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Una patria per gli ebrei nell'oriente siberiano

di Sergio Romano - 20/03/2009

Interessandomi di questioni
di geografia, mi sono reso conto che nell’Unione Sovietica esisteva, in Siberia orientale, un «territorio autonomo ebraico».
Non riesco a trovare alcuna informazione su di esso.
Forse lei mi può spiegare qualcosa?


Francesco De Silva

Caro De Silva, Esiste ancora. Si chiama
Birobidzhan, fu costituito come «Unità nazionale ebraica» fra il 1927 e il 1928, divenne «Regione autonoma » all’inizio degli anni Trenta e sarebbe diventato «Repubblica autonoma» non appena gli ebrei fossero stati almeno centomila. Ma l’obiettivo non fu mai raggiunto. Gli immigrati furono 14 mila nel 1932, 3.005 nel 1933, 5.267 nel 1934 e 8.344 nel 1935, di cui 820 non erano ebrei. Molti partirono negli anni seguenti e dopo la guerra. Complessivamente gli ebrei del Birobidzhan non furono mai più del 10% della popolazione totale (oggi circa 70 mila). Nel 1989 erano 9 mila; fra il 1989 e il 1996 7 mila sono partiti.
Nelle intenzioni dei dirigenti sovietici il progetto avrebbe dovuto dare un ultimo tocco al carattere apparentemente federalista dell’Urss. Dopo avere disegnato un mosaico in cui ogni popolo dell’immenso spazio russo aveva la sua casa istituzionale (repubblica federata, repubblica autonoma, regione, territorio, distretto) occorreva affrontare e risolvere il problema ebraico. Gli ebrei dell’Impero zarista erano circa sei milioni e avevano vissuto come minoranze all’interno di territori popolati in maggioranza da russi, ucraini, bielorussi, polacchi, lettoni e romeni. Erano numerosi, ma non avevano una «patria», nel senso nazionale della parola.
Fu deciso di offrire loro un territorio in cui avrebbero potuto insediarsi e coltivare i caratteri della loro originalità.
Mentre una parte dell’ebraismo sovietico guardava alla Crimea, il regime preferì una lontana regione che si estende per migliaia di chilometri lungo le rive del fiume Amur, ai confini con la Cina. La scelta presentava per il regime un vantaggio strategico: avrebbe permesso la colonizzazione di un territorio pressoché disabitato e creato un utile antemurale contro le ambizioni giapponesi nell’Estremo oriente cinese e siberiano. Se questa forma sovietica di sionismo avesse avuto successo, Stalin avrebbe messo gli ebrei dell’Urss di fronte a una scelta: il Birobidzhan o l’assimilazione.
Ma il progetto si scontrò con una serie di difficoltà: pochi incentivi economici, il rigore del clima, la mancanza d’infrastrutture, la diffidenza di Stalin di fronte alla prospettiva di una forte regione ebraica, la riluttanza degli ebrei ad abbandonare le zone della Russia dove potevano meglio esercitare i loro talenti. Vennero poi le purghe staliniane, la guerra e quell’esplosione di antisemitismo che caratterizzò gli ultimi anni di Stalin, dal 1948 alla morte. Dopo il 1953, il progetto ebraico oscilla continuamente fra rari entusiasmi, nuovi tentativi, difficoltà materiali e continue riserve della dirigenza sovietica.
Esisteva ormai uno Stato d’Israele capace di fare al Birobidzhan una imbattibile concorrenza.
Se la Storia fosse razionale, qualcuno a Mosca avrebbe pronunciato il fallimento del progetto e cancellato il Birobidzhan dalla carta politica dello Stato. Ma la Storia è piena di avanzi, residui, reperti archeologici, palazzi o chiese di cui fu costruita solo la facciata.
Il piccolo «Stato degli ebrei», quindi, esiste ancora.
Lo accertò Ugo Tramballi, allora inviato speciale del Giornale, quando vi arrivò da Mosca all’inizio degli anni Novanta.
E lo accertò Ettore Mo, quando lo visitò nel 2002 insieme a un giovane studioso, Alessandro Vitale, e al fotografo Luigi Baldelli. Insieme agli articoli di Mo per il Corriere, il risultato di quel viaggio fu un breve libro di Vitale, apparso presso l’editore Casagrande di Lugano nel 2006, che racconta con efficacia l’evoluzione del Birobidzhan dal progetto degli anni Venti alla realtà d’oggi.
Il punto d’arrivo dell’evoluzione è paradossale. Gli ebrei sono una sparuta minoranza, ma hanno impresso all’intera regione i suoi caratteri dominanti.
L’yiddish è parlato, anche se sempre più raramente, persino da chi non è ebreo ed è insegnato nelle scuole. Esistono sinagoghe, esistono i simboli dell’ebraismo, dalla stella di Davide al Menorah, il candelabro a sette bracci, che sorge dinanzi alla sede della Comunità Freyd (pace) in una piazza del capoluogo. Il predominio della cultura ebraica è stato docilmente accettato dagli altri gruppi - kazachi, coreani, tungusi - ma ha dato origine, con il passare del tempo e l’aumento del numero dei matrimoni misti, a una specie di sincretismo cultural-religioso. È nata così, come in un piccolo laboratorio, l’identità del «birobidzhanc », un curioso impasto di ebraismo, cristianesimo, buddismo e culti sciamanici.
Il fenomeno ricorda con caratteristiche opposte quello dei marrani. Mentre questi ebrei convertiti al cristianesimo praticavano segretamente la loro religione, i birobidzhancy sono cristiani, buddisti o atei che osservano pubblicamente, senza essere ebrei, alcune tradizioni della vita ebraica.