Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La cultura moderna sta corteggiando il Nulla perché, in fondo, non crede più nella vita

La cultura moderna sta corteggiando il Nulla perché, in fondo, non crede più nella vita

di Francesco Lamendola - 05/03/2009

«Ma che cosa stai facendo, zione? Corteggi la morte?», domanda il bel Tancredi, in una delle scene finali del film «Il Gattopardo» di Luchino Visconti, allo zio don Fabrizio, che, al termine di una splendida serata danzante attraverso i saloni eleganti del palazzo, durante la quale ha ballato - ammirato da tutti - con la futura nuora Angelica, è entrato poi in una stanza solitaria e si è messo a contemplare, tutto solo, quasi rapito, un quadro dal soggetto assai malinconico: l'agonia di un vecchio, nel suo letto in disordine, circondato dalle figure straziate dei parenti.
Crediamo che una domanda del genere si potrebbe rivolgere alla maggior parte degli uomini di cultura del nostro tempo, e non solo di quelli della stagione esistenzialista vera e propria, ma un po' a tutti, dall'avvento della modernità in poi; o, per essere più precisi, si potrebbe domandare loro: «Ma che state facendo, carissimi: corteggiate il Nulla?». Ma, anche in questa variante, il senso ultimo sarebbe pur sempre l'attrazione morbosa verso la morte - o, il che è lo stesso, la totale perdita si fiducia nel valore auto-evidente della vita.
Una volta, diciamo prima dell'avvento della modernità, il valore della vita era intrinseco e, quindi, auto-evidente: e non c'era bisogno di una laurea o, meglio ancora, di una cattedra universitaria, per fondarlo su una base razionale. I nostri nonni contadini, che non avevano frequentato, forse, neanche la quinta elementare, sentivano quella evidenza, senza bisogno di cercare delle ragioni che la giustificassero.
Eppure la vita che essi conducevano era una vita dura, nella quale - giudicando secondo il metro di oggi - sacrifici e rinunce superavano di gran lunga gioie e soddisfazioni. Dunque, il fatto che la vita apparisse come un bene in sé stessa non dipendeva dalla quantità di piacere che, in essa, ciascuno si poteva ragionevolmente attendere; al contrario, secondo ogni evidenza, bisognava aspettarsi moltissime giornate dure e pochi momenti di spensieratezza. Se non fossero stati animati da un altissimo senso del dovere, oltre che da una profondo sentimento religioso, i nostri nonni non avrebbero trovato nemmeno la forza di tirare avanti.
Sta di fatto che essi non solo mettevano su famiglia, si caricavano di debiti per pagare la casa, si ammazzavano di lavoro per allevare i figli; ma facevano tutto questo, generalmente, con animo lieto: non era cosa rara udire la nonna canticchiare mentre cucinava o faceva i lavori di casa, o il nonno mentre lavorava nella sua bottega. Cantavano non perché fossero felici, ma perché avevano il cuore leggero: ed avevano il cuore leggero perché trovavano una piena rispondenza fra ciò che la vita domandava loro e ciò che essi erano disposti a concedere alle sue esigenze. Non brontolavano che raramente, non perché fossero degli stoici, ma perché le loro aspettative erano limitate e perché  ritenevano che, fra il dare e l'avere, la vita fosse, tutto sommato, «giusta» nei loro confronti: cioè, che non li avesse affatto ingannati o delusi, ma, al contrario, che avesse rispettato il tacito accordo stipulato con essi al momento della nascita.
Le epoche della storia in cui si è raggiunto questo felice equilibrio fra aspettative e realtà, sono caratterizzate da una cultura stabile, da un'arte colma di stupore e di gratitudine davanti all'incanto del mondo, da una filosofia che cerca nell'essere la risposta e la conferma all'umana tensione verso un altrove che sorpassa di gran lunga la condizione creaturale dell'uomo, ma senza rinnegarla e senza ribellarsi contro di essa. Tale è stata la cultura medievale, tale la cultura della civiltà contadina ,fino alle soglie della rivoluzione industriale.
Poi, con l'arrivo della modernità, tutto è cambiato. La vita ha cessato di presentarsi agli uomini come un bene di per sé evidente; si è andati alla ricerca di ragioni per giustificarla; gli illuministi si sono dati un gran daffare a parlare di felicità, di diritti, di piaceri; e, alla fine, si è incominciato a calunniarla, a svalutarla, a denigrarla e a maledirla, proclamandola come la massima delle sventure (Leopardi, Schopenhauer).
Una volta spalancate le porte alla celebrazione del Nulla, gli intellettuali hanno fatto a gara per chi sapeva imprecare con più astio e con più livore contro la vita; la quale è divenuta sinonimo di «male», come nella poesia di Montale: «Spesso il male di vivere ho incontrato», che non risparmia né animali, né piante, né lo stesso regno minerale: e contro il quale unico rifugio consiste nella  «divina indifferenza», nel farsi simili a una statua di pietra.
Gli esistenzialisti hanno spinto all'estremo questo atteggiamento nichilista e, al tempo stesso, ne hanno fatto una vera e propria moda (anche nel modo di vestire, di camminare, di fumare la sigaretta), al punto da gettare l'ombra del sospetto su quei pochi scrittori, artisti e filosofi i quali, nelle loro opere, non si univano a questa forsennata denigrazione della vita, ma avevano l'incredibile audacia di esprimersi in toni di sia pur cauto ottimismo.
L'equazione: «persona intelligente, uguale persona disincantata e disperata», era così ferrea e universalmente accettata, da parere che solo un imbecille o una persona in malafede poteva non condividere l'odio per la vita e per il mondo in cui viviamo (sulle orme del Leopardi de «La Ginestra, o il fiore del deserto», che esprime questo concetto a chiarissime lettere). Chi non si univa a Heidegger nel dire che l'uomo è quell'essere che è fatto per la morte, e a Sartre nel sostenere che la nausea è l'unico atteggiamento decente davanti allo spettacolo del mondo, passava per un idiota o per un agente provocatore.
E il clima spirituale odierno, alle soglie del terzo millennio, non è cambiato di molto, se non per un rigurgito di edonismo spicciolo e di libertinismo cialtrone, che sembra aver contagiato come un virus specialmente le giovani generazioni; mentre i profeti del Nulla sono rientrati nell'ordine (di solito ritagliandosi una magnifica fettina di benessere borghese, dopo i furori rivoluzionari della propria gioventù), mettendosi al servizio di qualunque bandiera come dei perfetti mercenari, ma senza avere l'onestà intellettuale di riconoscere il proprio fallimento.
Certo, possiamo domandarci se, nel corteggiamento del Nulla, non sia possibile vedere anche, quanto meno in potenza, una aspirazione a far emergere dal nulla la dimensione dell'essere; se, cioè, dietro tutto lo strepito degli odierni adoratori del niente non si celi, in fondo, una segreta e mai spenta aspirazione alla pienezza della vita, della gioia e della bellezza, ossia al salto di qualità verso la dimora dell'Assoluto.
Ma in che modo il nulla può essere visto come il rovescio del Tutto? Nel senso della filosofia antica, che, all'Essere, contrapponeva il non-essere, inteso non solo come negazione dell'essere, ma come radicale assenza di essere, come privazione ontologica di quel dato primordiale e fondante in cui l'essere consiste.
Il filosofo Vittorio Mathieu, ad esempio, sostiene - sulla scia di Heidegger ed altri - che la poesia assoluta, così come la musica assoluta, tendenzialmente conducono verso il silenzio, inteso non già come assenza di cose da esprimere, ma come un modo per far emergere, nel silenzio e dal silenzio, quella poesia e quella musica che parlano a noi un altro linguaggio da quello delle parole e dei suoni: un linguaggio ineffabile, rispetto al quale la parola del poeta e l'armonia del compositore non sono che una preparazione e, in un certo qual modo, un preambolo, avendo in sostanza la funzione di evocare quel mondo di pura bellezza che è già dentro di noi, perché fa parte della dimensione dell'essere, in cui noi siamo immersi.
«Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia», afferma Giuseppe Ungaretti nella poesia «I fiumi»: perché la condizione di estraniamento e di angoscia dell'ente si verifica allorché questo smarrisce la consapevolezza del suo legame ontologico con l'essere e interrompe, per così dire, il circuito virtuoso che, tenendolo armoniosamente collegato all'intero orizzonte di senso della realtà, lo tiene legato anche all'autoevidenza del valore della vita. E questa è, precisamente, la condizione tipica dell'uomo moderno: di solitudine, di ripiegamento, di abdicazione all'unione con l'essere.
Non potrebbe darsi, pertanto, che la fuga verso il nulla dei figli della modernità, altro non sia che un'inconsapevole rincorsa delle ragioni dell'essere e, quindi, dell'attaccamento alla vita, del desiderio di ritrovare ragioni di speranza e motivi per scommettere sul domani?
Crediamo di sì; e crediamo che proprio da qui si dovrebbe partire, per iniziare quella necessaria opera di ricostruzione dei legami degli enti con l'essere, senza la quale non ci sarà mai dato di spezzare il cerchio maligno della disperazione e dell'angoscia entro il quale, per nostra colpa, ci siamo rinchiusi con masochistica ostinazione.

Afferma, dunque, Vittorio Mathieu (nel volume «Il nulla, la musica, la luce» (Milano, Spirali Edizioni, 1996, pp. 10-16):

«Il concetto di nulla è tornato di moda. Come diceva Verdiglione, è sempre stato di moda, nella tradizione occidentale. I Greci parlavano più volentieri di non essere, contrapposto all'essere. Notate che già la parola "essere" è estremamente strana: questo sostantivo viene da un verbo ausiliare, in fondo, un verbo che non dice niente; eppure già Parmenide usa questa espressione, "to eînai", l'essere, come se fosse un qualche cosa, un sostantivo. Proprio Heidegger ha visto, in questo, l'origine della metafisica occidentale, di tutto il modo occidentale di vedere, di concepire la realtà. Soltanto che, nella tradizione postplatonica, secondo lo stesso Heidegger, ci sarebbe un affievolirsi di senso dell'essere e, di conseguenza, ci sarebbe la tendenza a concepire quello che i presocratici chiamavano "essere" al modo di una cosa. Difatti, a tutte le cose che ci circondano possiamo dare questo predicato dell'essere. Possiamo darlo alle cose inanimate, oppure animate, a loro modo, come queste statue - perché anche queste statue, a modo loro, sono animate -, a noi stessi e così via. Siamo soliti contrapporre, per tradizione parmenidea, queste cose che "sono" al non essere e dire che del non essere non si può dire nulla perché, appunto, "non è", mentre tutto ciò di cui si può parlare "è".
Ma già Platone aveva commesso il parricidio, come dice lui, aveva ucciso suo padre Parmenide, dicendo: occorre parlare anche del non essere, altrimenti questo "essere delle cose" perde ogni senso, perde ogni possibilità di essere attribuito alle cose. Da allora c'è una tradizione - che si potrebbe chiamare, con termine tecnico, "meontologia", dottrina del non essere, contrapposta all'ontologia, come dottrina dell'"ón", dell'ente, che attraversa tutta la filosofia occidentale. Cito soltanto un nome, dalla prescolastica medievale: Fredegiso di Tours, che scrive un piccolo saggio intitolato appunto "De nihilo et tenebris" ("Del nulla e delle ombre"), che è stato ristampato anche recentemente, ma che il mio professore Mazzantini , di filosofia medievale e antica, già ricordava. È stato citato Leonardo, però questo concetto è ritornato di moda quando Heidegger, proprio per evitare quella confusione tra l'ente - le cose che sono, ma non sono l'essere - e l'essere, ha adoprato il nulla in funzione, potremmo dire, positiva anziché negativa. Ma positiva, non nel senso che esso sia qualcosa di determinato: gli occhiali, la statua, la biro, noi stessi, gli enti per eccellenza siamo noi. Ma "ente" è un participio attivo, un participio presente, "tó ón", l'essere è un infinito. Allora, l'ente è qualche cosa che è. L'essere, sì, l'essere, "è", diceva Parmenide, ma non c'è nessuna "determinazione" che si possa dare all'essere come tale.
Per far risultare questo, ma in senso positivo, Heidegger si è servito del concetto di nulla. E poiché il nulla, diceva Parmenide, non si può dire, ha adoperato certe esperienze , che sembrano soltanto esperienze psicologiche, ma sono, in realtà, esperienze esistenziali, per mostrare la significatività  del nulla: non tanto in sé, ma come capacità  di "far significare", che ha il nulla.  Faccio solo qualche esempio. Il sentimento, più metafisico e più immediato del nulla è - l'aveva già detto Kierkegaard - l'angoscia. L'angoscia, in quanto diversa dalla paura.  In italiano, abbiamo due parole. In tedesco, "Angst" può anche volere dire paura, non soltanto angoscia.  La paura è paura di qualche cosa. Paura di venire arrestati, per esempio, paura di venire colpiti dal fulmine. Questo è "Angst vor": paura davanti a qualche cosa. Invece, l'angoscia è angoscia davanti al nulla, non più davanti a qualche cosa.
L'angoscia diventa l'emergere del nulla nella nostra sensibilità, e allora diventa  un sentimento metafisico rivelativo, che può servire, proprio per contrapposizione, non a spiegare ma a far capire, quasi senza spiegazione, questa insondabilità dell'essere, che non si lascia determinare, ma che "è".  Non un ente, ma un infinito. Mentre, nella concezione parmenidea, c'è l'opposizione tra essere e non essere,  qui c'è la rivelatività, da parte del nulla - non chiamiamolo più non essere - dell'essere. Prendiamo un altro esempio tipico di questa filosofia per mostrare come, proprio dal negativo, emerga il significato positivo: la chiacchiera. Cioè, l'uso della parola a vuoto. La chiacchiera è un atteggiamento umano  che fa emergere il vuoto dentro la parola. Lo fa  emergere per ragioni sociali, salottiere, ma, visto con gli occhi del filosofo, lo fa emergere in modo più rivelativo. Quando si chiacchiera, in fondo, non si dice nulla. Ma, attraverso  questa esperienza, semplicemente, di fatto, psicologica, può manifestarsi una esperienza più profonda di quel vuoto che possiamo chiamare silenzio, che sta a fondamento del significato della parola. La chiacchiera non è silenzio, anzi, è negazione del silenzio. Uno chiacchiera perché non vuole stare zitto. Gli inglesi, no. Gli inglesi, quando si trovano in società, starebbero un quarto d'ora, venti minuti insieme senza dire una parola. Ma, insieme con gli altri, troverebbero che è sconveniente, allora dicono cose senza nessuna importanza, parlano del tempo o delle domestiche; senza contenuto, solo per interrompere il silenzio. In questo modo, la capacità rivelativa del silenzio, indirettamente, si fa sentire.  Si fa sentire quella potenza del silenzio - Hegel parlava della potenza del negativo, ma in un altro senso, come potenza del nulla - che fa emergere, il senso della parola. Allora, quando noi troviamo la parola del poeta , possiamo capire in che senso - secondo Heidegger, e anche secondo Rilke, il poeta che (come dire?) ha precorso Heidegger con la sua poesia filosofica, con la sua filosofia poetica - il parlare del poeta sia un "ascoltare il silenzio"; o anche un silenziare la parola. Questo è un concetto romantico  . "Der Stille" (il silenzio), anche prima, in tutto il romanticismo tedesco, era un protagonista dell'indagine sull'arte. Qui, diviene più connesso con problemi specificamente teologici e anche  filosofici, metafisici. La rivelatività della parola è un ascoltare il silenzio, cioè quel che non si può dire, ma che può rivelarsi soltanto attraverso la parola.
C'è effettivamente un antecedente teologico: la cosiddetta teologia negativa, che è una teologia del silenzio, che però parla moltissimo. La teologia negativa riempie libri, , a partire da Pseudo-Dionigi Areopagita, , per tutta una tradizione, anche in San Tommaso, e così via. Dio si può dire soltanto con il silenzio: ma il silenzio è diverso dal non dire niente.  È il dire, il fare un discorso, che tuttavia faccia emergere - non semplicemente indicando cose, enti, non riferendosi  a oggetti che si danno nell'esperienza - che riveli, attraverso il nulla, ciò che non si può indicare con il dito, perché, se lo indico con il dito, diventa un idolo: la statua, l'immagine. Io posso indicare Dio  e diventa un feticcio. Questi non sono semplicemente degli errori, sono errori che fanno parte della riflessione. Anche gli idoli, in qualche modo, servono alla divinità, ma bisogna raggiungere la coscienza, attraverso la negazione, che, in realtà, ciò che conta non è quel che indico con il dito, ma quello che dà un senso al mio indicare con il dito.
La parola "senso" è una parola molto ambigua. Può voler dire "guardare verso", avere l'intenzione, guardare in una certa direzione, e può anche voler dire "sentire". Allora, c'è un sentire rivelativo, che mi dà una direzione in cui guardare, al termine della quale "non c'è un oggetto".  È facile interpretare l'intenzione, come ciò che si dirige verso un oggetto.  L'"intentio", in verso filosofico, è un'attenzione che si dirige  versa un oggetto: ma qui l'"intentio" non si dirige più verso l'oggetto, salvo idolatrarlo, in qualche modo. Allora, si deve prendere coscienza di dirigersi verso il nulla e, attraverso questa intenzione, far emergere, al contrario, quell'altro senso in cui non "noi guardiamo verso", ma in un certo senso, "l'essere guarda verso di noi". Noi ci sentiamo, a questo punti, guardati da ciò verso cui non possiamo più guardare senza falsarlo. C'è un ritorno da un punto che non abbiamo mai raggiunto, questo nulla.
Questa è una tecnica usata, in genere, dall'esistenzialismo, che, infatti, nutriva questi aspetti negativi: per esempio, l'indifferenza totale di Sartre. Parlo di esistenzialismo in senso generico, perché poi né Heidegger né Sartre, a un certo punto, hanno ammesso di essere esistenzialisti. Quello che s'intende in genere per esistenzialismo dà luogo a questi fenomeni d'intenzione verso il nulla, apparentemente solo negativi. Per esempio, il lasciarsi crescere la barba degli esistenzialisti dei miei tempi, il vestirsi trasandati. Sono mode che, in parte, si sono diffuse , ma avevano questa origine: l'indifferenza per ciò che è differente, per ciò che, essendo determinato, quindi finito, circoscritto,  si distingue da ogni altra cosa. Deve distinguersi, possibilmente, in bene, non in male. Ma, se si distingue in bene, diventa una cosa particolare. Se io mi vesto bene, mi distinguo dalla massa che si veste male. Allora, per evitare che questo manifestarsi dell'essere diventi una mondana dimenticanza dell'essere, l'atteggiamento esistenzialistico è quello di andare trasandati. E questo è stato addirittura teorizzato da Sartre, dicendo che qualsiasi scelta è inevitabile, ma indifferente. Cioè, non ha un valore maggiore questa o quella scelta politica. Essere un pastore di popoli o ubriacarsi in solitudine hanno lo stesso valore.  Questo è l'indifferentismo morale.
Mi viene in mente che,  secondo gli storici della moda, Lord Brummel, che era un elegantone, aveva dato dell'eleganza una definizione molto più rilevante, molto più interessante, dell'essere trasandati:  il "non farsi notare". A un certo punto, anzi, l'essere trasandati diventa una moda "per farsi notare"; oppure per tornare a massificarsi. Invece, secondo Lord Brummel, la persona veramente elegante è quella di cui non si nota che sia elegante - sia essa trasandata in modo elegante, o sia raffinata -, non si nota "come" sia vestita. Per lo meno, non tutti quelli che la guardano, se non hanno questo interesse particolare, notano che sia elegante. Questo è vero anche nell'eleganza femminile: quando una donna si presenta come volutamente o palesemente elegante, non lo è più. Mentre invece, quando è veramente elegante,  direi che, se uno non ci bada, non vede come sia vestita. Questo è il ritorno del significativo attraverso una sorta di nulla, del nulla della presenzialità. Cioè, la moda come nulla è la moda più elegante di tutte: non nel senso che uno sia nudo, ma nel senso che al vestito non si bada più, talmente è naturale.  Cosa vuol dire essere naturale? Naturale vuol dire venire fuori dall'essere: quindi non lo noto più proprio perché rivela l'essere. La natura che ci circonda, la natura creata viene fuori dall'essere e, appunto per questo , ci appare naturale. Invece, ciò che facciamo noi, se non raggiungiamo quell'altezza estetica - propria della poesia, della musica, della pittura riuscite - che è il silenzio, che è il nulla, che è il non particolare, ci appare falso. Quando si circoscrive in quello che ci dà appare falso. La natura non è mai falsa, i colori naturali non sono mai falsi.  I colori del pittore possono non corrispondere affatto ai colori naturali, e tuttavia veri, perché vengono - questa volta artisticamente - dall'essere. E allora vengono attraverso quel silenzio  in cui consiste l'essere.»

Giunto al punto in cui è, all'uomo moderno non resta altro da fare, per spezzare il sortilegio nichilista entro il quale si è confinato da sé medesimo, che far leva sulla sua stessa attrazione verso il nulla, ma deviandone l'intenzione, per così dire, dal Nulla come negazione dell'essere, al Nulla come occasione di rivelazione dell'Essere, poiché l'Essere abita nel silenzio.
E Dio sa se non v'è bisogno di riscoprire i tesori inesauribili del silenzio, del raccoglimento, dell'ascolto, dopo l'orgia di rumori insensati e di parole insignificanti cui l'uomo moderno ha finito per sottomettersi, cercando, perfino (complice l'abissale servilismo dell'intellighenzia rispetto alle mode culturali), di autoconvincersi della loro sensatezza e della loro significanza!
Infatti.
Fino a quando l'uomo moderno non tornerà a scoprire tutta la bellezza e tutta la ricchezza della solitudine, del silenzio, dell'ascolto, non riuscirà a recuperare il legame originario con l'essere; non riuscirà a spezzare il maligno incantesimo che lo costringe ad abitare le buie cantine del suo luminoso palazzo, disertando gli ampi saloni affacciati sul giardino.
C'è bisogno di un nuovo Medioevo (nel senso positivo dell'espressione), c'è bisogno di un nuovo monachesimo; c'è bisogno di un nuovo, grandioso fenomeno di raccoglimento in se stessi, da parte degli uomini, simile a quello che si verificò, in Occidente, tra il crepuscolo della civiltà antica e l'aurora dell'epoca nuova. Se non sapremo ricreare la pace e il silenzio del chiostro - fuori di noi, ma soprattutto dentro di noi - non riusciremo a superare il punto morto in cui siamo arrivati; non riusciremo a liberarci dalla morbosa attrazione per il Nulla, per il corteggiamento della morte.
Non riusciremo a riscoprire le ragioni - che, per i nostri nonni, erano così ovvie da non richiedere alcun ragionamento - dell'attaccamento e dell'amore per la vita, ma continueremo a denigrarla e a calunniarl: misero sfogo impotente di chi, non riuscendo più a vedere l'incanto del mondo, non trova di meglio che offuscarlo e insozzarlo a più non posso, con le sue stesse mani.