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Friedrich Hölderlin

di Wilhelm Waiblinger - 13/03/2009

  
99 pp., Adelphi, euro 10

E’ imbarazzante provare ancora commozione, rimpianto per un tempo in cui i poeti erano venerati. Si ha paura di essere vittime di un sentimentalismo  lacrimoso e insieme della retorica con cui ci veniva insegnato il Romanticismo al ginnasio. Gli ingredienti ci sono tutti: la tragica storia di Hölderlin, il poeta sublime diventato pazzo, raccontata da Waiblingen, un adolescente che a diciannove anni abbandona tutto per dedicarsi al maestro e che, dopo averlo lasciato, morirà a Roma alcolizzato, disperato. Il giovane sperava di confortare il poeta, di raccogliere le sue confidenze, di sentirgli declamare versi, di essere contagiato dal suo genio e di salvarsi dal mondo e dalla sua insicurezza esistenziale. Invece la mente di Hölderlin è completamente offuscata, non ricorda nulla, non riconosce nessuno, neppure i vecchi amici, neppure lui che lo segue come un’ombra per anni.
Il poeta diventa il suo doppio angoscioso, è proprio la sua straordinaria sensibilità, il suo bisogno di assoluto che lo avevano portato a un destino tragico di isolamento e follia. Quasi per trovare conforto e giustificazione a quella devozione inutile, Waiblingen torna indietro, agli anni felici di Hölderlin:  la nascita a Nürtingen in Svevia nel 1770, l’infanzia felice, circondato dalla tenerezza e dall’affetto della madre, i giochi, l’amore per la poesia e per la natura. “Tutta la sua anima era legata alla Grecia”. Dallo struggimento per quel mondo pieno di armonia e dal disgusto per le miserie contemporanee nasce la sua poesia. In breve la fama si diffonde, il popolo tedesco ama in lui il suo Pindaro. E’ forse la perfezione dei suoi versi a suscitare l’invidia del mondo accademico, che, nonostante l’appoggio di Hegel e Schiller, gli rifiuta qualsiasi incarico ufficiale. Amareggiato e deluso, Friedrich per mantenersi diventa precettore presso una ricca famiglia di Francoforte. Come ne “Il Rosso e il Nero”, si innamora della madre dei suoi allievi. La passione travolge e rovina i due amanti. Da questa tragedia nasce l’“Hyperion”, il poema cui resterà legato il suo nome. “Questa raccolta di liriche è una malattia profonda e insanabile, che perfino dalla bellezza distilla una materia di morte, una lotta innaturale contro il fato, un idealismo ferito, una nera malinconia e una stoltezza nefasta”. Comincia a vagare di paese in paese, odia il mondo che non ha riconosciuto il suo genio, le sue ire si fanno più violente. Viene ricoverato in manicomio a Tubinga e passerà gli ultimi vent’anni nella casa di un falegname in un villaggio di montagna, dove appunto lo incontrerà Waiblinger.