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Lo stato terroristico della Volontà Generale nel pensiero politico di Jean-Jacques Rousseau

di Francesco Lamendola - 14/03/2009

 


Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) parte dalla ferma convinzione che «tutto è bene uscendo dalle mani dell'Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell'uomo», la quale lo porta a spostare il problema del male - che rimase sempre il suo problema fondamentale - dal campo dell'ontologia a quello della politica.
L'uomo è stato creato «buono»: perciò, esclusa la possibilità di ricondurlo allo stato di innocenza originaria, Rousseau individua nel progresso la causa della sua degenerazione e si mette alla ricerca di una riforma politica capace di arrestare un tale processo e di riportare alla luce quel fondo originario di bontà che appartiene alla sua natura.
Conducendo l'uomo fuori dal suo stato primitivo di felice innocenza, le scienze e le arti - frutto di orgoglio e di vana curiosità - hanno corrotto l'anima umana in maniera tanto più grave, quanto più esse sono progredite verso la perfezione. Di conseguenza, tutto il processo di incivilimento si risolve - per il ginevrino - in un allontanamento dallo stato di natura e in uno sprofondarsi dell'uomo nei suoi vizi più esecrandi.
Tale è l'originale e pessimistica conclusione del suo «Discorso sulle scienze e sulle arti» (1750), con il quale Rousseau esordisce nell'agone filosofico illuminista, partecipando al bando di concorso dell'Accademia di Digione  sul tema «Se il ristabilimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a purificare i costumi».
Ma come è potuto avvenire - egli si domanda - che l'umanità, buona in origine,  sia degenerata fino allo stato presente, precipitando dallo stato di natura a quello sociale, caratterizzato dall'ingiustizia e dalla corruzione?
Nel «Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini» (1754) egli tenta di rispondere alla domanda, sostenendo che nello stato di natura non esisteva la proprietà privata, quindi non esistevano né la disuguaglianza, né la sopraffazione dei forti a danno dei deboli. Paradossalmente, sono state proprio le tecniche mediante le quali gli uomini si sono avviati verso l'incivilimento - l'agricoltura, la metallurgia, la divisione del lavoro, ecc. - a distruggere la libertà naturale, dando vita alla legge della proprietà e a tutte le istituzioni - come la magistratura ed il potere politico arbitrario - che hanno stabilito definitivamente la disuguaglianza  e creato la divisione fra ricchi e poveri, fra padroni e schiavi.
Peraltro, Rousseau ammette esplicitamente che il tanto decantato «stato di natura» non è che una ipotesi necessaria come termine di paragone con lo stato presente; ma, probabilmente, corrisponde a uno stato che non è mai esistito e che, forse, non esisterà mai. Egli non sembra rendersi conto che una tale ammissione inficia alle fondamenta tutta la sua concezione politica, dal momento che riduce la pietra angolare di essa ad una semplice finzione retorica, creata al solo scopo di dare una base alla sua critica dell'idea di progresso.
Non si deve pensare, peraltro - come sembrano aver fatto tutti gli svariati cultori del mito del «buon selvaggio» - da Bernardin de Saint-Pierre con il suo «Paul et Virginie», a François-René de Chateaubriand con il celeberrimo «Atala», e poi su su, fino (secondo il sociologo Carlos Rangel) ai movimenti rivoluzionari latino-americani: i Barbudos cuban, i Tupamaros dell'Urugay, i guerriglieri peruviani di «Sendero luminoso» - che l'età di natura corrisponda all'età patriarcale cui erano fermi, all'epoca di Rousseau, i cosiddetti selvaggi.
No, l'età patriarcale rappresenta già un'epoca intermedia tra lo stato di natura e lo stato civilizzato: essa segna, per così dire, la giovinezza del mondo, ma procede inarrestabilmente verso il progresso che, perfezionando l'individuo, ha rovinato la specie umana.
Né il ginevrino è in grado di spiegare come mai tanti popoli siano rimasti apparentemente fermi a quello stadio di sviluppo, mentre l'umanità occidentale, portando al culmine la perfezione della scienza e della tecnica, si sia spinta molto più avanti sulla via dell'incivilimento e del vizio. Dato il carattere ipotetico e fittizio della premessa (la bontà originaria nello stato di natura), un tale problema sarebbe stato ben difficilmente risolvibile in termini storici.
Del resto, come abbiamo detto, per Rousseau è impensabile un ritorno dell'uomo verso lo stato di natura: a lui non è dato ripercorrere all'indietro le vie del progresso, per ristabilire lo stato di felicità originaria. Non resta, pertanto, che battere la via della fondazione di una nuova società, il cui scopo dichiarato sia il ristabilimento - mediante il diritto - della perduta uguaglianza naturale fra gli uomini,   e, con essa, anche della libertà, conculcata dall'ingiustizia e dalla sopraffazione.
Ecco, dunque, delineato lo scopo de «Il contratto sociale», la sua opera maggiore e più famosa (pubblicato nel 1762, l'anno stesso in cui appare la sua maggiore opera pedagogica: l'«Emilio»), nonché quella che ha ispirato tutto il pensiero e tutta l'azione politica di Robespierre (nella casa del falegname Duplay, ove l'Incorruttibile abitava fino alla caduta del 9 Termidoro 1794, pare che Rousseau fosse l'unico autore presente nella sua biblioteca, oltre a una gran mole di scritti dello stesso Robespierre). E già quest'ultima circostanza dovrebbe farci avvertiti che quest'opera ha avuto una risonanza tale, che sarebbe difficile sopravvalutarne l'importanza per la successiva storia dell'Europa e del mondo.
Ne «Il contratto sociale», Rousseau, pertanto, pone in questi termini il problema fondamentale della politica: trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato; e  mediante la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e rimanga libero come prima.
Per prima cosa, egli sbarazza il campo da quelle teorie politiche le quali - come quella di Hobbes -propongono, sì, un patto sociale, ma basandolo sulla soggezione di una delle due parti, e mettendo ogni potere nelle mani dell'altra. I diritti naturali, a cominciare da quello della libertà, non possono essere alienati: altrimenti il patto automaticamente si annulla. In altri termini, non basta il mutuo consenso per stabilire la validità di un patto: è necessario che esso abbia per scopo la garanzia della libertà.
Rousseau chiarisce che non si tratta di ristabilire o di riconquistare la libertà naturale, ossia quella dell'uomo allo stato di natura, allorché le volontà dei singoli individui - non esistendo la proprietà privata - non avevano occasione di entrare in confitto tra di loro.  Quel tipo di libertà naturale è andata smarrita per sempre, dal momento in cui gli uomini, uscendo dal reciproco isolamento, hanno stabilito i primi rapporti sociali e, con essi, hanno creato anche i loro inevitabili corollari, la disuguaglianza e l'ingiustizia.
Per sopravvivere alle nefaste conseguenze del disfacimento dello stato di natura, gli uomini istituiscono tra loro un patto sociale, nel quale tutti decidono di sottomettersi non ad un singolo individuo, ma alla volontà generale. Ciò significa che i rapporti individuali dell'uomo con i propri simili vengono sostituiti e, per così dire, assorbiti, dalla relazione fondamentale dell'uomo con la legge, espressione della volontà generale. Ma, a questo punto, l'uomo è diventato essenzialmente un cittadino, ossia un individuo che liberamente decide di sottomettersi alla legge che, coi suoi simili, ha determinato.
Come dice lo steso Rousseau, il contratto sociale  nasce dall'atto con cui le singole persone si mettono in comune, sotto la suprema direzione della volontà generale; e in cui ciascun membro  viene a far parte indivisibile del tutto. Ciò che viene a prodursi in tal modo è un corpo morale collettivo, composto di tanti membri, quanti sono i voti dell'assemblea.
Nasce così lo Stato, ente morale collettivo che non coincide con la somma aritmetica degli individui o dalla somma delle loro volontà; le leggi che esso emana, sono espressone della volontà generale e acquistano validità  che impegnano tutti i cittadini alle medesime condizioni,  e garantiscono il godimento dei medesimi diritti.
È in questo modo che la volontà generale svolge la duplice funzione di garantire la libertà di ciascuno e di ristabilire, mediante il diritto, quella uguaglianza naturale fra gli uomini, che era andata persa allorché era nata la proprietà privata.
La libertà, pertanto, coincide con la sottomissione al patto liberamente stabilito: patto nel quale gli uomini possono esplicare e realizzare, mediante l'intelligenza e il sentimento, quelle potenzialità che, allo stato di natura, erano destinate a rimanere inespresse. La morale e la ragione si realizzano solo nella società; l'uomo allo stato di natura è ancora un uomo selvaggio e, se pure innocente, è tuttavia incapace di elevarsi al livello di una vita secondo ragione.
Pertanto, l'uomo inserito nella società è, egli solo, suscettibile di perfezionamento: un'idea, quest'ultima, che non va molto d'accordo con la concezione negativa del progresso esposta nelle opere precedenti; ma che, tuttavia, si può comprendere, ammettendo il carattere paradossale della civilizzazione, così come la concepisce Rousseau: da un lato come un progressivo degrado e una perdita di virtù e d'innocenza; dall'altro, come la condizione che rende possibile la piena realizzazione dell'umanità nell'uomo, illuministicamente vista soprattutto come il prodotto della ragione.
Verremo accusati di eccessiva disinvoltura se accosteremo questa ambivalente concezione della civiltà a quella di Freud, secondo il quale essa rende possibili le manifestazioni superiori della vita umana, reprimendo i bassi istinti primordiali, ma al terribile prezzo di una frustrazione permanente della nostra parte più profonda e, forse, più vera, origine dell'infelicità dell'uomo moderno e di tutte le sue innumerevoli nevrosi? Sia come sia, l'analogia sussiste, e non è necessario sforzarsi poi tanto per vederla e per valutarne la portata.
Rousseau, comunque, pur ribadendo il carattere inalienabile  della sovranità e pur insistendo  sulla libertà e sull'uguaglianza che si realizzano nella società mediante il patto sociale, non esita a porre come assoluto il carattere della sovranità stessa, il che spiega come egli possa essere stato considerato sia come il padre della democrazia (o, addirittura, ma molto alla lontana, del socialismo), sia dell'assolutismo.
In effetti, Rousseau è talmente convinto che la volontà comune, per stabilirsi, necessiti di un sostegno che non deriva solo dalla ragione, da ritenere che le sia indispensabile l'apporto delle energie morali che solo una vera e propria religione civile è in grado di sprigionare: di una religione, cioè, la quale riceva dal corpo sovrano gli articoli essenziali, come norme i sociabilità,  senza le quali non si dà l'esistenza di un buon cittadino.
Rousseau distingue tre tipi fondamentali di religione, in rapporto alla società (ossia da un punto di vista politico): la religione dell'uomo, del cittadino e del prete.
La religione dell'uomo non ha bisogno né di templi, né di altari, né di riti: si svolge nel cuore dell'uomo e consiste in un puro culto rivolto a Dio. Tale, a suo giudizio, è il cristianesimo, ma non quello storicamente esistente al suo tempo, bensì - com'egli dice -  «quello del Vangelo», senza mai prendersi la briga di spiegare meglio questo espressione. L'impressione che se ne ricava (tanto più che egli si prende a mala pena la briga di nominare Gesù Cristo, quasi che il «cristianesimo del Vangelo» potesse astrarre dalla sua figura) è che, per codesta «religione del Vangelo», valga lo steso tipo di finzione retorica che sta alla base del concetto di «stato di natura»: che la si debba intendere, cioè, non in senso propriamente storico, ma bensì in senso meta-storico e, forse, immaginario.
La religione del cittadino è quella che si esprime mediante un apparato esteriore di dogmi, di riti e di prescrizioni, all'interno di una comunità nazionale, e che guarda con disprezzo e con avversione a tutte le religioni degli altri popoli, ritenendo che solo la propria sia vera e che solo mediante la propria si possa ottenere la salvezza.
La religione del prete - la più bizzarra e la peggiore delle tre - è quella risultante da una sovrapposizione di due legislazioni, due capi e due patrie: quella terrena e quella celeste, talvolta in opposizione reciproca, mai in autentico accordo. Il «cristianesimo romano» (come lo chiama Rousseau) appartiene a questo tipo inferiore: un tipo così evidentemente negativo, che - dice il ginevrino - non vale neanche la pena di prendersi il gusto di dimostrarlo. Esso, infatti,  produce l'effetto di rompere l'unità sociale; e tutto ciò che rompe l'unità sociale - egli afferma  testualmente - «non vale nulla».
A ciò si potrebbe obiettare, tuttavia, che il cristianesimo romano dura ormai da duemila anni, e già da due secoli e mezzo continua a sopravvivere alle parole del «Contratto sociale» che suonano per esso come una profezia di morte; mentre il culto dell'Essere Supremo, instaurato da Robespierre per dare vita a una religione civile sul tipo di quella predicata da Rousseau, non è durato più di qualche mese; e, anzi, molti storici vedono in esso la causa occasionale della caduta dell'Incorruttibile (cfr. il nostro precedente articolo «Robespierre aspettava la morte senza mai distogliere lo sguardo da Dio», consultabile sempre suo sito di Arianna Editrice).
Tuttavia, considerati sotto il punto di vista politico, anche i primi due tipi presentano degli inconvenienti.
Il difetto più grave del primo tipo è che, non possedendo alcuna relazione organica con il sistema politico, esso lascia alle leggi solo la forza che esse possono darsi da se stesse, senza dar loro quella spinta ulteriore di cui avrebbero bisogno per radicarsi nel profondo dell'anima. Una tale religione, pertanto, è per sua natura contraria allo spirito sociale: addita agli uomini una patria che non è di questo mondo, ma che è altrove, in un'altra vita.
La religione del secondo tipo, poi, è cattiva perché «si fonda sull'errore e sulla menzogna» e, pur producendo dei cittadini così rispettosi delle leggi , da vedere in esse qualche cosa di sacro, li rende però «creduli e superstiziosi»; inoltre, li pone in uno stato di guerra permanente con i membri delle altre comunità, il che è estremamente pericoloso anche per la loro nazione.
Rousseau, poi, si sofferma in modo particolare a soppesare pregi e difetti del primo tipo di religione, che egli equipara, puramente e semplicemente, al cristianesimo del Vangelo. I pregi sono riconducibili al messaggio di fratellanza ad esso connaturato, in quanto proclama che tutti gli uomini sono figli del medesimo Dio. I difetti sono quelli sopra accennati, e si possono riassumere nella formula che un buon cristiano è, sì, un cittadino rispettoso delle leggi, ma assolutamente privo di entusiasmo per la difesa della propria comunità, dato che egli non identifica con essa la sua vera patria, né il suo autentico destino.
Si tratta di una parte interessante, perché mostra bene le caratteristiche del particolare modo di argomentare di Rousseau; un modo che ha poco di filosofico nel senso rigoroso del termine, ma molto del «philosophe»: brillante, vivace, arguto, mai profondo e meno ancora criticamente argomentato.
Ma la parte più significativa dell'ultimo capitolo del «Contratto sociale» è quella propriamente dedicata alla religione civile, nella quale Rousseau postula la necessità, per la società, di dotarsi di una fede  puramente civile, strumento necessario per rafforzare il patto sociale e il senso di comune appartenenza ad una sfera di valori condivisi, senza i quali non si danno - egli afferma - né buoni cittadini, né sudditi fedeli.
È significativo il fatto che il mite ginevrino, amante della natura e delle passeggiate solitarie, sostenga che nessuno può essere obbligato a credere nei dogmi di una tale religione civile; ma che è legittimo bandire dallo Stato chi non vi crede, e anche condannare a morte chi affermi di credervi, ma poi si comporti come se non vi prestasse fede. Quest'ultimo, infatti, avrà commesso il più grave dei reati: quello di mentire davanti alla legge.
Altro che precursore dell'assolutismo: qui Rousseau ci si mostra in tutta la sua dimensione di lucido profeta del totalitarismo più spietato e conseguente, quale - forse - nemmeno Hitler e Stalin hanno osato immaginare.
Ci piace, a questo punto, riportare direttamente il passo in questione de «Il contratto sociale», contenuto nella sezione ottava del libro quarto (traduzione italiana di Gianluigi Barni, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1995, pp. 187-94):

«La religione, considerata in rapporto alla società, che è o generale o particolare, può pure essere divisa in due specie, cioè la religione dell’uomo e quella del cittadino. La prima senza templi, senza altari, senza riti, limitata al puro culto interiore del Dio supremo e ai doveri terni della morale è la pura e semplice religione del Vangelo,  il vero teismo e ciò che si può chiamare il diritto divino naturale. L’altra, limitata a un solo paese, gli fornisce i suoi dei, i suoi patroni particolari e tutelari; questa religione ha i suoi dogmi, i suoi riti,  il suo culto esteriore prescritto da leggi: tolta la sola nazione che la segue, tutte le altre sono per lei infedeli,  straniere, barbare; essa non stende i doveri e i dritti dell’uomo più lontano de suoi altari. Tali furono tutte le religioni primitive alle quali si può dare il nome di diritto divino civile o positivo.
Vi è un terzo tipo di religione, più bizzarra, che dando agli uomini due legislazioni, due capi, due patrie, li sottomette a dover contraddittori ed impedisce loro di essere in un sol tempo devoti e cittadini. Tale è la religione dei lama, tale quella dei giapponesi, tale il cristianesimo romano. Si può chiamare questa la religione del prete. Ne risulta una specie di diritto misto e non corrispondente alla società, dritto che non ha nome.
Volendo considerare questi tre tipi di religione da un punto di vista politico, tutte hanno i loro difetti. La terza è così evidentemente cattiva, che sarebbe una perdita d tempo divertirsi a dimostrarlo. Tutto ciò che rompe l’unità sociale non vale nulla:  tutte le istituzioni che mettono l’uomo in contraddizione con se stesso non valgono nulla.
La seconda è buona per il fatto che riunisce il culto divino e l’amore delle leggi e perché, rendendo la patria l’oggetto dell’adorazione dei cittadini, insegna loro che servire lo stato vuol dire servire il dio tutelare. È una specie di teocrazia, nella quale non s deve avere altro pontefice che il principe, né altri preti che  magistrati. In tal caso, morire per  il proprio paese significa andare al martirio; violare le leggi è essere empio e sottoporre un colpevole alla pubblica esecrazione vuol dire  dedicarlo allo sdegno degli dei: “sacer esto”.
Ma questa religione è cattiva perché, essendo fondata sull’errore e sulla menzogna,  inganna gli uomini, li rende creduli, superstiziosi e sommerge il vero culto della divinità in un vano cerimoniale. È ancor più cattiva quando, diventando esclusiva e tirannica, rende un popolo sanguinario  e intollerante, d modo che questo non agogna che assassinio e massacro e crede di fare un’opera santa  uccidendo chiunque non ammetta i suoi de. Ciò pone un tal popolo in uno stato naturale di guerra con tutti gli altri, assai nocivo alla sua stessa scurezza.
Resta dunque la religione dell’uomo o il cristianesimo, non quello di oggi, ma quello del Vangelo, che ne è del tutto differente. Attraverso questa religione,  santa, sublime, vera, gli uomini, figli dello stesso Dio, si riconoscono tutti per fratelli e la società che li unisce non s scioglie neppure con la morte. Ma questa religione, non avendo alcuna relazione particolare col corpo politico,  lascia alle leggi la sola forza che esse possono ricavare da se stesse  senza aggiungervene altra e da ciò deriva che uno de grandi legami della società particolare resta senza effetto. Anzi, in luogo di legare i cuori dei cittadini allo stato, essa li allontana come da ogni cosa della terra. Non conosco nulla di più contrario allo spirito sociale.
Ci si dice che un popolo d veri cristiani formerebbe la più perfetta società che si possa immaginare. Non vedo in questa ipotesi che una grave difficoltà ed è che una società di veri cristiani non sarebbe più una società di uomini.
Dico di più che questa supposta società non sarebbe, con tutta la sua perfezione, né la più forte, né la più durevole: a forza di essere perfetta mancherebbe d ogni legame, il suo vizio distruttore sarebbe nella sua stessa perfezione.
Ciascuno compirebbe il proprio dovere: i popoli sarebbero sottomessi  alle leggi, i capi sarebbero  giusti e moderati,  i magistrati integri ed incorruttibili, i soldati disprezzerebbero la morte; non vi  sarebbe né vanità né lusso: tutte cose bellissime, ma guardiamo un po’ più lontano.
Il cristianesimo è una religione completamente spirituale, diretta unicamente alle cose del cielo: la paura del cristiano non è d questo mondo. Egli fa il suo dovere, ma lo fa con una profonda indifferenza circa il buono o il cattivo esito  dei suoi sforzi. Purché non  v sa nulla da rimproverarsi, poco gli importa che tutto vada bene o male quaggiù.  Se lo stato è fiorente, a mala pena egli osa gioire della pubblica felicità, temendo di inorgoglirsi della gloria del suo popolo;  se lo stato deperisce, benedice la mano di Dio che grava sul suo popolo.
Perché una tale società fosse pacifica e vi si mantenesse l’armonia,, bisognerebbe che tutti i cittadini, senza eccezione,  fossero ugualmente buoni cristiani; ma se per disgrazia vi si trova un solo ambizioso, un solo ipocrita, un Catilina, per esempio, un Cromwell, questi certamente avrà buon gioco rispetto ai suoi pii compatrioti.  La carità cristiana non permette facilmente di pensar male  del prossimo. Dal momento che egli avrà trovato con qualche trucco l’arte dei imporsi a loro e di impadronirsi di una parte dell’autorità pubblica, ecco un uomo costituito in dignità; Dio vuole che lo si rispetti: ben presto ecco un potere;  Dio vuole che gli si obbedisca. Il depositario di questo potere ne abusa: è il bastone con cui Dio punisce i suoi figli. Scacciare l’usurpatore diverrebbe un caso di coscienza; bisognerebbe turbare la pubblica quiete, usare la violenza, versare del sangue: tutto ciò  mal si accorda con la dolcezza del cristiano, e, dopo tutto, che cosa importa l’essere liberi o servi in questa valle di miseria? L’essenziale è andare in Paradiso e la rassegnazione non è altro che un mezzo d più per giungere a ciò.
Capita qualche guerra straniera:  i cittadini marciano senza fatica al combattimento; nessuno tra loro pensa a fuggire, fanno il loro dovere, ma senza passione per la vittoria: sanno piuttosto morire che vincere.  Che essi siano vincitori o vinti, che cosa importa? La Provvidenza non sa meglio di loro ciò di cui essi abbisognano?  Si pensi qual vantaggio possa trarre da questo loro stoicismo un nemico fiero, impetuoso, appassionato. Mettete faccia a faccia a essi quei popoli generosi che erano divorati dall’ardente amore della gloria e della patria, immaginate la vostra repubblica cristiana di fronte a Sparta o a Roma: i pii cristiani saranno battuti, schiacciati, distrutti prima di aver avuto il tempo d riprendersi, o dovranno la loro salvezza solo al disprezzo che il nemico concepirà per loro. Fu, a mio giudizio, un bel giuramento quello dei soldati di Fabio: essi non giurarono di morire o di vincere, giurarono di tornare vincitori e mantennero il loro giuramento; mai i cristiani ne avrebbero fatto uno simile: avrebbero pensato di tentare Dio.
Ma io mi sbaglio parlando d una repubblica cristiana: ciascuno di questi termini esclude l’altro. Il cristianesimo non predica che servitù e dipendenza. Il suo spirito è troppo favorevole alla tirannia, perché questa non ne approfitti sempre. I veri cristiani  son fatti per essere schiavi: essi lo sanno e non se ne preoccupano troppo; questa corta vita ha troppo poco valore ai loro occhi.
Le truppe cristiane sono eccellenti, ci si dice. Lo nego. Mi si mostrino tali truppe. Per quanto mi riguarda, non conosco truppe cristiane. Mi si citeranno le crociate. Senza disputare sul valore delle crociate, io farei notare che, lungi dall’essere dei castani,  quei crociati erano soldati del prete, erano de cittadini della chiesa: s battevano per  il suo paese spirituale, che essa aveva reso temporale, non si sa come. A ben guardare, tutto ciò rientra  nel paganesimo; dato che il Vangelo non stabilisce una religione nazionale, ogni guerra sacra è impossibile tra cristiani.
Sotto gli imperator pagani i soldati cristiani erano valorosi; tutti gli autor cristiani lo assicurano e io vi credo: era evidentemente una onorevole emulazione in rapporto alle truppe pagane.  Da quando gli imperatori furono cristiani questa emulazione non vi fu più, e quando la croce ebbe cacciato l’aquila tutto il valore romano scomparve.
Ma, lasciando da parte le considerazioni politiche, torniamo al diritto e fissiamo i principi su questo punto importante. Il diritto che il patto sociale dà al corpo sovrano sui sudditi non oltrepassa, come ho detto, i confini dell’utilità pubblica. I sudditi non debbono render conto al corpo sovrano delle loro opinioni, se non in quanto tali opinioni abbiano importanza per la comunità. Ora, è senza dubbio importante per lo stato che ogni cittadino abbia una religione che gli faccia amare i suoi doveri, ma i dogmi di questa religione non interessano né lo stato, né i suoi membri, se non in quanto tali dogmi si riferiscono alla morale e ai doveri che colui che la professa è tenuto ad adempiere riguardo agli altri. Ciascuno può avere, anzi, tutte quelle opinioni che gli piacciono, senza che spetti al corpo sovrano di occuparsene. Perchè, dato che esso non ha alcuna competenza sull’altro mondo, qualsiasi sa la sorte dei sudditi nella vita futura, questo non è un suo problema, a condizione che tali sudditi siano dei buoni cittadini in questa.
Vi è dunque una professione di fede puramente civile, di cui spetta al corpo sovrano il fissare gli articoli, non precisamente come dogmi di religione,  ma come sentimenti di sciabilità, senza dei  quali è impossibile essere né buon cittadino  né suddito fedele.
Senza poter obbligare nessuno a credere in essi, si può bandire dallo stato chiunque  non vi creda; si può bandirlo, non come empio, ma come essere non sociale, come incapace di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e di sacrificare, in caso di bisogno, la sua vita al suo dovere.  Che se poi qualcuno, dopo aver pubblicamente riconosciuto questi dogmi, si condurrà come se non vi credesse, sia condannato a morte: ha commesso il più grande dei reati, ha mentito davanti alle leggi.
I dogmi della religione civile debbono essere semplici, in piccolo numero, enunciati con precisione, senza spiegazioni né commenti. L’esistenza della divinità possente, intelligente, benefica, previdente e provvidente, la vita futura, la felicità dei giusti, la punizione de cattivi, la santità del contratto sociale e delle leggi, ecco i dogmi positivi. Quanto ai dogmi negativi, io li limito a uno solo ed è l’intolleranza: questa rientra nei culti che noi abbiamo escluso.
Coloro che distinguono l’intolleranza civile dall’intolleranza teologica, a mio parere, si sbagliano. Queste due intolleranze sono inseparabili. È impossibile vivere in pace con delle persone che s ritengono dannate:  amarle sarebbe odiare Dio che le punisce; bisogna assolutamente riconvertirle o sottoporle a tormenti.  In ogni luogo in cui è ammessa l’intolleranza religiosa è impossibile che non ne derivi qualche effetto civile e, appena questi si verificano, il corpo sovrano non è più sovrano neppure nel campo temporale: da quel momento i preti sono  veri padroni: i re non sono che i loro ufficiali.
Nei tempi presenti ne quali non vi è più e non vi può essere una religione nazionale esclusiva, si  devono tollerare tutte quelle che tollerano le altre, fin quando i loro dogmi non hanno nulla in contrario ai doveri de cittadini.  Ma chiunque osi dire: “Fuori della chiesa non esiste salvezza” deve essere cacciato dallo stato, salvo che lo stato  non sia la Chiesa e che il principe  non sia il pontefice. Un tale dogma  è buono in un governo teocratico; in ogni altro è dannoso.  La ragione secondo cui s raccontò che Enrico IV avrebbe abbracciato la religione romana avrebbe dovuto farla abbandonare a ogni uomo onesto e soprattutto a ogni principe che sapesse ragionare.»

Dicevamo che la raccapricciante proposta di mettere a morte colui che violi la religione civile dopo averla formalmente accettata, e di cacciare in esilio colui che non la voglia accogliere, costituisce  l'aspetto più inquietante di questo filosofo falsamente mite e benevolo, roso, in realtà - come tutti gli illuministi, del resto, Voltaire in testa - da un rancore profondo, da un astio implacabile e feroce contro chiunque osi fare resistenza al paradiso in terra che codesti campioni della pubblica felicità hanno inteso presentarci nei loro «pamphlets» e nei loro trattati - tutti, beninteso, pervasi da un sacro sdegno nei confronti dell'intolleranza… altrui.
Non è tuttavia su questo aspetto che desideriamo soffermarci, per quanto ci sembra che esso dovrebbe far riflettere quanti tendono a sottovalutare la conseguenze pratiche che possono essere tratte - e che, di fatto, sovente vengono tratte - da certi enunciati politici di carattere teorico e, perciò, apparentemente innocui.
Vorremmo, invece, soffermarci - prima di concludere - su un altro aspetto del pensiero politico di Rousseau, di carattere molto più generale: e cioè sulla sua convinzione che le relazioni individuali degli uomini fra di loro vengono ad essere sostituite e, per così dire, assorbite dalla relazione fondamentale dell'uomo con la legge, espressione della volontà generale; e che, di conseguenza, l'uomo finisce per diventare essenzialmente un cittadino, ossia un individuo che liberamente decide di sottomettersi alla legge.
Rousseau, infatti, aveva affermato che il processo di incivilimento dell'uomo, portandolo fuori dallo stato di natura, ha distrutto la libertà naturale, dando vita alla legge della proprietà e a tutte le istituzioni - come la magistratura ed il potere politico arbitrario - che hanno stabilito definitivamente la disuguaglianza  e creato la divisione fra ricchi e poveri, fra padroni e schiavi.
Ora, egli sostiene che proprio mediante la legge diviene possibile ristabilire lo stato di felicità originaria,  fondando una nuova società, il cui scopo dichiarato sia il ristabilimento - mediante il diritto - della perduta uguaglianza naturale fra gli uomini.
Dunque, esiste una legge che non nasce dalla volontà di sopraffazione, ma dal libero consenso dei cittadini. E tuttavia, non possiamo fare a meno di chiederci: se l'uomo che si allontana dallo stato di natura ed entra nel mondo della civiltà cade schiavo dei suoi istinti egoistici e antisociali, per mezzo di quale miracolo riuscirà a spogliarsi di essi e a creare il regno della giustizia in terra, dove tutti siano liberi e tutti siano, al tempo stesso, obbedienti? E per quale ulteriore miracolo riuscirà a farlo mediante la legge, la quale, in origine, era l'espressione dell'ingiustizia e della sopraffazione dell'uomo ai danni del proprio simile?
Si direbbe che Rousseau, a questo punto, imbocchi una sorta di pericolosa scorciatoia verso il regno della giustizia e della libertà: una scorciatoia, per dirla con un linguaggio da economisti, a «costo zero».
Che altro è, infatti, la sua proposta di un patto sociale che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e mediante il quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima, se non una modalità di produzione a costo zero o, peggio, una formula retorica priva di serio contenuto?
Come è possibile che, nel patto sociale, «ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima» (sono le parole precise di Rousseau), a meno che si tratti di una formula magica da strapazzo, di un «abracadabra» da prestigiatore di terz'ordine, dal momento che la libertà, in una simile prospettiva, finisce per coincidere in maniera allarmante con la sua totale negazione, ossia con un totalitarismo di massa ove quello che conta non è più il bene e la felicità dell'individuo, ma sempre e soltanto la Volontà Generale, pauroso feticcio assetato di sangue umano, come dimostra - appunto - la proposta di mettere a morte i «traditori» della religione civile?

 

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