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Ettore Muti: il primo caduto della guerra civile in Italia

di Enzo Capaldo - 20/03/2009

Come e perché fu ucciso Ettore Muti, due volte medaglia d'oro al valor militare, dieci medaglie d'argento, eroe di tre guerre italiane.


Poco prima della mezzanotte del 23 agosto 1943 una piccola colonna di automezzi dei Reali Carabinieri parte dall’autocentro del Ministero dell'Interno: un'autovettura, un autocarro, un’ambulanza. A bordo un tenente dell’Arma (Taddei), un maresciallo in borghese (Ricci), un uomo in tuta kaki di cui nessuno saprà mai il nome - basso, stempiato, sulla quarantina, con accento napoletano - e una dozzina di carabinieri armati di moschetto.
Escono da Roma deserta nella notte (vige il coprifuoco), percorrono la via Aurelia, raggiungono Maccarese. Nella periferia della cittadina lasciano l’ambulanza, che attenda il loro ritorno, e sostano alla locale stazione dei carabinieri. Viene svegliato il maresciallo che la comanda, al quale il tenente chiede due militi perché facciano da guida alla comitiva fino a Fregene. Salgono sull'auto i carabinieri Contiero e Frau; la colonna riparte silenziosa nel buio, sguscia per la campagna e si ferma davanti alla piccola caserma dei carabinieri di Fregene.
La comanda il brigadiere Barolat, che viene tirato giù dal letto e invitato ad unirsi alla comitiva. Perché? Risponde brusco il tenente: “Abbiamo l'ordine di arrestare Ettore Muti e lei deve condurci alla sua abitazione”. Meraviglia dell'assonnato brigadiere. Con tutto quello schieramento di forze ? Non era più semplice mandare un piantone a chiamarlo, come era stato fatto altre volte? «No», è la risposta. «Questa volta la cosa è diversa».


E in effetti fu una «cosa diversa».


Dopo aver imbarcato il brigadiere, autovettura ed autocarro proseguono per la strada sterrata che conduce alla pineta di Fregene, ai cui margini sorge, piuttosto isolata, la bassa villetta ad un piano che è la residenza di Muti.


Fermate le macchine ad una certa distanza e spenti i motori, gli uomini vengono fatti proseguire a piedi, in colonna e in silenzio, fino alla costruzione. «Abita qui» dice il brigadiere. Bene, risponde l'ufficiale, e ordina di circondare la casa imbracciando i moschetti e di bussare alla porta. L'ordine viene eseguito, ma nella villa tutti dormono e ci vorrà qualche minuto perché la porta venga aperta.
Assonnato compare sull’uscio l'attendente di Muti, che stupefatto chiede al brigadiere Barolat, da lui ben conosciuto, il perché di quell’insolita visita alle due di notte. Ma la meraviglia gli passa di colpo quando un gruppetto di armati, tenente in testa, fa irruzione nell'interno. «Ho un mandato di cattura per Ettore Muti. Svegliatelo e fate presto!» spiega secco il tenente.


Muti era in camera da letto, e non era solo. Da tempo conviveva con lui una ballerina polacca di una compagnia di riviste, Edith Fucherova. Svegliato forse dal trambusto, compare sulla porta dell’ingresso a torso nudo, con i soli pantaloni del pigiama. Compaiono anche gli altri pochi abitanti della villetta: Concetta Verità, la cameriera, e Roberto Rivalta, un vecchio amico di famiglia di Muti. Questi si guarda intorno, apparentemente tranquillo, accenna un sorriso al brigadiere che conosce, chiede che cosa si voglia da lui. Risponde senza complimenti il tenente Taddei: «Ho l'ordine di arrestarla. Si vesta e venga con noi». Sguardo sbalordito di Muti, poi una scrollata di spalle:«Va bene, mi vesto e vengo subito». Il tenente lo rincorre mentre si dirige verso la camera da letto. Muti incomincia a seccarsi: «Tenente, so vestirmi anche da solo». E poi, spiega, nella camera c'è un'altra persona. Ma l'altro insiste e si giustifica: «Ho l’ordine di non perderla di vista neppure un minuto».
Eseguita rapidamente la vestizione, Muti allunga il braccio nell’interno dell'armadio in cui pende la sua giacca di tenente colonnello pilota dell'Aeronautica, con quattro file di decorazioni sul petto. Il solerte carabiniere non gradisce, osserva che farebbe meglio a vestirsi in borghese, tanto (ma su questo particolare le versioni non concordano) «le sue medaglie ora non servono».
Muti indossa ugualmente la sua giubba gloriosa, si fa preparare un borsa con un po' di biancheria e parte con l'ufficiale e con gli altri, verso la notte esterna.


Parte anche verso la morte. Invece di prendere la strada che conduce a Fregene, sulla quale erano rimasti gli automezzi, la comitiva si dirige a piedi, in colonna, nella direzione opposta: quella che porta alla pineta. In testa alcuni carabinieri, nel mezzo Muti affiancato dal Maresciallo Ricci e dal carabiniere Frau immediatamente alle sue spalle, a due passi di distanza, il misterioso uomo in tuta kaki; e in coda, un po' distanziato, il tenente con gli altri carabinieri.
Alcuni minuti di marcia silenziosa nei viottoli della pineta; poi Muti si ferma. Evidentemente l'illogica direzione verso cui lo stanno portando fa nascere in lui qualche sospetto. Ma non ha tempo per approfondirlo.
Nella notte fonda dei bosco si ode un fischio, poi un altro, poi la sua voce che grida: «Ma insomma, che fate? Sono un italiano!»
Il tutto viene sommerso da alcuni scoppi di bombe a mano, raffiche di mitra, confuso fuoco di fucileria. Due, tre minuti di bolgia infernale, al termine della quale Ettore Muti giace al suolo, nell'immobilità della morte.


Erano circa le tre di notte del 24 agosto 1943. In quella notte, nella pineta di Fregene, ha inizio la guerra civile che strazierà l’Italia, di lì a poco, per due anni. E il fascista Muti, assassinato da altri italiani, ne è la prima vittima.


Si è molto strologato, da una parte sulla «casualità» dell’accaduto, addotta dalle autorità del tempo e subito recepita dalla storiografia dei mezzi d’informazione, nonché sulla presenza, nelle vicinanze, di un campo di paracadutisti germanici verso il quale Muti avrebbe tentato di fuggire, dando così motivo alla sparatoria che l'ha ucciso.


E dall'altra parte, su un messaggio scritto da Badoglio al capo della polizia Senise, che Senise nega di aver ricevuto e che non è stato trovato (ma c'era bisogno di scriverlo?): «Muti è sempre una minaccia. il successo è possibile solo con un meticoloso lavoro di preparazione. Vostra eccellenza mi ha perfettamente compreso».
Lo stile di Badoglio, (ha lasciato scritto di essere, come generale in guerra, «meticoloso nella preparazione e irruento nell'azione»), ma sono tutte discussioni di lana caprina. L'intento omicida della spedizione Taddei emerge indubitabile da due dati di fatto su cui concordano tutte le testimonianze.


Primo, e minore, i due fischi. Non si fischia, in quelle specifiche circostanze, per divertimento. Un fischio significa un ordine, un avvertimento, non può essere altro. E l'altro fischio probabilmente risponde: «ricevuto».
Secondo dato, determinante in assoluto, è il percorso su cui Taddei e i suoi uomini hanno condotto Muti dopo l'arresto. Il mandato di cattura comportava obbligatoriamente la traduzione in un carcere, che avrebbe dovuto essere la caserma dei carabinieri di Fregene o più verosimilmente un carcere di Roma, raggiungibile percorrendo la via Aurelia dopo avere sorpassato Fregene. Invece il drappello armato che ha seguito l’arresto lascia sul posto i propri automezzi, conduce l'arrestato nella direzione opposta e si inoltra a piedi nella pineta. Perché? Non si raggiunge nessun carcere da quella parte! Ovvio dedurne che un mandato di cattura fu solo un pretesto, l'intento reale essendo l’eliminazione dell’uomo.


Due altri dati, solo apparentemente secondari, rafforzano la conclusione. Nei pochi minuti di furiosa sparatoria al buio tutti rimasero incolumi ed un solo fu colpito, e colpito a morte: Muti.
Logico dedurne che anche la sparatoria fu un pretesto, per giustificare e coprire i soli colpi diretti contro un bersaglio: quelli che uccisero lui.
E inevitabilmente si pensa al misterioso uomo in tuta così ben protetto da essere ignoto ancor oggi: il killer che stava alle sue spalle ed ha compiuto la parte del «lavoro» che non si addiceva alle divise degli altri. Infatti - secondo dato comprovante - il berretto che Muti portava, recuperato fortunosamente dalla famiglia e tuttora esistente, reca due fori di proiettile: uno sul dietro, in corrispondenza della nuca, l'altro davanti, che attraversa la visiera. Che cosa si vuole di più?
Sul significato e la «morale» da trarre da questo omicidio che oggi i cronisti direbbero «eccellente», voluto ed eseguito da uomini che facevano riferimento ad un governo che si diceva costituzionale (ma non lo era), potrebbero e dovrebbero farsi diverse riflessioni, che finora non risulta siano state fatte.


E’ sperabile che qualche onesto storico del futuro vi si accinga. Storicamente il fatto è rilevante, assai più di quanto sia stato finora considerato: richiama alla memoria l’assassinio di Calvo Sotelo, che precedette la guerra civile spagnola. Per cinquant'anni ed oltre gli avversari del fascismo hanno goduto di una buona «rendita» tenendo vivo il culto del delitto Matteotti, che fu indubbiamente un omicidio ma preterintenzionale, in quanto non programmato da mandanti ed esecutori che volevano soltanto «dare una lezione» all'esponente socialista.
Il delitto Muti fu invece chiaramente deliberato e voluto, inaugurando il sistema della eliminazione fisica degli avversari politici che fu caratteristico della guerra civile e causò all’Italia dolori e danni che durano ancora.

Tratto da WWW.ITALIA-RSI.ORG