Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Le "ronde" tra comunità e società

Le "ronde" tra comunità e società

di Alessandra Colla - 13/03/2009

 

Quanto scalpore per questa storia delle ronde. E quanta confusione.
Perché quello che più mi diverte di tutta la faccenda, al di là delle proposte di legge e delle controproposte e del modo italianissimo e terribile con cui presumibilmente verrà condotta la cosa, è che l’idea delle ronde proviene da “destra” e incontra l’opposizione della “sinistra” — laddove dovrebbe essere tutto il contrario.

Partiamo da lontano. Molto lontano. Dal contratto sociale, precisamente. Ovvero dal riconoscimento del fatto che, venuto meno lo stato di natura, soltanto la creazione (e conseguente adozione) di istituzioni avrebbe salvato gli uomini dalla rovina. Di qui la celebre constatazione di Rousseau che “l’uomo nasce libero, ma è in catene ovunque”.
Ma se la formulazione più nota del contratto sociale si deve appunto a Rousseau, il concetto è ovviamente antico quanto il primo gruppo umano. Benché avversata da Platone e Aristotele, l’idea di un patto fra governati e governanti caratterizza da sempre la storia dei rapporti sociali: diversamente non si spiegherebbe perché un gruppo di individui numericamente superiore a un altro gruppo accetti di essergli subordinato. In soldoni, è intuitivo che ciò accade perché il gruppo minore per numero si rivela capace di offrire al gruppo più consistente qualcosa di cui il medesimo non può fare a meno: “le due S“, come diceva Gianfranco Miglio — sussistenza e sicurezza.
Ne deriva immediatamente l’interrogativo più dibattuto nella storia dell’indagine sui meccanismi di potere: che deve fare, come deve comportarsi il governato nel caso in cui il governante non sia più in grado di garantire le due “S”? O nel caso in cui il rapporto fra le due parti sociali assuma i contorni di un ricatto? O quando il governante si arroga ogni diritto lasciando ogni dovere al governato? La resistenza al tiranno (e perfino il ricorso al tirannicidio teorizzato espressamente da un signore colto e pacato come Giovanni di Salisbury) costituisce infatti il primo e più fondamentale diritto immediatamente connesso alla dottrina del contratto sociale: e la storia antica e medioevale è prodiga di esempi al riguardo.

Ma basta con le pedanterie, e torniamo a noi. Ovvero alla proposta di queste benedette ronde. Per analizzare la quale è di nuovo necessario fare un passo indietro, e soffermarci sulla differenza fra cittadino e suddito — pure questa oggetto di innumeri pensamenti nel corso dei secoli — ossia fra civis e subjectus. Il civis è parte integrante della civitas: senza di lui, la civitas non avrebbe ragion d’essere; si può dire che la cifra del civis è la partecipazione, vale a dire nel suo senso più stretto l’esser parte dell’organismo sociale. Il subjectus, invece, soggiace: è un ingranaggio del meccanismo sociale, e come tale è intercambiabile, sostituibile e rimovibile. È chiaro che la società, nel caso del civis, si configura come una struttura organica, come la Gemeinschaft di cui parlava Schmitt; nel caso del subjectus, si ha in vista la mera Gesellschaft. (Noto di passata che è alla Gesellschaft che si riferisce Ernst Jünger nel suo Trattato del ribelle; e che nella Teoria del Partigiano lo stesso Schmitt guarda con simpatia neppure tanto velata alla figura del combattente irregolare che si rivela alla fine l’unico difensore della nazione, sinceramente legato alla terra e al popolo, legittimandone quindi l’azione chiaramente rivolta non già contro un’inesistente Gemeinschaft, bensì contro una Gesellschaft onnipervadente e impersonale. Altre storie…).

In quest’ottica, non c’è bisogno di aver studiato tanto per capire che il concetto di partecipazione si attaglia assai bene all’idea di comunità, mentre quello di soggiacenza è la linfa vitale di ogni dittatura. Nella prima, il cittadino è responsabile di se stesso in primis e poi degli altri nonché della città, in vista del bene comune; nella seconda, il suddito delega allo Stato ogni ambito del suo esistere, dalla culla alla tomba, e si cura soltanto del suo particulare inteso come pura e semplice sopravvivenza, per garantirsi la quale il suddito non indietreggia neppure di fronte alla delazione (pensiamo al socialismo reale così come inveratosi nell’Unione Sovietica, nella Cina di Mao o nella Cambogia di Pol Pot, che avevano fatto proprio della delazione uno dei cardini della struttura sociale e politica; ma pensiamo anche al fascismo e al nazionalsocialismo, per non scontentare nessuno).

Il fatto che noi — si dice — viviamo in democrazia, e che questa democrazia modernamente intesa si fondi sull’istituto della delega elettorale e della rappresentatività parlamentare ingenera sicuramente più di una perplessità. Prendiamo il fenomeno del volontariato, per esempio: che in Italia conosce una discreta fortuna in campo sanitario, culturale, ecologico, sociale etc. Possiamo intenderlo come partecipazione nel senso più alto del termine? O non dobbiamo piuttosto vedervi un escamotage della nostra democrazia dittatoriale per darci ad intendere che siamo “liberi” e ovviare così alle sue incolmabili carenze strutturali? Notiamo anche che il volontarismo è generalmente assai apprezzato a “sinistra” e al “centro”, mentre la “destra” sembra accostarvisi soltanto ora e un po’ timidamente (del resto le “ronde”, in Italia, finora sono state solo quelle antifasciste, e i “tribunali del popolo” nascono con la Rivoluzione francese).

Ora, anche le ronde di cui si parla adesso si collocherebbero in questa dimensione volontaristica: e io personalmente troverei assai formativo che i cittadini si riappropriassero delle loro migliori prerogative e riscoprissero il valore della responsabilità verso di sé e verso il bene comune. Ne deriverebbe, immagino, non l’eliminazione della delinquenza grande e piccola, ma il ricacciarne le epifanie fuori dalle città restituendo ai cittadini il possesso e la frequentazione delle stesse, di giorno e di notte, da soli o in compagnia, unitamente ad una ritrovata serenità sapendosi al sicuro tra le mura domestiche, a scuola, per strada — tutte cose di cui da anni, ormai, abbiamo dimenticato il sapore.

È chiaro che per arrivare a questo occorrerebbe una nuova maturità e una riconquistata consapevolezza di sé, della propria terra e della propria civiltà; come è chiaro che a scoraggiare i malintenzionati spesso potrebbe bastare la sola presenza di cittadini ben saldi nell’assunzione di un ruolo che non sarebbe in nessun caso quello di pistoleri della domenica, bensì di custodi attenti e leali del bene comune e di tutto ciò che fa “nazione” — persone, fauna, flora, beni, patrimonio culturale etc.

Non credo che sarebbe impossibile arrivare a questo concetto di “ronda”: perché non credo che sia del tutto morta la memoria di un diverso concetto di Stato e di Popolo. Una memoria, questa sì, da recuperare e attualizzare in vista del bene più immediato che possiamo auspicare — la nostra dignità e il nostro futuro.