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Gran Torino, Detroit, USA

di Mauro Baldrati - 21/03/2009

Da quel vecchio combattente della OAE (Old American Epic) che è, Clint Eastwood ha girato un film epico sulla solitudine, la vecchiaia, i padri, l’amicizia, il sacrificio. Walt Kowalski, il suo personaggio, riassume tutti i cow boys solitari che si sono avvicendati lungo le varie e transgenerazionali frontiere americane; porta con sé i generi, gli stili, l’azione, la violenza, la prepotenza del mondo, l’ingiustizia, contro cui i suoi eroi si sono ribellati, spesso in nome di valori mai dichiarati ma sottintesi di onestà, coraggio, difesa dei deboli. Li riassume in sé e li usa, li scambia. Per arrivare a una scelta finale che, forse, è il bilancio di una vita.

Walt, ex operaio della catena Ford, vive in una villetta dei sobborghi di Detroit. Un tempo questi erano i quartieri della piccola e media borghesia americana, gli operai specializzati, gli impiegati, col piccolo prato e la veranda. Ora tutto è in decadenza, le recinzioni sono sfondate, sull’asfalto cresce l’erba. Poche persone per le strade, bande perlopiù. La villetta vicino alla sua è abitata da una famiglia di asiatici, i “musi gialli” che lui, reduce dalla Corea, ha combattuto e ucciso.
Li guarda, e noi guardiamo la sua faccia in primissimo piano mentre li guarda, una maschera di durezza e di caparbietà, la maschera di un vecchio uomo gonfio di rancore e di ostilità, indignato per l’invasione della “sua” America, e davvero ci viene in mente la definizione affettuosa che di lui dava Sergio Leone: “ha due espressioni: una col cappello e una senza cappello”. La sua maschera rigida, arcigna, è quella di William Munny, il killer de Gli Spietati, e talvolta ci chiediamo se agirà come lui, se applicherà le regole del genere violento che Gran Torino sembra contenere nel suo plot.
In realtà sappiamo che l’ostilità di Kowalski sta per ammorbidirsi. Ci sono i segnali: la ragazzina hmong è simpatica, è gentile, spigliata. Non può che fare breccia in quel vecchio cuore indurito. E il ragazzino, Thao, che lui chiama Tardo, è timido, sprovveduto, “una femminuccia”, che non sa neanche capire se una ragazza carina ha puntato gli occhi su di lui. Lo becca, Tardo, nel suo garage mentre cerca maldestramente di rubargli la Gran Torino, il coupé Ford dei primi anni ’70 (era l’auto di Starsky e Hutch) che lui conserva come un trofeo, per sottostare al rito di iniziazione di una gang, capeggiata dal cugino, che lo perseguita.
E qui avviene il primo dei filtraggi di genere. La storia potrebbe prendere la direzione della violenza, le armi da fuoco, le bande, i bulli vigliacchi, e il vecchio giustiziere che li sfida a viso aperto. Invece tutto questo incombe sulle scene, ma resta come sospeso, una minaccia che appare e scompare, che trascuriamo, pur senza dimenticarla. Kowalski scopre il mondo arcaico hmong, “la gente della giungla”, un popolo fuggito in America in seguito alla guerra del Vietnam, perché “i comunisti ammazzavano tutti”. Sono gentili, non parlano né capiscono l’inglese, gli portano continuamente doni sulla scala di casa, fiori, piatti cucinati. Gli sono grati per avere difeso Tardo da un assalto della banda, che lui ha fatto fuggire minacciandoli col suo vecchio fucile della guerra di Corea, e per avere accettato di farlo lavorare per lui come riparazione al tentativo di furto.

Qualcuno particolarmente pignolo potrebbe riconoscere, in queste scene etniche, un blando razzismo paternalista, sulla falsariga di quello usato, per esempio, da Somerset Maugham quando rappresenta i cinesi. In realtà è un gioco di ruoli che Clint Eastwood porta avanti senza reticenze, partendo proprio dal suo personaggio che è “uno sporco polacco rincoglionito”, come lo chiama quel “ladro mangiaspaghetti” dell’amico barbiere; i giochi virili da uomini con le palle americani che provengono da mille paesi, da mille razze.
Ma tutto si complica. E’ destino. La banda minaccia, e colpisce. Colpisce con ferocia e viltà, come colpisce il branco, e semina dolore e distruzione. Nulla è più come prima. Bisogna fare giustizia. Una giustizia superiore, quella giustizia che la legge non può garantire, perché nessuno parla, nessuno denuncia. L’omertà hmong tutto blocca e tutto cancella: la giustizia del cow boy della retorica OAE, la vediamo dipinta a tinte fosche sulla maschera di Kowalski quando va a sfidare i bulli della banda, li va a prendere nella loro casa, mentre schiamazzano sguaiati. Li fronteggia da solo, con sarcasmo, li insulta. Vediamo veramente William Munny mentre sta per entrare nel saloon dove c’è lo sceriffo delinquente Gene Hackman, e fa una strage, e punta in faccia la doppietta allo sceriffo, che gli dice “spara”, e lui gli spara; e potrebbe essere questo il finale che ci aspettiamo, la catarsi nel sangue e nella distruzione violenta della violenza.

Forse non ci sono più finali inediti, perché, come sostiene qualcuno, tutto è già stato detto, scritto, girato. Ma non è il finale in sé che può sorprendere; è come conclude la storia che lo precede, come sbuca dalle radici della sceneggiatura che ci stupisce.
Il finale di Gran Torino è forse l’ultima scelta possibile del cavaliere solitario nato, vissuto e morto da outsider. La fine del viaggio.
La fine di chi non ha più nulla da dare, o da dire, se non offrire il proprio estremo sacrificio per la salvezza e per il bene degli altri.