Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Aborigeni: Australia, la minoranza più antica e discriminata

Aborigeni: Australia, la minoranza più antica e discriminata

di Pierangelo Giovanetti - 03/03/2006

Fonte: Avvenire

 


 

Espropriati della propria storia e cultura, finiscono spesso preda di alcool, malattie, suicidi, precarietà economica Un'isola di quarto mondo dentro il primo mondo

Dal Nostro Inviato A Sydney Pierangelo Giovanetti

«Djalupu, djalupu... ganbag, gamalag». Ritma il tempo con i clap stick, i bastoncini di legno sbattuti fra loro, dopo aver soffiato tutta l'aria dei polmoni dentro il tronco di eucalipto svuotato all'interno dalle termiti, il didgeridoo di due metri e mezzo, creando suoni che si perdono nella notte dei tempi, in una memoria ancestrale che si ripete da quindicimila anni. Ha la faccia dipinta di bianco, che spicca sul nero della sua carnagione. Una nenia struggente di nostalgia infinita, che a tratti sembra un lamento. Il pianto dell'aborigeno, forestiero nella sua terra che non ha più. Australiani da 50mila anni, gli aborigeni sono ancora stranieri in Australia. Oggi ancora più di ieri. Ai margini della società ricca e opulenta, dominata dai bianchi. Discriminati, isolati, espropriati della propria storia e cultura, finiscono preda dell'alcol, delle malattie, del suicidio, della precarietà economica. Isole di quarto mondo dentro il primo mondo.
Sono 460mila gli aborigeni dell'Australia, il 2,4% della popolazione. La minoranza più antica e discriminata del Paese. La gran parte di loro vive sotto la soglia della povertà e campa grazie ai sussidi governativi. L'impiego massiccio delle macchine agricole negli anni Settanta li ha resi inutili nelle campagne, e molti si sono ammassati alle periferie delle grandi città, Sydney, Melbourne, Adelaide, campano di espedienti, con un tasso di vita media di vent'anni più basso rispetto agli altri australiani. L'indice di disoccupazione fra di loro oscilla tra il 38 e il 50%, la media nazionale non arriva al 9%. Più della metà dei giovani non trova lavoro dopo la scuola. Costituiscono il 16% della popolazione carceraria e il 19% dei detenuti che muoiono in cella. Quelli di loro che fanno ricorso a cure psichiatriche sono da tre a cinque volte di più della media nazionale. L'ospedalizzazione per malattie mentali è cinque volte più alta che nel resto della popolazione. E malattie come il diabete, l'as ma, i disturbi cardiaci, come pure la sifilide, la lebbra e il tracoma (una malattia infettiva degli occhi che porta alla cecità) hanno una diffusione di gran lunga superiore alla media fra le comunità dei native Australians. «Troppi aborigeni continuano a morire di suicidi, per droga e problemi di salute endemici», continua a denunciare l'ex campione di rugby Michael Long, preoccupato per la sorte del suo popolo. «Sono stanco di andare a questi maledetti funerali». Una minoranza che rischia l'estinzione, culturale e spirituale, prima che fisica.
Eppure, nonostante si tratti ormai di un'emergenza nazionale, il governo australiano di John Howard rifiuta le richieste fondamentali degli aborigeni: i diritti territoriali ed una regolamentazione contrattuale fondata sul diritto all'autodeterminazione. Certo, vi sono programmi speciali con finanziamenti governativi per favorire l'alloggio e maggiori opportunità lavorative ai nativi. Il governo federale ha varato un progetto di circa tre miliardi di dollari australiani nel biennio 2004-2005 per agevolare l'integrazione degli indigeni. Ma il problema è di fondo. Se l'Australia riconosce i propri torti e le ingiustizie commesse (e che sta tuttora commettendo) verso gli aborigeni, deve rivedere i propri fondamenti politici e culturali. Deve rivisitare la propria memoria condivisa. Mettere da parte una sorta di superiorità wasp, bianca-anglosassone-protestante, che ancora sta alla base dell'organizzazione e della vita nazionale. Un passo che gli australiani non vogliono ancora fare.
Di fronte al dramma degli aborigeni, i veri poveri dell'opulenta società dell'emisfero sud, la voce della Chiesa è tra le poche che si ergono a loro difesa. «Il governo pensa di risolvere il problema con il denaro - mette in guardia il cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney -. Un fiume di soldi viene dato ogni anno alle famiglie aborigene, ma non si comprende che la questione è culturale, morale. Riguarda la fiducia e le speranze di un popolo. A tal proposito sono validi e necessari gesti simbolici di pace e riconciliazione, oltre alla concreta possibilità di sviluppo per le comunità aborigene. Per aumentare la cooperazione fra le comunità aborigene e il resto del Paese, occorre incoraggiare la formazione di una leadership che ne favorisca l'integrazione. La Chiesa sta lavorando anche in questa direzione, inserendo gli aborigeni nella pastorale e lavorando per la loro crescita sociale, culturale e spirituale».
La Chiesa cattolica, come pure le altre chiese cristiane, ha criticato il governo anche per il suo rifiuto di scusarsi per il trattamento inflitto ai bambini aborigeni che furono strappati alle loro famiglie. Si stima che almeno 100.000 bambini tra il 1930 e il 1970 furono sottratti ai propri cari e in molti casi anche sottoposti a pesanti maltrattamenti fisici e psicologici. «Vanno riconosciuti gli errori del passato, pur senza speculare su queste vicende - hanno dichiarato i vescovi -. L'Australia oggi ha bisogno di un deciso messaggio di pace, riconciliandosi con gli aborigeni e promuovendo iniziative di ponte fra la cultura maggioritaria e quella delle minoranze indigene. Solo così gli aborigeni potranno inserirsi pienamente nel tessuto sociale nazionale».