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L’ospedale come istituzione totale. Il tempo divorato dalle attese

di Davide Pelanda - 02/03/2009





sala-d'attesa

«“Il signore accanto a me si è sporcato di feci. Lo venga a pulire”.
“Sì, ora vengo”.
Passa mezz’ora e non viene.
Lo vado a cercare e gli ripeto la richiesta.
“Se aspetta altri cinque minuti viene il mio collega che monta per il turno di notte”.
                                    “Ma il signore sta nelle feci da tempo, sbraita, la stanza puzza e dobbiamo dormire”.
                                    È alle strette. Viene a fare a malincuore la pulizia» (1)


Quella sopradescritta è una scena di “ordinaria amministrazione” che avviene sotto gli occhi di molte persone, in diversi ospedali. È spiegato in “
Barelle – I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione”, un interessante libro di denuncia curato da Nicola Valentino (Sensibili alle Foglie 2008), frutto di una ricerca commissionata nel 2007 a questa editrice dall’allora direttore dell’Azienda Sanitaria Bari2 «con l’intento di esplorare – si legge nell’introduzione al volume – i dispositivi totalizzanti del’istituzione ospedaliera; quei dispositivi relazionali deumanizzanti, caratteristici delle istituzioni totali (carceri, ospedali psichiatrici, manicomi giudiziari, campi di concentramento, istituzioni terminali per anziani) che possono essere attivi anche nell’ospedalizzazione della persona malata e risultare fonte del malessere, umano e professionale, per gli stessi operatori che li applicano».

sala-d'attesaA questa richiesta se n’è aggiunta anche un’altra di un nutrito gruppo di lavoratori ospedalieri del Cardarelli di Napoli. Ne viene fuori un quadro inquietante delle strutture sanitarie descritte.

Soprattutto per ciò che riguarda la variabile «tempo», che in campo medico, ospedaliero e sanitario, - oltre all’urgenza ed alla tempestività d’intervento sul paziente al pronto soccorso e al 118 - è anche una variabile riguardante l’«attesa», come dimostrano i dati qui sotto citati:

Tempi d’attesa segnalati per alcune prestazioni diagnostiche
Mammografia, 540 giorni
Ecocolordoppler, 420 giorni
Colonscopia con anestesia, 300 giorni
Risonanza magnetica, 270 giorni
Ecocardiogramma, 240 giorni
Ecografia tiroidea, 220 giorni

Tempi d’attesa segnalati per alcune visite specialistiche
Visita oculistica, 630 giorni
Visita senologica, 365 giorni
Visita ortopedica, 300 giorni
Visita fisiatrica, 220 giorni

(fonte: “Ai confini della sanità. I cittadini alle prese con il federalismo” Rapporto PiT Salute 2007, XI edizione. In
www.cittadinanzattiva.it)

Data la tempistica “biblica” per gli esami clinici che abbiamo testé considerato, è cosa comune che le persone interessate si indirizzino verso la struttura sanitaria privata e a pagamento che ritengono essere più veloce e più efficiente.
E molto spesso per il 91% dei casi «la scelta è guidata: proposta dall’operatore in modo esplicito (73%) piuttosto che velato: “sarebbe meglio non tardare” (18%)» (2) .
Ma le attese in una istituzione totale qual è l’ospedale sono anche altre, molto spesso più serie e drammatiche, oserei dire nel DNA della struttura stessa e nella forma mentis della maggior parte degli operatori. Anche a partire dal pronto soccorso: ai pazienti in arrivo viene dato un cartellino rosso (codice rosso) se sono in pericolo di vita e devono avere la precedenza sugli altri, oppure giallo, e via via altri codici di pazienti meno urgenti e non in serio pericolo di vita, che dunque possono attendere anche delle ore nella sala d’aspetto del pronto soccorso.

Vediamo però cosa ha raccontato un paziente in attesa nella struttura di soccorso di un ospedale:
«Gli era stato dato il cartellino giallo che significa massima urgenza ma non pericolo di vita, segnalato invece dal cartellino rosso. Per questo motivo un operaio ha atteso un’ora e più nel pronto soccorso, con la falange di un dito amputata, prima di abbandonare lì il pezzo di dito e cambiare ospedale. “Mi hanno lasciato per più di un’ora con dolori lancinanti – ha dichiarato – se osavo chiedere spiegazioni mi trattavano male”» (3).

Per chi è invece ricoverato la giornata è scandita in ogni aspetto da lunghe attese: «Aspetti il prelievo, la colazione, la pulizia della stanza e dei bagni, la visita medica, che è l’appuntamento più importante, il pranzo con la visita dei familiari, le visite specialistiche, la cena delle ore sei, e la visita pomeridiana dei familiari, infine l’ora buona per addormentarti. Questo impegno costante nell’attendere non mi consente di fare nulla. Mi ero portato un libro ma non sono riuscito a leggere nemmeno una pagina. Neppure il quotidiano riesco a leggere con la dovuta attenzione. La mente risulta sempre concentrata nell’attesa di un evento successivo. Anche un mio amico, che è stato ricoverato 20 giorni in ospedale, ha vissuto la stessa esperienza» (4)

sala-d'attesaIl tempo dell’attesa in una struttura ospedaliera è psicologicamente snervante. Perché quel “si metta lì e aspetti” detto da un operatore sanitario (infermiere o medico) sembra un’attesa indefinita, angosciante. Soprattutto se si attendono gli esisti di una visita, di un esame importante che decreta la vita o la morte. Oppure la nascita di un figlio e si sente la propria moglie urlare dietro una porta e non si è deciso di assisterla durante il parto.

Per analogia le lunghe attese sono presenti in qualunque istituzione totalizzante come nei manicomi, nelle carceri e nei campi di concentramento. In queste ultime strutture i nazisti uccidevano simbolicamente due volte le persone, prima una “uccisione psicologica” con le attese e poi quella fisica. Come ebbe a dire «Settimia Spizzichino: “Ad Auschwitz ci ammazzavano con le attese!”» (5).

Eppure l’attesa è un affidarsi ciecamente delle mani di un medico, di un chirurgo, di un infermiere, quasi avessero una sorta di bacchetta magica per farci guarire.
Ma l’attesa è ormai diventata uno status ospedaliero, una sorta di “malattia cronica” dei nosocomi e il malato non a caso viene chiamato paziente cioè «colui che soffre, dalla radice etimologica di patire, ma è anche chi attende e persevera con tranquillità» (5).

Fare aspettare vuol dire comunque che la struttura ospedaliera e i suoi dipendenti hanno in qualche modo una forma di dominio sul paziente e lui stesso ne viene catturato: trascorre il tempo a pensare che cosa succederà dopo, se qualcosa di buono o di cattivo. Quindi non ha più «l’autonomia di potersene andare» (6).

E il tempo di attesa psicologicamente si dilata. La mezz’ora di attesa per un ricovero sembra essere un’eternità: «Devono ricoverarmi per un intervento chirurgico programmato. L’impiegato non mi ha informato di nulla, mi ha detto soltanto: “La chiamo io”. Mi telefona un’amica, le rispondo che sto aspettando da molto, da mezz’ora. Lei osserva che in fondo mezz’ora non è tanto, e ha ragione. Ma a me sembra tantissimo, tutte le persone al piano terra dell’accettazione passano da un’attesa all’altra» (7)

Il tempo in ospedale è un continuo aspettare senza che nessuno dia delle spiegazioni. Allora l’attesa diventa anche smarrimento, tensione e paura.

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(1) “Barelle – I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle Foglie 2008, p. 62
(2) “Ai confini della sanità. I cittadini alle prese con il federalismo” Rapporto PiT Salute 2007, XI edizione. In
www.cittadinanzattiva.it
(3) La Repubblica, 7 novembre 2000 in “Barelle – I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle Foglie 2008, p. 58
(4) “Barelle – I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle Foglie 2008, p. 59
(5) Ibidem p. 58
(6) Ibidem p. 59
(7) Ibidem p. 60