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È giusto aiutare un bambino a non credere che viviamo in un mondo cattivo?

di Francesco Lamendola - 28/02/2009

 


Un bambino corre felice verso la mano di un adulto che gli offre un bel gelato, oppure un invitante giocattolo, magari lungamente atteso; corre pregustando la gioia di afferrare quell’oggetto seducente con le sue manine: e mai, come in questo momento, il mondo gli è sembrato bello, amichevole e accogliente.
Ma ecco che il bimbo, improvvisamente, mette il piede in fallo - poniamo che sia un bambino piccolo, di un anno e mezzo o due -, incespica e cade a terra rovinosamente, sbucciandosi il ginocchio e procurandosi un dolore acuto. Di colpo, l’espressione del suo viso, un attimo prima così felice e radiosa, si trasforma in una maschera di sofferenza: le lacrime gli riempiono gli occhi e scendono giù per le guance, e dal petto gli sgorga un pianto dirotto, irrefrenabile.
Tuttavia, un istante prima che il bambino scoppi in singhiozzi, un osservatore non distratto avrà avuto modo di cogliere sul suo visetto, e sia pure per una frazione di secondo, una espressione del tutto particolare, mentre ancora - si direbbe - i sensi gli stanno inviando fino ai centri nervosi la sensazione del dolore: una espressione di stupore, anzi, di assoluta e totale incredulità.
È come se, nella sua piccola mente, si stessero formulando queste domande: «Ma perché questo colpo a tradimento? Perché proprio a me, che ero così fiducioso verso il mondo? È possibile che il mondo sia un luogo così cattivo, che da un istante all’altro la gioia si può mutare in dolore, l’allegria, in angoscia e disperazione?».
Certo, l’adulto che ha assistito alla scena - il padre o la madre del bambino, probabilmente - non esiterà a prendere il piccolo in braccio, a baciarlo, a consolarlo, per cercare di alleviare la sua pena e per rasserenare il suo animo sconvolto, più ancora che dal dolore fisico, dal senso di ingiustizia e quasi di tradimento, di cui la sua giovane anima ha appena fatto l’amara esperienza. E non si dica, per favore, che cadere e sbucciarsi il ginocchio, per un bambino piccolo, è cosa da nulla; perché ogni esperienza è proporzionata all’età di colui che la vive; e, fatte le debite proporzioni, l’episodio che qui abbiamo immaginato è paragonabile in tutto e per tutto alle più gravi delusioni che possano colpire l’animo di un adulto.
È possibile, dicevamo, che l’adulto, il quale si sforzi di consolare l’anima esacerbata del fanciullo, riesca a cancellare quelle lacrime e a riportare perfino il sorriso, nel giro di qualche minuto, in quegli occhioni che si stanno aprendo al mistero della vita e del mondo. Tuttavia, un grave interrogativo permane; che cosa è giusto far credere a quel bambino: che il mondo è un luogo buono o cattivo?
Che cosa si deve dire, per consolarlo, a un bambino di due anni, che abbia visto andare in pezzi il suo giocattolo preferito?
E ad un bambino di sei anni, che abbia perduto la sua mamma, strappata alla vita da un male inesorabile?
E che cosa si deve dire ad un bambino di nove anni, cui è stata diagnosticata una malattia incurabile e, per giunta, dolorosa?
Esistono, in proposito, due scuole di pensiero.
Secondo l’una, non bisogna consolare troppo i bambini alle prese con le delusioni ed i traumi della vita, perché ciò li renderebbe troppo esposti, vulnerabili e indifesi; e, soprattutto, occorre dir loro sempre la verità, per quanto dura e impietosa essa sia.
Ad essa, tuttavia, si può obiettare che la consolazione, l’affetto, la dolcezza, per un bambino, non sono mai troppi; esattamente come non lo sono per un adulto (o, per meglio dire, non lo sarebbero, vista l’avarizia con la quale gli adulti si gratificano l’un l’altro di tali sentimenti: magari un parente, un amico, un amante, riversassero su di noi «troppo» amore!).
Inoltre, si può obiettare che il concetto del «dire la verità» non è affatto così neutro e innocente come generalmente si pensa. Per dirla con il procuratore romano Ponzio Pilato, infatti, «che cos’è la verità?».
È la verità, dire a un bambino, rimasto improvvisamente orfano, che non rivedrà mai più la sua mamma? O è la verità dirgli che la rivedrà, un giorno, là dove non esistono più separazione e sofferenza, ma tutto è trasfuso nella luce e nell’amore?
Evidentemente, ciò dipende dalla nostra idea intorno alla natura della «verità». Sembrerebbe una cosa ovvia; ma, in effetti, si tratta di una questione delicatissima, perché implica il tipo di immagine del mondo che noi intendiamo trasmettere ai nostri bambini.
È chiaro, infatti, che le nostre parole, le nostre azioni ed i nostri comportamenti sono in grado di influenzare moltissimo la percezione della realtà da parte di un bambino, e specialmente di un bambino piccolo. Anche se noi, nel dipingergli il volto del mondo come «cattivo», lo facessimo con la nobile motivazione di aiutarlo a difendersi contro di esso, qualcuno ci potrebbe tuttavia domandare: chi ha detto che il mondo è cattivo?
Occorre stare molto attenti. Se noi trasmettiamo ai bambini, esplicitamente o implicitamente, l’idea che il mondo sia un luogo cattivo, inospitale e dominato dall’ingiustizia e dal dolore, ci assumiamo una grave responsabilità: quella di distruggerne l’incanto e lo splendore, e di predisporre i bambini a non aspettarsi, nella vita, nient’altro che noia, tristezza e sofferenza. E predisporre un piccolo essere umano a tali sentimenti significa, in larga misura, orientare la sua vita futura verso il pessimismo, lo scoraggiamento o il cinismo. Nel meno peggiore dei casi, lo indurremo a fabbricarsi una «corazza» (come la chiamava Wilhelm Reich) che lo aiuterà, forse, a soffrire di meno, ma che lo porterà anche a inibirsi la possibilità di gustare le gioie più profonde.
Ed eccoci alla seconda scuola di pensiero.
Essa ritiene che il bambino deluso o sofferente vada consolato quanto più possibile; che gli si debbano dare il massimo dell’affetto e della tenerezza; che la cosiddetta «realtà» gli debba essere presentata gradualmente, senza inutili durezze: e, comunque, sempre lasciando socchiusa la porta alla speranza e allo spettacolo della bellezza.
Noi crediamo che sia questa seconda scuola di pensiero, e non l’altra, da preferirsi di gran lunga nei nostri rapporti con i bambini; infatti, non vi è peggior crimine che quello di uccidere in essi la disposizione ad aprirsi fiduciosamente verso le cose buone che il mondo offre.
Certo, il mondo ne offre anche di cattive; perciò l’adulto non deve indurre il bambino ad una fiducia cieca e incondizionata verso tutto e versi tutti; al contrario, dovrà pure spiegargli che alcune cose sono pericolose, e perciò da evitare; che altre sono seducenti, ma nascondono dei rischi; e così via. Ma ciò non configge con quanto abbiamo sopra affermato, e cioè che noi non abbiamo alcun diritto di spegnere nel bambino la sua naturale e gioiosa apertura verso la realtà circostante.
È un tema, lo ripetiamo, estremamente delicato: perché, se è vero che le esperienze degli esseri umani lasciano una traccia in proporzione all’età nella quale vengono vissute, allora vuol dire che l’adulto può svolgere un ruolo determinante nel modo in cui il bambino vive le sue sofferenze: che si tratti di una caduta sulla ghiaia tagliente o della perdita di una persona amata.
Diceva un filosofo antico che noi non siamo assillati dalle cose, ma dall’idea che ci siamo formata di esse. E ciò è tanto più vero, quando si parla dell’immagine del mondo che noi contribuiamo a determinare nell’animo di un bambino.

Lo psicanalista Bruno Bettelheim, nato a Vienna nel 1903 ed emigrato negli Stati Uniti nel 1939 - dopo aver subito un anno di internamento nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald - tenne, dal 1946 al 1952, delle conversazioni con i genitori, soprattutto mamme, di bambini, le cui registrazioni hanno fornito il materiale per il libro «Dialoghi con le madri» (titolo originale: «Dialogues with Mothers», The Free Press of Glencoe, 1962; traduzione italiana di Loretta Valtz Mannucci, Milano, Edizioni di Comunità, 1964, 1978, pp. 190-93):

«MADRE: Voglio sapere…se una bambina sta imparando a camminare, e casca e piange, fino a che punto si deve consolarla?
DOTTORE: Lo deve fare assolutamente, e quanto vuole la bambina., In fin dei conti, lei non vuole che la bambina rinunci a camminare.
MADRE: In altre parole, quando casca e urta la testa contro il box, debbo consolarla?
DOTTORE: Naturalmente. Altrimenti si avrà un doppio danno: si è presa la botta e non ha avuto alcuna consolazione. . Consoli sempre la sua bambina quando grida o si fa male.. Ma certe volte deve essere realista. In fatti è molto importante che non comincino ad adoperarla come un'arma contro di noi.
MADRE: E già, cominciavo a chiedermi proprio questo.
DOTTORE: Benissimo. Che età ha la bambina?
MADRE: Avrà un anno il mese prossimo.
DOTTORE: Be', non è che lei possa far molto. In seguito, magari, potrà dirle con decisione:, "Non ti sei fatta niente", e nondimeno consolarla. Ma vorrei chiarire bene: la bambina non deve poterla ingannare. Se non si è fatta male, ma viene da lei frignando, può dirle: "Non ti sei fatta proprio nulla, ma lascia comunque che ti consoli. Su, vieni qui. Vieni a sedere sulle mie ginocchia e a stare con mammina", o le altre cose che è abituata a dirle.
MADRE: E se mette le dita in certi posti da cui è ovviamente in grado di tirarle fuori, e perciò si mette a dire: "Eeeeee….", finché non arrivo io a vedere? Debbo dirle, "So che puoi tirarle fuori da sola, ma ti aiuterò?".
DOTTORE: Va benissimo. "So che puoi farlo da sola. Tu vuoi solo che venga mammina." Limitatevi a dir questo, perché non credano di aver trovato il modo di ingannarvi. Infatti in questo caso siete fritte, e dovrete farlo varie volte al giorno. Capite che cosa voglio dire? Nella bambina c'è qualcosa di morale, e perciò le dica: "Benissimo, vuoi esser consolata? Ecco qui, ti consolo." Infatti molto spesso è solo un sondaggio.
 Della bambina per accertare se la consolazione è sempre disponibile. E il sapere che lo è, le darà una grande sicurezza. Ma questa sicurezza viene perduta se la bambina pensa che vi sta ingannando. Ma con una bambina di un anno lei non può ancora farlo.
MADRE: E già, me lo stavo chiedendo. Lei ha detto a un'altra madre, che ha un bambino più grande, che non è saggio evitare il loro sguardo quando li abbiamo scoperti mentre si protendono verso  un oggetto proibito, e non si vuole fargli una scenata lì per lì.  (Voltandosi) Non è stato quando il suo bambino ha cercato di prendere un portacenere?  La nostra bambina .-1uando batte la testa, o cade a sedere un po' più pesantemente di quel che credeva, non facendosi molto male , ma urtando o restando un po' scossa - si guarda sempre in giro, come prima cosa. E non c'è nessuno, ed è sola nella stanza, si tira su e basta. Ma se vede che c'è qualcuno che la guarda piange, ed io mi sono scoperta a distogliere lo sguardo. Ma se è una cosa seria, lei piange ed io vado da lei. Che cosa chiede guardando in giro?
DOTTORE: Pressappoco questo: "È un mondo buono o un mondo cattivo? Io casco e perciò è un mondo cattivo.. Ma se mammina mi consola, allora è di nuovo un mondo buono." Sta cercando di capire che genere di mondo sia questo.
MADRE: E allora perché non si preoccupa di scoprirlo quando nessuno la sta guardando?
DOTTORE:  Perché in fin dei conti, se è cascata e nessuno lo sa, chi può rendere buono il mondo per lei?
MADRE: Credo che dovrebbe rendersi conto che anche quando è nell'altra stanza, se ce lo fa sapere noi arriviamo.
DOTTORE: Ah! Questo è diverso. Lei conviene  che c'è una differenza, il che è verissimo; se la bambina si è fata veramente male, grida in ogni caso, sia o non sia presente la madre. In questo caso la cosa è chiara, questo è un mondo cattivo. Ma una bambina che casca e guarda è una bambina che si chiede: "È un mondo cattivo o un mondo buono?». Capisce quel che voglio dire?
MADRE: Sì. Non si è fatta tanto male da dover necessariamente cercare conforto; vuole solo sentirsi dire: "Non ti sei fata molto male, ma vieni qui."
DOTTORE: Benissimo. È questa piccola consolazione, sa. "Ora p tutto a posto. Non è stato poi tanto grave."
MADRE: E allora la prossima volta la consolerò. In passato ho sempre finto di non vedere.
DOTTORE: Perché?
MADRE: Ci vuol tempo per andare da lei e farle qualche carezza. Succede molto spesso, e si arriva al punto in cui si pensa che la settimana dopo probabilmente non succederà.
DOTTORE: Oh no; succederà, succederà.  Ma le comprende il principio? Se ci si fa molto male, allora è un mondo cattivo e ci si lagna. Ci lamentiamo del nostro destino. Ma ci sono dei piccoli mali che ci lasciano dubbiosi, ed è qui che conta davvero la consolazione.  Perché se la bambina si fa molto male, allora la consolazione non importa davvero.  Non rende buono il mondo, soltanto lo rende un po' meno cattivo.  Ma la cosa veramente importante per la visione della vita del bambino, e per la sua sicurezza, è l'alta: quando il bambino è dubbioso. Allora si può fare  qualcosa di più per mettere a suo agio il bambino.
SECONDA MADRE: Anche se giochiamo molto con il nostro bambino, nel momento in cui smettiamo comincia a urlare.
DOTTORE: Ma lei capisce cosa vuole?
SECONDA MADRE: Vuole che continuiamo a giocare con lui.
DOTTORE: Naturalmente.
SECONDA MADRE: E non so come consolarlo di questo..
DOTTORE: Non c'è alcuna consolazione. Il mondo non è così buono  come egli desidera che sia. Ma lei si rende conto  che ognuno di questi passi gli fa apparire il mondo meno buono  di quel che potrebbe apparire. È chiaro, ci sono dei limiti  a quello che sin può fare. In fin dei conti   lei è una creatura umana, si stanca, e tutto questo è scontato.  Ma rendetevi sempre conto che l'ottimismo e il pessimismo, il coraggio e con cui affrontiamola vita, o l'atteggiamento disfattista  che ci fa evitare la vita, si radicano in questa prima fase. Ed è molto, molto difficile in seguito mutare questa indole.  Ci vogliono anni e anni di duro lavoro, sempre che ci si arrivi.
Quanto più si dà al bambino l'impressione che questo è un mondo buono, tanto più felice sarà il bambino, e tanto maggiore il coraggio  con cui affronterà il mondo, giacché è convinto che in fondo è un mondo buono.  Quanto meno gliela si dà, tanto più disfattista sarà il suo atteggiamento, e si convincerà che questo è comunque un mondo cattivo, e non serve tentare. Come madre, deve scegliere. Che visione desidera che abbia il suo bambino? So che ci sono dei limiti a quel che posiamo fare, ma…
SECONDA MADRE: Ma… è così… tutte le volte. Si penserebbe che qualche volta dovrebbe essere contento.
DOTTORE: Perché dovrebbe? Che età ha?
SECONDA MADRE: Un anno.
DOTTORE: Che stimoli ha il mondo per un bambino di un anno? In fin dei conti ci sono per lui ben pochi stimoli, oltre a quelli che la madre, o il padre, o forse un fratello o una sorella più grande gli provvede. Loro sono ben vivi, ma non possono fare molto. Voglio dire: i giocattoli, il box e la culla. Che altro?
SECONDA MADRE: I giocattoli e una stanza; o la culla o il box o le ginocchia della mamma o del papà.
DOTTORE: Certamente. È proprio un'età difficile, l'età dell'infante ai primi passi. Le difficoltà cominciano qui. Cadono continuamente, si fanno del male, hanno scarso coordinamento, vogliono giurare e giocare. Questo è il periodo critico, da uno a tre anni. Ma quello che si fa per aiutarli conta molto per dar forma al futuro. Sino molto piccini, sono agli inizi, ma è qui che comincia il futuro.


Perciò, alla domanda se si debba dire al bambino che viviamo in un mondo bello o brutto, ci sembra sia giusto rispondere che dobbiamo sempre dirgli, e dargli la sensazione, che, pur vivendo noi tutti in un mondo complesso, in cui esistono cose positive e negative, nell’insieme il bene, la verità e la bellezza prevalgono, mentre il male, la bruttezza e la menzogna sono le dolorose eccezioni alla regola; le quali, peraltro, possono quasi sempre essere pazientemente trasformate in altrettante occasioni di bene (una caduta con le ginocchia sulla ghiaia può essere il prezzo da pagare affinché il bambino impari a camminare o ad andare in bicicletta).
Del resto, è una questione di coerenza.
Se davvero fossimo convinti – con Leopardi, Schopenhauer, Eduard von Hartmann e Jean-Paul Sartre, che il mondo è radicalmente cattivo, perché mai ci daremmo la pena di mettere al mondo dei figli? Saremmo degli irresponsabili e peggio: saremmo, in ultima analisi, dei sadici, degli autentici  criminali.
In effetti, il crollo del tasso di natalità nelle società che si autodefiniscono “del benessere” sembrerebbe indicare proprio questo: che un numero sempre maggiore di persone, travolte dall’ondata del nichilismo odierno, non crede più che valga la pena di vivere, e tanto meno che sia il caso di mettere al mondo nuovi candidati all’infelicità.
Bisogna essere, su questo punto, molto chiari.
Noi non siamo i signori della vita e, men che meno, della morte. Due genitori che decidono di mettere al mondo un figlio non creano affatto la vita: si limitano a dare la loro disponibilità, il loro assenso al flusso della vita nel quale siamo immersi, e che pervade il mondo intero.
Viceversa, una giovane coppia che decida, scientemente e deliberatamente, di non avere dei figli, con la motivazione di non volersi assumere la responsabilità di gettare nell’infelicità un nuovo essere umano, compie una scelta che - per quanto possa essere rispettabile e scaturire da una sofferta serietà di fronte alla vita - corrisponde a una sorta di suicidio non solo biologico, ma altresì morale. Tale scelta consiste, appunto, nel manifestare la propria indisponibilità e il proprio rifiuto al grande flusso vitale, nel quale siamo immersi e dal quale noi stessi abbiamo tratto origine.
È una posizione rispettabile fin che si vuole; ma, lo ripetiamo, essa corrisponde a una sorta di suicidio consapevole, perché dire «sì» alla vita significa non soltanto vivere la propria vita, ma anche aprirsi alla vita degli altri. Il che si può fare, ovviamente, non solo mettendo al mondo dei figli, ma anche in diversi altri modi; non mai, però, negandosi intenzionalmente al compito di trasmettere, ove possibile, la vita stessa.
In altre parole, noi non siamo i signori del progetto esistenziale, ma solo i suoi custodi; e il nostro compito non è quello di giocare ad imitare Dio, ad esempio con la duplicazione a volontà degli esseri viventi (come nella clonazione), ma bensì, molto più umilmente e semplicemente, quello di adempiere il compito di passare il testimonio della vita: certo, facendo anche di tutto affinché le generazioni future possano abitare un mondo vivibile, sia in senso materiale che spirituale.