“Di chi é la terra” 

La cooperativa di agricoltori che ci ospita qui in Guinea-Bissau si chiama Coajoq, “Cooperativa agricola di giovani”. A ogni calar del sole seduti sotto la veranda della sede parliamo con Leandro Pinto, il suo presidente, e gli altri due fondatori, dei nostri passati diversi e dei nostri futuri forse comuni. Sulla strada di terra rossa che passa accanto camminano donne con il carico sul capo ondeggiando lente ed eleganti come giraffe e i bambini ti guardano dolci.
Fernanda propone a Leandro: “A grandi industrie occidentali si offre la scelta di compensare l’inquinamento che creano comprando nel sud del mondo terreni da destinare a riforestazione. Questo anche in zone votate normalmente all’agricoltura. In questo modo si alzano i prezzi delle terre e si bloccano per anni le produzioni agricole destinate ai consumi locali.”
“Qui sarebbe difficile per loro comprare terra.” dice Leandro “Ci fu qualche anno fa il tentativo di una compagnia spagnola di comprare l’intera isola di Bolama da destinare a turismo industriale. Era ufficialmente tutto giá pronto ma intervenne il potere tradizionale e la terra rimase alle comunitá locali che ci vivevano”
“Potere tradizionale? Che cos’é?”

“E’ un potere informale, storico, fatto dai capivillaggio che esprimono la volontá della loro gente al “régulo” cioé a un loro rappresentante generale. Ogni parte del nostro territorio vive gestita da questa rete consultiva. Noi stessi della Coajoq, quando abbiamo deciso di comprare il nostro terreno, abbiamo dovuto rimetterci al parere del potere tradizionale; giá le carte ufficiali erano pronte ma tutto si é concluso solo quando il régulo ha avuto rassicurazione da tutte le comunitá implicate che la nostra attivitá era gradita perché destinata al bene di tutti. Chi si oppone al volere comunitario si pone in un conflitto duro con l’anima di tutto un popolo, pone le basi di un futuro aspro.”

Ci chiediamo a questo punto di chi sia la terra, chi ne sia l’effettivo proprietario, e chi ne goda realmente i frutti. E’ una situazione, infatti, che prescinde da ogni nostra considerazione, ad esempio, su comunismo o capitalismo. Sembra di poterla considerare qualcosa che li precede entrambe o, speriamo, li seguirá. Un paradigma diverso.
João, un altro dei fondatori della Coajoq ci risponde: “Non abbiamo un completo catasto dei terreni, ma ogni pezzo di terra ha il suo proprietario, lo sanno tutti, lo sa per primo il régulo che tramanda questa specie di catasto orale; chi vuole, comunque, ha facoltá di ufficializzarsi anche con il catasto statale, sempre in armonia col potere tradizionale, naturalmente. Abbiamo conosciuto il colonialismo dei portoghesi, quando ad esempio questo stesso nostro terreno fu sottratto brutalmente ai proprietari tradizionali per farne un aeroporto militare. Abbiamo conosciuto esperimenti di socialismo reale, in fasi successive all’indipendenza, quando si importarono modelli di pianificazione spersonalizzante”.
Continua Armando, l’altro fondatore della cooperativa: “Noi stessi della Coajoq, che abbiamo studiato per 14 anni a Cuba, perché il padre della nostra patria, Amilcar Cabral era amico del “Che”, abbiamo vissuto i mutamenti economici successivi alla caduta dell’URSS e sappiamo quanto sia necessario dare a ogni agricoltore la responsabilitá del suo lavoro e i frutti che ne derivano”.
Mentre ormai siamo sotto un cielo che scoppia di stelle finiscono di spiegarci il segreto dell’armonia del loro modello economico rurale: in ogni villaggio c’é la proprietá individuale di ognuno sul proprio pezzo di terra, ma le attivitá sono sociali. Sorgono associazioni di orticoltura o allevamento, di coltura del riso o di affumicamento del pesce. Tutti sono proprietari e soci, tutti partecipano e tutti godono dei frutti in proporzioni sagge accuratamente distribuite. Ognuno ha fra le mani non solo una zappa, ma il potere.

Risposta a Sergio…

Caro Sergio,

noi dell’MDF, come dice Pallante, siamo dei praticoni.
Non siamo qui in Guinea-Bissau come esperti in cooperazione internazionale, non siamo accademici che vengono a studiare antropologia sociale, non siamo giornalisti.
Siamo cittadini del mondo, che si fanno domande.
E’ da qualche anno che partiamo a sporcarci le suole nella terra rossa della Guinea-Bissau perché ci siamo ritrovati fratelli di questi giovani agronomi guineensi e ogni volta é per vivere da dentro, senza intermediari ma solo armati del nostro giudizio critico, questo frammento della realtá del divario economico nord-sud.
La spinta iniziale é quel senso etico di giustizia sociale che ci rende insopportabile lo squilibrio dell’economia mondiale identificato ormai fino alla noia col discorso di quel 20% che si ciuccia l’80% delle risorse.
Uno di noi ha cominciato qualche anno fa in una missione cattolica, a prestare un pó del proprio impegno di sanitario per sfogare la voglia di contribuire; l’altra, portoghese, giá “africanizzata” da un’infanzia vissuta in Mozambico, si é ritrovata in Guinea-Bissau per un lavoro di cooperazione progettato in Europa; a tutti e due sembrava di essere lontani da ció che cercavamo, anche dal solo profumo della radice del problema.
Ma ci é servito per iniziare ad assaggiare quella che Deriu definisce illusione umanitaria.
In Italia abbiamo conosciuto attraverso Maurizio Pallante la proposta di un nuovo umanesimo che usava la Decrescita come mezzo.
E la Decrescita ci é apparsa con chiarezza quello che dava senso alla nostra ricerca in Africa.
Tu, Sergio, hai commentato le prime pagine del diario che abbiamo inviato qualche giorno fa ribadendo la nostra critica alla cooperazione istituzionalizzata e concludendo che esiste un tipo fondamentale di cooperazione che si fa a casa propria. Non potevi esprimere meglio quello che pensiamo anche noi. Se si vuole trovare la ragione dello squilibrio Nord-Sud basta dare un’occhiata al SUV parcheggiato sotto casa, come ha detto qualcuno piú importante di noi. Se si vuole trovare la strada per una soluzione razionale, si deve combattere per cambiare rotta a casa propria, lá dove ha la sua sorgente il problema.
Noi dell’MDF, come dice Pallante, siamo dei praticoni, non dei professori, e questa Decrescita ce la stiamo realizzando oggi in tutta felicitá non aspettando che la rivoluzione arrivi, siamo noi la rivoluzione. Quando a casa nostra decidiamo di diminuire le ore di lavoro, di scegliere di vivere in campagna, di autoprodurci quante piú cose possiamo, di privilegiare le relazioni, di aggregarci a un bel GAS, di partecipare a movimenti che facciano sentire ai politici le nostre proposte, stiamo facendo anche cooperazione internazionale.
Ma non potremmo mai rinunciare a quella relazione people-to-people di cui ci ha parlato Bruno Amoroso, al contatto che ha la cooperazione come scusa per poter essere soprattutto dialogo e ricerca di futuri comuni.
Non vogliamo neanche generalizzare la critica a ogni tipo di cooperazione istituzionalizzata, ma chiederci perché siano stati “spesi” in 50 anni 2.300 miliardi di dollari in aiuti internazionali (W. Easterly “I disastri dell’uomo bianco”) quando Alex Zanotelli ipotizzó che ne sarebbero bastati solo 17 se ben usati.
Qualche anno fa un volontario di quelli potenti ci disse che era orgoglioso di poter essere un piccolo tubicino che per il principio dei vasi comunicanti partecipava a restituire al Sud quello che il Nord ha depredato. Noi immediatamente ci sentimmo, in quella metafora, come un ulteriore tubicino che porta a casa nostra la proposta dei fratelli africani. In “L’Africa in soccorso dell’Occidente” Anne Cecile Robert spiega la difficoltá che hanno gli africani a sollevarsi da una situazione di necessitá come resistenza da loro opposta al modello economico occidentale. La loro é la Resistenza del terzo millennio. E io e Fernanda siamo qui a imparare da questi partigiani della Decrescita, e a godere di un antichissimo, nuovissimo umanesimo.

Un abbraccio da Canchungo,
M e F