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Elogio dell’ozio. Robert Louis Stevenson

di Marco Managò - 06/03/2009

 

Elogio dell’ozio. Robert Louis Stevenson


Il piccolo volume (edito da La vita Felice) scritto, quasi di getto, dall’eclettico autore inglese (noto per “L’isola del tesoro” e “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”), è una curiosa rivalutazione dell’ozio, contrapposta ai dettami dei dogmatici: quelli rivolti al solo perseguimento del (falso) dovere e alla logica del successo.
Filosofi d’ogni tempo (Venturi, nella presentazione al libro, ricorda Cartesio, Oscar Wilde, Whitman, Chesterton e Nietzsche) hanno concepito un’altra visione della natura umana, da contrapporre a quella esasperata del produrre, del profitto, del tempo ottimizzato.
Va precisato che, del resto, la stessa definizione di “otium” nasce con una caratterizzazione positiva, di meditazione intellettuale e spirituale; col tempo ha acquisito un’accezione negativa, annullando anche l’originario contributo alla libertà personale e alla creatività.
Il testo di Stevenson, accompagnato, nella presente edizione, dal corrispondente testo inglese a fronte d’ogni pagina, inizia con una magistrale dichiarazione da trascrivere testuale: “La cosiddetta pigrizia, che non consiste nel non far nulla, ma nel fare tanto di quel che i dogmatici formulari della classe dirigente non riconoscono, possiede un pari diritto ad affermare le sue prerogative di quanto ne abbia l’operosità stessa”.
Molte volte lo sforzo eroico personale si infrange contro il muro dell’indifferenza, in buonafede o in malafede, eretto dai soliti esperti di settore che sottovalutano l’impresa altrui cagionando frustrazione.
Altro elemento essenziale nella disamina dell’autore, che dovrebbe essere un punto fermo nelle speculazioni d’ogni sorta, come antidoto ai depositari della verità, degli inquisitori contemporanei (così duttili e salvifici, a parole, del libero pensiero), è nel considerare il testo come un’apologia. Stevenson ammette come ci siano validi motivi a supporto dell’operosità ma, precisa argutamente, “Esporre una tesi non vuol dire necessariamente essere sordi a tutte le altre…”.
L’approccio tranquillo e leggermente distaccato allo studio e al lavoro può rendere di più rispetto a sforzi disumani, eseguiti malvolentieri, con forzature e “violenze corporali”.
Il pigro, alternando la sua attività a momenti di svago e di benessere fisico, risulterà più aperto e predisposto al confronto e alla dialettica. Non sarà certo un dogmatico, né un freddo esecutore di mere funzioni lavorative o di studio bensì un cultore dello spirito, della ricerca, della curiosità, accompagnando, nella sua benefica avventura, le sorti di familiari e amici. Opposta condizione, quindi, per chi mitizza il lavoro e, arido e materialista, tende all’egoismo, all’alienazione, alla presunzione. Tale visione unilaterale della vita conduce, necessariamente, al sacrificio di altri aspetti pur validi e da tener presenti.
Una concezione che Stevenson matura profondamente già da ragazzo, quando ripudia lo squallido ambiente del puritanesimo borghese da cui proviene e che culmina con il vivere in mezzo agli indigeni delle isole Samoa, da lui difesi contro i bianchi ottenendo un reciproco atto di stima.
L’autore insiste sul diverso stato d’animo delle due casistiche, il pigro e l’operoso, uno in genere più felice e avviato a una vita serena, l’altro a rischio di esaurimento nervoso, per se stesso e per chi lo circonda. Per il secondo il rischio è davvero notevole, soprattutto se il soggetto tende all’isolamento o a un’effimera integrazione sociale. Il tutto può degenerare, inoltre, in caso di parziale insoddisfazione o di incompleto riconoscimento sociale e materiale.
“Dimostrerà una grande tolleranza e un distacco nei confronti di tutte le persone e le opinioni. Qualora non trovasse remota verità, non abbraccerebbe lo stesso nessuna lampante falsità”. Aggiunge Stevenson.
Il testo dell’inglese è davvero godibile, ricco di spunti interessanti e del tutto adattabile all’esasperazione dei tempi moderni, in cui le degenerazioni sono molto più diffuse rispetto a un secolo or sono. Il volume, inoltre, non può esser considerato un forzato tentativo di giustificare nullafacenti o fannulloni, proprio in virtù dell’apertura mentale di cui godono il pigro e lo stesso autore, sublimata in una candida ammissione di apologia. Tutto al contrario dei dogmatici, degli adepti della cultura del successo e del risparmio di tempo; diffidare (molto) di coloro che hanno le chiavi, del mondo, in tasca.