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De Maistre contro Rousseau: chi ha mai detto che l'uomo è nato libero?

di Francesco Lamendola - 20/03/2009


L'esordio del «Contratto sociale» (della cui tesi centrale ci siamo occupati nel precedente articolo,  «Lo stato terroristico della Volontà Generale nel pensiero politico di Jean-Jacques Rousseau», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice) risuona come uno squillo di tromba: «L'uomo è nato libero, ma in ogni luogo egli è in catene».
E prosegue (Rousseau, «Il contratto sciale», traduzione di Ganluigi Barni, Milano, Fabbri Editori, 1998, p. 52):

«Anche chi si crede padrone degli altri, non cessa tuttavia d'essere più schiavo di loro.  Come mai è avvenuto questo cambiamento? Lo ignoro.  Che cosa può renderlo legittimo? Credo di poter risolvere questo problema.
Se io prendessi in considerazione solo la forza e le conseguenze che ne derivano, direi:  "Fintanto che un popolo è obbligato a obbedire e obbedisce, agisce bene; ma non appena può scuotere il giogo e lo scuote, agisce ancor meglio, perché ricuperando la libertà in base al medesimo diritto con cui gli era stata tolta, o esso è legittimato a riprendersela o nessuno lo era mai stato a togliergliela."  L'ordine sociale è certamente un sacro diritto che serve da base a tutti gli altri; tuttavia questo diritto non deriva assolutamente dalla natura, è dunque fondati su accordi, Si tratta di sapere quali sono questi accordi…»

Da oltre due secoli, l'idea che l'uomo sia naturalmente libero e che le catene cui è avvinto siano una negazione di un suo diritto fondamentale e sacrosanto, ha accompagnato e, spesso, guidato la marcia della civiltà europea attraverso la modernità, dal luglio del 1789 al maggio del 1968 ed oltre:   fino, si può dire, ai nostri giorni.
Ma il più vigoroso esponente della Restaurazione in sede  speculativa, quel Joseph De Maistre (1753-1821), savoiardo, che, da sempre, la critica letteraria ci presenta unicamente nelle sgradevoli vesti dell'ottuso reazionario, mentre fu una mente lucida e acuta (anche se animata da sentimenti reazionari), non era affatto d'accordo, e non esitò a prendere d'assalto la cittadella illuministica con le sue «diaboliche stranezze», prima fra tutte l'idea che l'uomo nasca libero, e che la libertà sia inscritta, più o meno luminosamente, nel suo destino.
Tanto per cominciare: di che libertà parla Rousseau? Di una libertà ontologica, che si esplica sul piano etico; oppure di una libertà storica, dovuta ad una non meglio dimostrata condizione originaria, sul tipo del suo preteso «stato di natura»? Se è di quest'ultima che parlava il ginevrino, allora non solo i fatti della storia, ma le sue stesse parole stanno lì a smentirlo nel modo più esplicito: infatti, come è possibile che l'uomo sia ovunque in catene, se egli nasce libero e se incessantemente aspira a riconquistare la propria libertà?
Per il De Maistre, è evidente che l'uomo non nasce libero: e uno sguardo anche rapidissimo alla sua storia, partendo dall'antichità e da quel perfetto esempio di democrazia che fu Atene, lo dimostra chiaramente. Al contrario, la sua condizione naturale fu la schiavitù: in tutte le società umane prima del Cristianesimo, la maggioranza degli uomini era costituita da schiavi o da servi, e solo una minoranza da uomini liberi: i nobili; ossia, etimologicamente, «i migliori».
Questo è ciò che ci mostrano i fatti, dice De Maistre; Rousseau e quelli come lui si sono limitati a fantasticare, baloccandosi con vuote formule delle quali si sono riempiti la bocca, ma senza prendersi minimamente la briga di dimostrare le loro asserzioni.
Tutto quello che Rousseau si sforza di fare è di postulare che la sottomissione dell'uomo all'ordine sociale «non deriva assolutamente dalla natura» e, dunque - per esclusione - non può essere che il frutto di accordi. Ma, di nuovo, egli postula quel che dovrebbe almeno tentare di dimostrare; e, dopo averlo postulato come se fosse una verità incontrovertibile, ne ricava quelle conseguenze che desidera ricavare.
In pratica, l'unico accenno di ragionamento, per dimostrare che la condizione naturale dell'uomo è la libertà, consiste nel parallelismo che egli delinea tra la società politica e la più antica di tutte le società esistenti, oltre che l'unica naturale: la famiglia. Nella famiglia, egli afferma,  i figli non rimangono legati al proprio padre, se non fino a quando hanno bisogno della sua protezione; e, non appena tale bisogno vien meno, cessa anche il legame. I figli si emancipano dal dovere dell'obbedienza nei confronti del padre, il padre si libera dall'obbligo di accudirli e di proteggerli: e ciascuno recupera la propria indipendenza.
Questa fisiologia della società familiare, che sarebbe piaciuta a Freud (e che, anzi - crediamo - gli sia realmente piaciuta, per svolgere, a partire da essa, le sue teorie sul parricidio e sul desiderio d'incesto da parte dell'«orda primordiale», concetto, quest'ultimo, tanto elusivo quanto il russoiano «stato di natura») sembra spiegare tutto, mentre in effetti spiega ben poco. A meno che si voglia concepire la famiglia unicamente come un istituto contrattuale, chi oserebbe affermare che il padre (Rousseau, chissà perché, dimentica la madre) si disinteressa totalmente dei propri figli, una volta che questi sono cresciuti abbastanza da provvedere a se stessi? Ma certo l'idea non doveva sembrare strana a uno come Rousseau, che faceva figli uno dopo l'altro e poi li affidava alla carità pubblica, mentre si faceva una fama di gran pedagogista pubblicando l'«Emilio.»
E non si venga a dire che questo è un colpo basso e che, davanti all'opera di un filosofo, non bisogna chiedersi se egli sia stato anche coerente con le sue stesse idee, ma solo se queste siano coerenti fra loro. Rousseau non è stato un filosofo: nessun filosofo si sognerebbe di buttar lì, all'inizio di un'opera, la tesi che dovrebbe, invece, dimostrare. Quando egli dice che l'uomo è nato libero, non fa filosofia, ma letteratura; così come la farà Bakunin, allorché dirà che l'uomo è libero,  ma, se Dio esistesse, egli sarebbe schiavo; ragion per cui, Dio non esiste.
L'astrattezza, il velleitarismo, la faciloneria speculativa di Rousseau sono colte efficacemente da De Maistre, il quale sarà anche stato un pensatore reazionario, ma, almeno, aveva abbastanza rispetto dei fatti per non pretendere di dare torto ad essi, quando non si accordavano con le sue idee.
Scriveva, dunque, Joseph De Maistre, nella sua celeberrima opera «Del Papa» (titolo originale: «Du Pape»; tradizione italiana di T. Casini, Firenze, 1926):

«Fu una bella ridicolezza dell'ultimo secolo quella di giudicar tutto dietro regole astratte, senza tener conto dell'esperienza.[…]
Squisito il Rousseau quando comincia il suo "Contratto sociale" con questa massima rimbombante: "L'uomo è nato libero, e dappertutto si trova in catene!". Che cosa vuol dire? A quanto pare egli non intende parlare del fatto, poiché nella medesima frase afferma che l'uomo è dappertutto in catene. Si tratta dunque del diritto; ma pè appunto quello che bisogna provare, contro il fatto. Vero è il contrario di questa pazza asserzione "l'uomo è nato libero". In tutti i tempi e in tutti i luoghi, sino alla fondazione del Cristianesimo, anzi sino a che questa Religione non fu penetrata sufficientemente nei cuori, la schiavitù è sempre stata considerata come un ordigno necessario nel governo e nello stato politico delle nazioni, nelle repubbliche come nelle monarchie, senza che mai cadesse in mente ad un filosofo di condannare la schiavitù, né ad un legislatore di combatterla con leggi fondamentali o di circostanze. […] Chi ha sufficientemente studiato questa trista natura, sa che l'uomo in generale, abbandonato a se stesso, è troppo malvagio per poter essere libero. Che ciascuno esamini l'uomo nel suo proprio cuore, e sentirà che dovunque sia data a tutti la libertà civile, non vi sarà più mezzo, senza un qualche soccorso straordinario, di governare gli uomini in corpo d nazione. […] Dovunque, il piccolissimo numero ha sempre condotto il grande poiché, senza un'aristocrazia più o meno forte, la sovranità non ha abbastanza vigoria. Il numero degli uomini liberi nell'antichità era di molto inferiore a quello degli schiavi. Atene aveva 40.000 schiavi e 20.000 cittadini. A Roma, che contava verso la fine della Repubblica circa 1.200.000 abitanti, vi erano appena 2.000 proprietari, , il che dimostra da solo l'immensa quantità degli schiavi.  Un solo individuo ne aveva qualche volta diverse migliaia  al suo servizio. […] Altre nazioni  fornirebbero press'a poco gli stessi esempi.  E del resto sarebbe inutile provare diffusamente  ciò che nessuno ignora, che l'universo,  fino al Cristianesimo, è sempre stato coperto di schiavi e che i sapienti non hanno mai biasimato tale usanza.
Questa proposizione non si scuote. […] Così il genere umano è in gran parte naturalmente servo, e non può esser tolto da questo stato altro che soprannaturalmente. Con la servitù niente morale propriamente detta; senza il Cristianesimo, niente libertà generale, e senza il papa non si dà vero Cristianesimo, ossia il Cristianesimo operoso, potente, convertitore, rigeneratore, conquistatore, perfezionante. Spettava dunque al Sommo Pontefice proclamare la libertà universale; egli lo fece, e la sua vice risuonò per tutto l'universo. Egli solo rese questa libertà possibile, nella sua qualità di capo unico di quella Religione  sola capace di piegare le volontà, e che non poteva spiegare tutto il suo potere se non per mezzo di lui. Oggi bisognerebbe esser ciechi per non vedere che tutte le sovranità in Europa s'indeboliscono. Esse perdono da tutti i lati la confidenza e l'amore. Le sette e lo spirito particolare si moltiplicano in modo spaventevole. Bisogna purificare le volontà o incatenarle; non c'è via di mezzo.»

L'uomo, dunque, per De Maistre, non è una creatura libera, per il semplice fatto che è troppo malvagio per esserlo. Può darsi che si tratti di un punto di vista drasticamente pessimista; ma, almeno, è sempre meglio che dire, come fa Rousseau, che non si sa come sia avvenuto il cambiamento che ha fatto dell'uomo, essere libero, uno schiavo.
L'uomo, dunque - prosegue De Maistre - non è mai stato naturalmente libero, ma, al contrario, servo dovunque, in tutte le società antiche. Solo il cristianesimo lo ha liberato e solo il pontefice, a suo avviso (la tesi è discutibile fin che si vuole, ma non priva di riscontri nella storia del tardo Impero Romano e del Medioevo), ha proclamato e reso operante la sua libertà. Di conseguenza, senza il Papa non può esistere né vera libertà, né vero cristianesim; esattamente il contrario di quanto aveva affermato Rousseau nel «Contratto sociale», allorché aveva descritto il cristianesimo romano come la forma di religione più bizzarra e innaturale che si possa immaginare, interamente dominata dai preti.
Come già aveva fatto - partendo da un analogo pessimismo di matrice cristiana - lo scrittore politico inglese Edmund Burke nelle sue «Riflessioni sulla Rivoluzione francese» (1790), il De Maistre confuta, inoltre, un altro decisivo caposaldo del pensiero russoiano: il preteso diritto della maggioranza a dominare sulla minoranza.
Ovviamente, la critica del savoiardo nei confronti del principio democratico della maggioranza, non muove da una prospettiva libertaria, ma autoritaria: «dovunque - egli osserva - il piccolissimo numero ha sempre condotto il grande»; ragion per cui, egli rivendica il diritto dell'aristocrazia a guidare la società.
Quest'ultima asserzione suona certamente sgradevole ai nostri orecchi di figli della post-modernità; tuttavia, basta che riportiamo il concetto di aristocrazia alla sua origine etimologica, come la classe dei migliori, perché esso acquisti subito una valenza molto più persuasiva. Onestamente, chi oserebbe affermare il contrario: che, cioè, una maggioranza di incompetenti e di disonesti ha il diritto di prevalere su una minoranza di individui eccellenti?
Eppure, la sfrenata demagogia che ha avuto origine proprio dal mito russoiano del «buon selvaggio», con tutti quei vaniloqui sulla innocenza originaria dell'uomo, a forza di essere ripetuta  nel corso di due secoli e mezzo (il «Contratto sociale» fu pubblicati ad Amsterdam nel 1762), ha finito per acquistare la forza tremenda di un riflesso condizionato.
Impossibile, ormai, parlare di politica, senza pensare all'uomo come ad una creatura nata libera, liberissima, in virtù di una condizione originaria che si presenta come un vero e proprio articolo di fede.
La cosa è tanto più curiosa, se si pensa che la cultura oggi dominante è quella positivistico-evoluzionista, per la quale l'uomo non è che una scimmia evoluta a caso, in mezzo ad un groviglio di forme viventi originatesi altrettanto a caso, a partire da organismi unicellulari formatisi da soli, non si sa in grazia di quale miracolo (cfr. il nostro recente articolo «L'idea biologica del "brodo primordiale" è una banale ripetizione dell'errore antropocentrico», anch'esso sul sito di Arianna Editrice).
Rousseau voleva indicare la via per ristabilire una società libera e fondata sull'uguaglianza; ma, di fatto, le sue teorie, già di per sé discutibili, hanno fornito la base teorica per tutta una serie di ulteriori semplificazioni e schematizzazioni, il cui effetto è stato quello di alimentare un diffuso senso di risentimento verso la pretesa ingiustizia di una società che non riconosce la bontà originaria dell'uomo, la cui prova più evidente sarebbe la sua «naturale» libertà.
La bontà originaria dell'uomo, costretta a difendersi dalle «canaglie» e dagli «sfruttatori», ha prodotto non solo il Terrorismo del 1793-94 (ossia la dittatura della Virtù), ma quel cronico stato d'animo di rancore per l'ordine costituito, che ha trovato il suo motto più significativo nel «Vietato vietare» di sessantottesca memoria.
Infatti, se l'uomo è una creatura intrinsecamente buona e se la sua libertà non è una faticosa conquista personale (in primo luogo interiore, e poi, eventualmente, anche politica), chi oserà proibirgli qualcosa, se non un tiranno conclamato o un aspirante tale?
Pare che Rousseau non avesse previsto, però, che gli uomini, se partono dall'assioma di una loro bontà originaria, possono anche finire per ritrovarsi sotto la peggiore di tutte le schiavitù: proprio quella Volontà Generale che a lui sembrava realizzare il massimo della libertà, ma che, di fatto, abbiamo visto tradursi nel più spietato strumento di dominio da parte dei totalitarismi del XX secolo.