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Torna lo Stato, però attenti al Leviatano

di Tonino Bucci - 13/03/2009

Tonino Bucci intervista Carlo Galli, storico delle dottrine politiche

Dopo anni di sbornia liberista l'egemonia mercatista mostra le corde. Da almeno un decennio a questa parte eravamo abituati al ritornello della fine della storia. Utopie, ideologie critiche e filosofie dialettiche erano finite nel cassetto, e con esse una certa idea della politica. Di quella politica intesa come la non accettazione del mondo così com'è. Anzi, ci avevano quasi convinto che alla politica spettava soltanto l'amministrazione della realtà esistente. Gli automatismi del mercato avrebbero assicurato che la società funzionasse nel migliore dei modi possibili.
Oggi, in maniera sorprendente, sta cambiando tutto. La crisi economica ha demolito la fede ingenua nel "mercatismo" e ha fatto nascere un grande bisogno di politica. Non si fa altro che parlare del ritorno di moda dello Stato e dell'intervento pubblico in economia. Sarà un cedimento alle suggestioni del New Deal e al rooseveltismo, fatto sta che oggi alla politica si chiede la capacità di rimettere ordine nella società, di governare i processi reali di un mondo inquieto. Lo Stato è tornato, viva lo Stato? Non è affatto scontato. Non è detto che la crisi del liberismo - di per sé un bene - porti dritto dritto al "buon statalismo". Del resto, nello stesso retroterra teorico della sinistra, dalla Questione ebraica di Marx o da Stato e rivoluzione di Lenin in poi, la critica allo Stato moderno è tema frequente, perlomeno la critica alle forme in cui lo Stato esiste realmente nello specifico di questa società. La statualità non è semplicemente l'istituzione o la ripartizione dei poteri. Stato - se si tiene a mente Gramsci - è l'organizzazione di un'egemonia nella società, il dispiegarsi sistematico del dominio e del controllo di una classe sociale sull'altra. Può prendere anche la forma di un totalitarismo soft come insegnavano gli autori della Scuola di Francoforte - Adorno, Horkheimer, Marcuse - rivalutati, entro certi limiti, da Carlo Galli, docente di storia delle dottrine politiche a Bologna, nel suo nuovo libro Contingenza e necessità nella ragione politica moderna (Laterza, pp. 248, euro 20). Sono, quegli autori francofortesi, i rappresentanti dell'ultima grande critica filosofica alla razionalità occidentale, agli effetti di "sistema" e di necessità con la quale questa è capace di istituirsi come dominio totale sulla società, fosse pure nelle forme soft dell'omologazione, della tolleranza liberaldemocratica e del consumismo.
Ma nel puzzle della modernità, fatto certo di tanti percorsi, questo profilo inquietante della politica, intesa come controllo totale, si può rintracciare, con qualche forzatura, nell'autore che dà il nome e l'inizio alla teoria dello Stato moderno. E' con Hobbes che la politica si costituisce come artificio umano, come separazione dalla natura. Al centro della sua opera, Il Leviatano , si staglia l'omonimo leggendario mostro biblico preso da Hobbes a emblema dello Stato e della sua potenza, seducente ed efficace per il suo ordine geometrico, ma al contempo, terrificante nel suo sovrastare l'individuo. Il compito della politica è la salvezza biologica dell'essere umano, la cui vita sarebbe messa a repentaglio in un immaginario stato di natura. immaginario, appunto, perché la natura da cui occorre uscire - quella del conflitto di tutti contro tutti - serve solo da pretesto logico e retorico per giustificare il passaggio all'artificio dello Stato. Ma, in realtà, di autoaffermazione si tratta. Il potere che di colpo trasforma gli esseri umani in cittadini, in corpo politico, è un potere che sbuca fuori dal nulla, un inizio assoluto.

Non rischiamo oggi di trovarci di fronte a un nuovo Leviatano? Quanto può esserci di inquietante nell'aumento di potere che lo Stato detiene di contro all'individuo?
Non ho un pregiudizio antileviatanico. Il Leviatano non è altro che lo Stato nella sua moderna forma rappresentativa. Che non è un dominio politico tra i più sgradevoli, va detto. C'è di peggio. Altra cosa è nel linguaggio comune per il quale il Leviatano viene a significare uno Stato particolarmente invasivo. Se mi si chiede se oggi c'è il rischio di un nuovo Leviatano in questa seconda accezione del termine, direi di sì. Certo, anche preso nel senso più neutro, cioè di Stato rappresentativo, il Leviatano è criticabile. Ad esempio Marx, nella Questione ebraica , critica lo Stato rappresentativo perché è il risultato di un'alienazione, della differenziazione tra borghese e cittadino. Lo Stato moderno è la forma universale dell'uguaglianza che serve a legittimare la disuguaglianza. Però credo che il pensiero di sinistra alla lunga si sia liberato dal pregiudizio antistatale. Da quando Marx scriveva la Questione ebraica , 1844, a oggi c'è stata una lunga riflessione. Il concetto di democrazia pluralistica è diventata un punto d'incontro per tutti coloro che sono critici dell'esistente. In questo mondo non si può fare a meno del potere, è qualcosa di inevitabile. Il nostro compito, semmai, è cercare una forma di potere capace di liberare dal dominio e non di esercitarlo. Uno Stato costituzionale di diritto che aiuti a creare una dimensione pubblica in cui determinate forme di potere non si diano.

Però a volte lo Stato rappresentativo è il contrario della partecipazione politica, spoliticizza la società. Per Hobbes, ad esempio, il potere rappresentativo non nasce dalla somma delle opinioni. E' il contrario, è il potere costituito che rende i cittadini un corpo politico collettivo. Altrimenti ci sarebbero solo individui allo stato di natura. O no?
Certo. Lo Stato nasce da una decisione. Perché ci sia sovrano rappresentativo, nel senso moderno, non è necessario il calcolo delle singole volontà o che esso sia utile. Nasce da un elemento di cesura, per de-cisione, cioè dalle rivoluzioni. Le fratture segnano un inizio e una discontinuità. Le forme della democrazia rappresentativa e costituzionale nascono da un gesto dell'immaginazione politica, soggettivistico e rivoluzionario . Questo tema parla di noi. La nostra Costituzione, ad esempio, non può essere interpretata solo in chiave kelseniana, come una descrizione di assetti di potere. Non si tiene da sola se non si legge dietro di essa un atto, una rottura, un gesto da cui nasce. Solo se si guarda alla genesi si capisce la ragione storica che ne spiega la ragione politica. Insomma ha il segno dell'antifascismo.

Lo Stato è anche la forma organizzata di un dominio sociale. Lei rivaluta la Scuola di Francoforte, l'ultima corrente filosofica che ha indagato l'ambivalenza della razionalità moderna: fattore di emancipazione, da un lato, e di controllo totalizzante, dall'altro. Adorno e Horkheimer hanno il merito di vedere in fenomeni apparentemente scollegati - dall'industria culturale alla tecnica - il dispiegarsi di un'unica razionalità di dominio. Però a forza di insistere sul carattere totale del sistema finiscono per non vedere nessun margine di manovra, nessun soggetto antagonista, nessuna speranza. Non è così?
Ci sono dei limiti intrinseci nella Scuola di Francoforte. Non si può saltare oltre la propria ombra. Gli autori francofortesi operano una metacritica del pensiero che però è tutta interna alla tradizione logocentrica dell'occidente. Un tentativo di pensare oltre il pensiero e oltre la parola ci sarà soltanto nel decostruzionismo e nel pensiero negativo. Ma con effetti in parte deludenti, sia riguardo alle forme del discorso sia su quelle della pratica. Nella prima generazione dei francofortesi invece c'era ancora l'idea che la critica del discorso fosse la critica della realtà. In questo erano veramente hegeliani. Mi sono sempre interessati perché mi paiono l'ultima voce della grande filosofia e della tradizione tedesca. Quando la filosofia pensava ancora che, parlando di filosofia, si parlasse davvero del mondo. Questo portava alla dimensione della totalità, all' empasse , certo, alla teorizzazione del silenzio. Però dentro alla critica alla mediazione e al sistema Adorno pensa anche a un particolare che si dia nell'immediatezza. Ci sono echi del pensiero di Nietzsche, la mediazione che si infrange per lasciare spazio all'esserci. Chi ha un po' d'orecchio ci sente forse anche la voce di Heidegger. Per quanto Adorno lo critichi, lo spartito è quello.

Però Adorno è anche hegeliano. La dialettica per lui è il pensiero che non accetta l'immediatezza del dato. Non si arrende di fronte all'ovvietà di ciò che ci sembra scontato e cerca di smontare la pretesa del mondo così com'è a valere come oggettivo. Questo faceva della filosofia un pensiero critico potente anche nei confronti del dominio politico. O no?
Hegel non ha più grande cittadinanza. Ma questo vale anche per Marx. La società borghese e lo Stato moderno non sono fatti di immediatezze, ma di mediazioni che però si presentano come immediate, ovvie, scontate. Questa mediazione immediata ha da essere mediata, compresa nella sua genesi e nei suoi processi. E quindi criticata. Questo è il pensiero speculativo in Hegel, mentre in Marx assume la forma di pensiero critico-pratico. Significa far vedere la contraddizione. Le contraddizioni determinate qui e ora, contraddizioni di sapere, di potere, di genere e così via. Queste situazioni si presentano come naturali, ovvie, banali, date al buon senso comune. Mentre al pensiero critico si presentano come una possibilità a cui si affiancano altre possibilità. La dialettica è l'apertura della possibilità che il mondo sia diverso da come è, attraverso la contraddizione. La dialettica è quindi una lettura della contingenza, che però produce un effetto di necessità. Hegel e Marx non si accontentano di mostrare la contraddizione nel suo darsi, ma hanno sempre voluto vederci anche un ritmo. Hegel ci ha visto un sistema, Marx una finalità. Per loro non bastava stare nella contraddizione, ma dovevano seguirne la direzione, la proiezione del senso oltre la realtà così com'è. Io sostengo che il pensiero dialettico è da riprendere in mano con l'avvertenza però che non è uno strumento. La dialettica è un pensiero che ha delle coazioni interne e porta da qualche parte. E' una rappresentazione del mondo che ha la pretesa di essere il mondo. Non è come uno strumento esterno, vuole invece portare a espressione ciò che c'è dentro il mondo, il che lo rende molto difficile da adoperare e spiegare. Di sicuro è in competizione antagonistica con gli altri saperi. Le scienze sociali leggono la realtà, mentre il pensiero dialettico è la realtà. Attraverso il pensiero dialettico ne va del mondo, di quello vero, della gente, dei rapporti di produzione e di potere. Non a caso oggi c'è un ritorno d'interesse dei giovani studenti per la dialettica. E' evidente che sono insoddisfatti di un sapere soltanto utile, strumentale che non serve però a smontare la pretesa della realtà a valere come oggettiva. I movimenti giovanili si sono mossi a partire da questa intuizione, "un altro mondo è possibile". E' l'inizio della dialettica. Questo mondo è possibile in un altro modo. Ma è solo l'inizio. A parte poche centinaia di specialisti, oggi la lettura di Marx e di Hegel è impossibile.

Torniamo al potenziale di dominio che c'è nello Stato moderno. In maniera inconsueta lei vede proprio in Machiavelli il critico della ragion di stato che prevarica l'individuo. Machiavelli ha in mente un altro rapporto tra la politica e la vita umana. Quale?
Machiavelli è conflittuale. E' Hobbes che inventa lo Stato, perché inventa anche l'individuo proprietario. Machiavelli non è un individualista, non è il teorico dell'individuo proprietario. Pone la politica non nella difesa della proprietà ma nel riconoscimento conflittuale fra entità collettive. Metteva al centro ciò che in italiano moderno potremmo dire "potenziamento della volontà di vita" attraverso il conflitto reale e materiale, cioè nella più piena contingenza. Il cuore del pensiero machiavelliano non è il mostro freddo dello Stato artificiale alla Hobbes, bensì la repubblica "tumultuaria", la politica come spazio del conflitto di gruppi collettivi per il potere e non immediatamente per l'economia. La materia del contendere è l'ampliamento della capacità esistenziale di volere la vita. Questa è la politica per Machiavelli. Ha delle analogie con Spinoza, non è un accostamento peregrino. La politica per lui è un'intensificazione dell'esser uomini. Il Leviatano, invece, è la neutralizzazione dell'essere uomini. Forse il Leviatano è una maniera più saggia di vedere la politica, più utile dato che con esso parte l'economia politica. Però la grandezza di Machiavelli sta nell'aver immaginato questo potenziamento della vita umana nella collettività.