate (come i servizi sui disordini nelle Università di Alberto Ronchey e Federico Orlando utili per tuffarsi nelle atmosfere del passato), si possono trovare all’interno del libro di Marco Iacona. A quarant’anni dal ’68 un libro sui fatti, per non dimenticare ciò che non andrebbe mai dimenticato.                                    
                      

Rec. di Marco Iacona, 1968. Le origini della contestazione globale (Solfanelli, Chieti 2008)