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Che cosa vuol dire «Ricordati di santificare il giorno del sabato»?

di Francesco Lamendola - 27/02/2009

 

 

Noi tutti, credenti e non credenti, apprezziamo il giorno festivo settimanale - che, nell'ambito cristiano, è la domenica, ma storicamente discende dal sabato ebraico -, e non solo per l'ovvia ragione che ci porta il sospirato riposo dalle fatiche lavorative. Infatti, anche se la mentalità secolarista ne ha offuscato quasi interamente il significato originario, nella festività settimanale si respira una atmosfera diversa, che non discende solo dall'interruzione dei ritmi lavorativi, ma sembra alludere a una armonia perduta, a una riconciliazione dell'uomo con se stesso, con i propri simili e con l'ambiente in cui vive.
Come sostiene Eric Fromm, il «giorno del Signore» non svolge solo la funzione di commemorare l'opera della creazione divina o,  più specificamente, l'esodo biblico dall'Egitto (indipendentemente dal valore storico che possiamo attribuire, oggi, a una tale tradizione), ma anche e soprattutto quella di ricostituire simbolicamente la perduta armonia del Paradiso Terrestre, allorché i primi uomini non avevano la necessità di lavorare la terra per sopravvivere; nonché di prefigurare - sempre simbolicamente - l'inveramento della profezia di Isaia circa la riconciliazione finale di tutto il creato, allorché il lupo e l'agnello pascoleranno insieme e ogni forma di contesa e di violenza avrà  fine, sia nei rapporti dell'uomo coi suoi simili, sia nei confronti della natura tutta.
Certo, le persone dotate naturalmente di una sensibilità religiosa - le persone, cioè, dotate del senso del limite e del senso del mistero - percepiscono, nell'atmosfera del giorno domenicale (ossia del "Dominus", del Signore) un qualche cosa di diverso e di speciale, di cui la sospensione dell'attività lavorativa e la stessa celebrazione del culto religioso non sono che una parte, restando inspiegabilmente la parte restante al di là di ogni spiegazione puramente razionale e funzionalistica, come se eccedesse la nostra capacità di definirla ulteriormente.
Vestendosi a festa, con la camicia bianca, la cravatta e la giacca, i contadini di una o due generazioni fa, interpretavano - forse inconsciamente - questa solennità misteriosa ed eccedente, non limitata, cioè, alla pura azione di recarsi in chiesa per la messa, né a quella di sottolineare il distacco dalla loro normale attività lavorativa; che, svolgendosi nella stalla e nei campi vicino a casa, non rivestiva comunque quell'aspetto di rottura con l'ambito domestico che presenta, invece, il lavoro di fabbrica.
Il vestito da festa e le scarpe lucide della domenica, dunque, erano per quei contadini - i contadini della nostra infanzia, che noi ricordiamo benissimo e le cui abitudini, in qualche misura, ancora si possono vedere nella vita di provincia, benché generalmente staccate dal loro contesto ambientale e culturale originario - anche e soprattutto un simbolo: il simbolo di una differenza qualitativa, per così dire ontologica, fra il tempo «profano» dei sei giorni lavorativi ed il tempo «sacro», appunto,  della domenica.
Ecco perché l'apertura domenicale degli esercizi commerciali, e soprattutto dei grandi magazzini, configge inesorabilmente con questo tempo sacro; ecco perché le notti - ma sarebbe meglio dire, le mattine - del sabato in discoteca, obbligando i giovani a un lungo sonno nel giorno domenicale, descaralizzano quest'ultimo; ecco perché i ritmi vacanzieri domenicali, le corse in autostrada, la frequentazione di locali chiassosi e congestionati e la smania del divertimento ad ogni costo,  colpiscono alla radice il significato simbolico del «giorno del Signore».
Santificare le feste, infatti, significa anche - se ben si guarda al significato del precetto biblico e, poi, cristiano - che l'uomo si mostra capace di interrompere il tempo profano per ritagliarsi uno spazio di tempo sacro, in cui santificare se stesso.
Il tempo sacro, infatti, non è soltanto un tempo qualitativamente «diverso» da quello ordinario; è un tempo «altro» o, meglio ancora, una sospensione del tempo, una assenza di tempo; quantomeno, una sospensione e una assenza del tempo della storia.
Il tempo della storia è fatto non solo di lavoro e di preoccupazioni mondane, ma anche di una diffusa disarmonia, derivante dalla necessità di adattare l'ideale al reale, di calare l'aspirazione all'assoluto nella dimensione del contingente e del finito; in breve, è il tempo del compromesso per eccellenza. L'uomo, creatura bifronte, assetata di eternità ma, al tempo stesso, immersa nel quotidiano, è costretta ad un «ragionevole» compromesso, ad una sostanziale mediazione tra le due opposte facce della sua natura.
La conseguenza di ciò è che, nella vita ordinaria, ossia nel tempo storico, l'uomo è costretto a lasciarsi guidare da forze ed esigenze che non rendono giustizia alla sua dimensione spirituale: è costretto ad essere cauto, diffidente, sospettoso, calcolatore; a non fidarsi mai interamente degli altri e, sovente, nemmeno di se stesso; a trattenere i propri impulsi più generosi, più altruisti, per non vedersi travolto da situazioni che lo priverebbero anche del necessario, sia in senso materiale che in senso affettivo ed esistenziale.
Per sei giorni la settimana, dunque, l'uomo vive in una condizione innaturale, tenendo bene a freno i propri sentimenti migliori e giocando prudentemente al risparmio, per evitare accuratamente di scoprirsi troppo e di esporsi ai colpi della vita. Nel suo prossimo egli vede soprattutto un competitore, un possibile rivale, se non, addirittura, un nemico che bisogna colpire per primo, per non esserne, a propria volta, sorpresi; negli animali, delle creature più deboli, da sfruttare illimitatamente; nella natura, un grande serbatoio onde attingere materie prime, e una discarica ove stoccare i prodotti di rifiuto.
Il lavoro medesimo, che pure è - nella nostra cultura - un valore fondamentale, finisce per soggiacere alla logica del sospetto e della diffidenza e diviene strumento di alienazione, di avidità, di egoismo, di sopraffazione, per accumulare beni che dovrebbero, in teoria, garantire un'esistenza sicura e tranquilla, ma che, inconsciamente, si vorrebbe che svolgessero l'impossibile funzione di esorcizzare l'angoscia della morte.
Ecco perché una persona la quale, teoricamente, fosse in grado di liberarsi fin da ora, nella sua vita quotidiana, di queste paure eccessive, di queste forme di attaccamento compulsivo alle cose, non avrebbe necessità di santificare un giorno speciale della settimana: poiché, per una tale persona, il tempo storico si trasforerebbe abitualmente in tempo sacro, e tutta la sua vita non sarebbe altro che un continuo inno di lode e di ringraziamento all'Essere da cui essa discende.
Tali persone esistono, e molto più esistevano in passato: nella cultura occidentale, erano e sono i monaci e le monache, specialmente di clausura, i quali hanno vinto la diffidenza, la paura, l'orgoglio e l'attaccamento, e celebrano un perenne tempo sacro in cui, insieme al Signore, santificano se stesse: perché santificare se stessi vuol dire, semplicemente, ricordarsi della propria natura trascendente e dare la precedenza allo spirituale sul materiale, all'anima sul corpo, alla contemplazione estatica rispetto all'azione interessata.
Stando così le cose, ci sembra che sia legittima la domanda se la progressiva desacralizzazione del tempo, che investe ormai non solo i «momenti» di santificazione all'interno dei sei giorni lavorativi - ormai quasi spariti -, ma la stessa «cittadella» del tempo sacro, ossia la domenica, appiattendola sulla misura e sui ritmi di un tempo profano che non è semplicemente il tempo lavorativo, ma il tempo della trasgressione, della smodatezza e dell'eccesso, non costituisca un reale pericolo per la preservazione dell'anima del mondo.

Ha scritto Erich Fromm nella sua conferenza «Il rituale del sabato» (raccolta nel volume «Il linguaggio dimenticato» (titolo originale: «The Forgotten Language», Holt, Rinehart and Winston, New York, 1951; traduzione italiana di Graziella Brianzoni, Milano, Casa Editrice Valentino Bompiani, 1962, pp. 231-37):

«…Le regole per l'osservanza del sabato occupano un posto importante nel Vecchio Testamento, essendo l'unica disposizione che riferisce a un rituale ricordato dal Decalogo. "Ricordati di santificare il giorno del sabato. Per sei giorni lavorerai, attenderai a tutte le tue opere. Ma il settimo giorno è il sabato del Signore Dio tuo; in esso non farai alcun lavoro, tu, il tuo figlio, la tua figlia, il tuo servo, la tua ancella, il tuo giumento, e il forestiero che si trova fra le tue porte. In sei giorni infatti il Signore fece il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il settimo giorno si riposò; per questo, benedisse il Signore il giorno del sabato, e lo dichiarò santo." (Esodo, 20, 8-11). Nella seconda versione dei Dieci Comandamenti (Deuteronomio, 5, 12-15) si prescrive ancora l'osservanza del sabato, sebbene qui non si parli del riposo di Dio al settimo giorno ma dell'esodo dall'Egitto: "Ricordati che anche tu fosti schiavo in Egitto, e di lì ti cavò il Signore. Dio tuo con mano forte e braccio potente. Per questo ti comandò d'osservare il giorno del sabato."
Per la mente moderna non vi sono molti problemi nell'istituzione del sabato. Il concetto che l'uomo debba riposarsi dal suo lavoro un giorno alla settimana ci appare una ovvia misura igienico-sociale, intesa a dare all'uomo il riposo fisico e spirituale e il rilassamento di cui egli ha bisogno per non essere schiacciato dal suo lavoro giornaliero. Senza dubbio questa spiegazione è esatta, ma non risponde ad alcune domande che sorgono se prestiamo una maggiore attenzione alla legge del sabato contenuta nella Bibbia e particolarmente al rituale del sabato come si è sviluppato nella tradizione post-biblica.
Per quale motivo questa norma igienico-sociale è tanto importante da essere messa fra i Dieci Comandamenti, che altrimenti  dettano soltanto i fondamentali principi religiosi ed etici?  Perché è giustificata dal fatto che Dio riposò il settimo giorno e che cosa significa questo "riposo"? Forse che Dio è rappresentato in termini tanto antropomorfici da aver bisogno di riposare dopo sei giorni di duro lavoro? Perché nella seconda versione dei Dieci Comandamenti il sabato è spiegato in termini di libertà e non si accenna più al riposo di Dio? Qual è il comune denominatore di queste due spiegazioni?  Inoltre - e questo è forse il problema più importante - come possiamo comprendere la complessità del rituale del sabato, alla luce della moderna interpretazione igienico-sociale del riposo? Nel Vecchio testamento l'uomo che raccoglie legna (Numeri, 4, 32 sgg.) è considerato violatore della legge del sabato e punito con la morte. In seguito si proibì non soltanto il lavoro inteso in senso moderno, ma anche ogni attività come le seguenti: accendere qualunque tipo di fuoco, anche se sussistono motivi di comodità e anche se non è richiesto alcuno sforzo fisico; cogliere un solo filo d'erba e un fiore; portare con la propria persona qualsiasi cosa, anche una cosa leggera come un fazzoletto. Tutto ciò non costituisce lavoro nel senso di sforzo fisico; l'evitarlo è più un incomodo e un disagio di quanto non lo sarebbe il farlo.  Ci troviamo di fronte a coercizioni eccessive e stravaganti di un rituale  che era in origine "ragionevole", o forse è il nostro modo di intendere il rituale che è sbagliato e ha bisogno di revisione?
Un'analisi più dettagliata del significato simbolico del rituale del sabato dimostrerà che si ha a che fare non con un ossessivo eccesso di severità ma con un concetto di lavoro e di riposo diverso da quello moderno.
Tanto per cominciare, il punto essenziale .il concetto di lavoro che sta alla base di quello biblico e poi di quello talmudico - non si riferisce semplicemente allo sforzo fisico, ma può essere così definito: "Lavoro" è qualunque interferenza, sia costruttiva che distruttiva, dell'uomo con il mondo fisico. "Riposo" è uno stato di pace fra l'uomo e la natura. L'uomo deve lasciare la natura inviolata,, non trasformarla in alcun modo, né costruendo, né distruggendo alcunché; anche il più piccolo cambiamento operato dall'uomo nel processo naturale costituisce una violazione del "Riposo". Il sabato è il giorno della pace fra uomo e natura; il lavoro è tutto ciò che turba tale equilibrio. In base a questa definizione generale possiamo comprendere il rituale del sabato. Mentre i lavori pesanti, come l'arare o il costruire, sono lavori tanto da questo punto di vista come da quello moderno, l'accendere un fiammifero o il cogliere un filo d'erba, pur senza richiedere sforzo, sono simboli della interferenza umana nel processo naturale, costituiscono una rottura della pace fra l'uomo e la natura. In base a questo principio possiamo anche comprendere il divieto talmudico di portare qualcosa, anche di lieve peso, con la propria persona. Infatti non si proibisce l'atto del trasporto in se stesso. Posso trasportare un pesante carico dentro lamia casa o dentro il mi podere senza violare il rituale del sabato. Ma non posso trasportare nemmeno un fazzoletto da una proprietà all'altra, per esempio dalla proprietà privata della casa a quella pubblica della strada. Questa legge è un'estensione dalla sfera naturale a quella sociale del concetto di pace. Proprio come l'uomo non deve rompere l'equilibrio naturale, così deve astenersi dal cambiare l'ordine sociale. Ciò significa non soltanto rinunciare agli affari, ma anche evitare il semplice trasferimento fisico di una proprietà da un dominio all'altro.
Il sabato simbolizza uno stato di completa armonia fra uomo e natura e fra uomo e uomo. Non lavorando - cioè non partecipando al processo della trasformazione naturale e sociale -  l'uomo è libero dalle catene della natura e dalle catene del tempo, sebbene soltanto un giorno alla settimana. Il pieno significato di questo concetto può essere compreso soltanto nel contesto della filosofia biblica della relazione fra uomo e natura. Prima della "caduta" di Adamo, cioè prima che avesse la ragione, l'uomo viveva in completa armonia con la natura; il primo atto di disobbedienza , che segna anche l'inizio della libertà umana, gli "apre gli occhi", egli sa come giudicare il buono e il cattivo, è diventato consapevole di sé e dei suoi simili, uguali eppure e unici, legati insieme da vincoli di amore, eppure soli. Così ha inizio la storia umana. Egli è maledetto da Dio per la sua disobbedienza. In che cosa consiste la maledizione? Inimicizia e lotta sorgono fra l'uomo e gli animali ("E porrò inimicizia fra te (il serpente) e la donna; essa ti schiaccerà il capo, e tu insidierai il suo calcagno (Genesi, 3, 15), fra l'uomo e la terra ("maledetta la terra del tuo lavoro; tra le fatiche ne ricaverai il nutrimento in tutti i giorni della tua vita; ti germoglierà triboli e spine, e mangerai l'erba della terra. Col sudore della tua fronte ti procaccerai il pane, sinché tu ritorni alla terra dalla quale sei stato cavato", Genesi, 3, 17-19), fra l'uomo e la donna ("sarai sotto la potestà del marito, ed egli ti dominerà" (Genesi, 3, 16), tra la donna e la sua funzione naturale ("partorirai tra i dolori i tuoi figli", Genesi, 3, 16). L'originaria armonia pre.-individualista venne rimpiazzata dal conflitto e dalla lotta.
Qual è dunque - secondo il punto di vista profetico - lo scopo dell'uomo? Tornare a vivere in pace e armonia con i suoi simili, con gli animali e con la terra. La nuova armonia è diversa da quella del Paradiso. Può essere ottenuta soltanto se l'uomo si sviluppa pienamente per diventare vero uomo, se conosce la verità e rende giustizia., se sviluppa il suo potere di raziocinio fino a liberarsi dalla schiavitù nei confronti dell'uomo e delle passioni irrazionali. Nelle descrizioni profetiche abbondano simboli di questo genere. la Terra sarà ancora illimitatamente fertile, le spade saranno mutate in vomeri, il leone e l'agnello vivranno in pace insieme, non vi sarà più guerra, le donne partoriranno senza dolore (Talmud). l'intero genere umano sarà unito in verità e amore.  Questa nuova armonia, il raggiungimento della quale è lo scopo del processo storico, è simbolizzata dalla figura del Messia.
Con queste premesse possiamo comprendere pienamente il significato del rituale. Il sabato oltre a essere l'anticipazione simbolica dell'era messianica, che p detta appunto il tempo del "sabato perpetuo", è considerato anche il suo vero precursore. Come dice il Talmud: "Se tutta Israele osservasse pienamente il sabato soltanto una volta, il Messia sarebbe qui".
Dunque il riposo, cioè l'astensione dal lavoro, non ha lo stesso significato nel moderno rilassamento. Nello stato di riposo l'uomo anticipa la libertà umana che sarà finalmente raggiunta. La relazione fra uomo e natura e fra uomo e uomo è una relazione di armonia, di pace e di non interferenza. Il lavoro è un simbolo di lotta e di disarmonia, il riposo è un'espressione di dignità, di pace e di libertà.
Alla luce di questa interpretazione, trovano risposta alcune questioni  precedentemente solevate. Il rituale del sabato occupa un posto così centrale nella religione biblica perché è qualcosa di più di un "giorno di riposo" inteso nel senso moderno, è il simbolo della salvezza e della libertà. Questo è pure il significato del riposo di Dio.
Il ripose esprime l'idea che, per quanto grande sia la creazione, creazione ancor più grande e conclusiva è la pace; il lavoro di Dio è un atto di condiscendenza; egli deve "riposare" non perché è stanco, ma perché è libero e pienamente Dio soltanto quando ha cessato di lavorare. Così l'uomo è pienamente uomo soltanto quando non lavora, quando è in pace con la natura e con i suoi simili; ciò spiega perché il comandamento del sabato è una volta motivato dal riposo di Dio e un'altra dalla liberazione dall'Egitto. Entrambi hanno lo stesso significato e s'interpretano a vicenda: il riposo è libertà.
Non vorrei chiudere questo argomento senza accennare prima ad altri aspetti del rituale del sabatoi essenziali per una sua piena comprensione.
Pare che il sabato sia stato un'antica festività babilonese,  che si celebrava ogni sete giorni (Shapatu).  Ma il suo significato era completamente diverso da quello del sabato biblico. Lo Shapatu babilonese era un giorno di lutto e di penitenza.  Era un giorno tetro, dedicato al pianeta Saturno (anche il nostro  "sabato" è, nella sua etimologia, un giorno dedicato a Saturno), di cui si voleva placare l'ira con la penitenza e la contrizione; ma con l'andar del tempo questa festività cambiò il suo carattere.  Perfino nel Vecchio Testamento non è più un giorno "cattivo", ma un giorno buono, consacrato al benessere dell'uomo. Attraverso ulteriori svolgimenti, il sabato si oppone sempre più al sinistro Shapatu, e diventa il giorno della gioia e del piacere. Mangiare, bere, cantare, fare l'amore, oltre allo studio delle Scritture e delle altre opere religiose più recenti hanno caratterizzato la celebrazione  del sabato ebreo negli ultimi duemila anni. Da giorno di sottomissione ai malvagi influssi di Saturno, il sabato è diventato un giorno di libertà e di gioia. Questo mutamento di carattere e di significato può essere pienamente compreso soltanto se si considera ciò che rappresenta Saturno., Saturno  (nell'antica tradizione astrologica e metafisica) simbolizza il tempo. Egli è il dio del tempo e quindi il dio della morte. In quanto l'uomo è simile a Dio, dotato di un'anima, di ragione, di amore e di libertà, egli non è soggetto al tempo e alla morte; ma in quanto è un animale, con un corpo soggetto alle leggi della natura, egli è schiavo del tempo e della morte. I babilonesi cercavano di placare il signore del tempo con la penitenza. La Bibbia, con il suo concetto del sabato, compie un tentativo completamente nuovo per risolvere il problema: facendo cessare per un giorno l'interferenza nella natura, si elimina il tempo. Invece di un sabato in cui l'uomo si inchina al signore del tempo, il sabato biblico simboleggia la vittoria dell'uomo sul tempo; il tempo è sospeso, Saturno è detronizzato proprio nel suo giorno., il giorno di Saturno.»

Ci eravamo posti la domanda se la sempre più prepotente irruzione del tempo profano nel tempo sacro nel cuore della nostra società, e la sostituzione del «riposo»domenicale con la trasgressione e l'eccesso, proprio di un consumismo sfrenato, non costituiscano un grave pericolo per la preservazione dell'anima del mondo.
La risposta a un tale interrogativo non può che essere positiva, se si tien fermo alla definizione che abbiamo dato, più sopra, dell'atto della «santificazione», ossia il fatto di ricordarsi della propria natura trascendente e di dare la precedenza allo spirituale sul materiale, all'anima sul corpo, alla contemplazione estatica rispetto all'azione interessata.
Santificare il giorno del Signore, infatti, non significa soltanto espletare la partecipazione alla liturgia festiva, ma anche - in un senso più ampio, e tale da abbracciare anche quelle persone che, pur non essendo praticanti di alcuna religione, possiedono però un animo religioso - ricordare a se stessi il senso del proprio limite ontologico, ridimensionando le preoccupazioni per le cose quotidiane e rimettendo al centro della prospettiva esistenziale il mistero della propria destinazione ultima.
Vorremmo concludere queste brevi riflessioni citando non tanto l'esempio della raccomandazione di Gesù a Marta, di non preoccuparsi troppo delle cose materiali e di non perdere mai di vista la cosa essenziale; bensì l'esempio di un pagano, il «pius Aeneas», che ovunque si trovi, sul lido di una terra sconosciuta così come nell'imminenza di una battaglia decisiva, sempre si ricorda di strappare al tempo sacro di quaggiù un lembo di tempo sacro per l'eternità, erigendo un altare o rivolgendo ai celesti una fervida preghiera.
Enea è il tipo umano che, pur investito da ogni parte da gravi responsabilità sociali e dalla necessità di prendere continuamente delle decisioni nella sfera del finito, mai si scorda di rivolgere il pensiero alle cose eterne, di santificare se stesso attraverso la celebrazione di un rito.
Vi è un estremo bisogno, oggi, di un simile tipo umano: un tipo che, senza evadere dalla sfera del quotidiano, in cui siamo più che mai immersi a causa dei meccanismi totalizzanti e impersonali della società di massa, non perda mai di vista la propria Stella Polare, come un navigante che si avventuri per primo su mari sconosciuti: la quale stella sempre gli indichi, ferma e luminosa nella notte oscura, il Nord della sua dimensione spirituale e trascendente.