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Il pensiero abissale dell'Eterno Ritorno vuole liberare le cose da una tragicità senza redenzione

di Francesco Lamendola - 21/03/2009


In un nostro saggio di circa un anno fa, «La  redenzione del passato, culmine  dell'eterno ritorno di  Nietzsche» (consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice) avevamo notato che, per il filosofo tedesco, superuomo è solo chi è in grado di introiettare il pensiero dell'eterno ritorno, di vincerne la ripugnanza istintiva, di dire ad esso un «sì» integrale e senza riserva alcuna; non a caso Zarathustra lo chiama «il più abissale dei suoi pensieri».
La vita deve riscoprire in se stessa il proprio valore, rifiutando ogni ricerca di senso che sia al di fuori di sé stessa: questo è il dionisiaco messaggio di Zarathustra agli uomini. La dottrina dell'eterno ritorno, pertanto, lungi dall'essere una sorta di eccentricità del pensiero nietzschiano, ne costituisce il coronamento e la chiave di lettura fondamentale. Non è peraltro chiaro se la teoria dell'eterno ritorno debba essere intesa come una certezza scientifico-cosmologica, oppure come  un'ipotesi etica (bisogna vivere «come se» ogni cosa ritornasse); o, ancora, come una possibilità esistenziale che l'uomo può scegliere, diventando - così - un superuomo.
Ci sembra che la terza ipotesi sia la più plausibile; e che Nietzsche abbia voluto operare un radicale superamento della concezione lineare del tempo, la quale ci condanna a vivere in un presente che viene continuamente divorato dal futuro e diventa passato, ossia in un istante che non ha mai il proprio significato in sé stesso, ma in qualcosa che sta fuori di esso: il passato (la memoria)  o il futuro (l'attesa). Solo accettando integralmente l'idea che ogni cosa ritorni infinite volte, sempre identica a sé stessa, possiamo riappropriarci del nostro presente e della nostra vita: perché, a quel punto, è chiaro che ogni istante può essere vissuto come un valore autosufficiente; come in un cerchio ogni punto è ugualmente importante di ciascun altro, mentre in una retta solo le estremità (l'inizio e la fine) hanno veramente una meta e uno scopo.
D'altra parte, si può facilmente mostrare (e noi lo avevamo fatto nel lavoro sopra citato) che l'interpretazione nietzschiana del tempo circolare potrebbe essere agevolmente rovesciata: se ogni istante è destinato a ritornare, identico a sé stesso, esso non è più realmente un istante, ma una eternità: nell'eterno e nell'infinito, infatti, le parti non sono minori del tutto: l'infinita serie di un singolo istante non è meno infinita della serie di tutti gli istanti che formano la  nostra vita.
Se ne potrebbe anche trarre la conseguenza che, «intensive», se non «extensive», l'istante unico e assolutamente irripetibile della concezione lineare del tempo (ebraico-cristiana) non è meno prezioso ed «autonomo» rispetto all'intero, cioè alla vita; anzi, potrebbe esserlo assai di più, proprio per il suo carattere di radicale irripetibilità.
Avevamo poi osservato che, in Nietzsche, il concetto dell'eterno ritorno si configura come lo sviluppo e la definizione di un concetto che fa la sua comparsa verso la fine del terzultimo capitolo della seconda parte dello «Zarathustra»,  intitolato «Della redenzione», in cui egli sostiene la necessità di giungere ad una redenzione del passato: più precisamente, ad una trasformazione di ciò che è stato, dunque del passato, in ciò che noi abbiamo voluto che fosse, dunque della nostra volontà. Mediante la volontà di potenza, l'essere umano si emancipa dal passato, col suo peso estenuante, e celebra la vittoria sul tempo, sul tempo lineare, trasformandolo in tempo circolare, ove ogni cosa ritornerà perché così essa vuole.
Certo, possiamo sempre domandare donde e in che modo l'uomo potrà forgiare con le proprie mani un tal genere di volontà radicale, se l'orizzonte di senso di colui che vuole redimersi, di colui che vuol realizzare in se stesso il superuomo, non eccede né deve eccedere una radicale fedeltà alla terra e ai valori immanenti.
La vita terrena, infatti, non può dare altro che vita terrena, l'immanenza non dà altro che immanenza: se l'uomo è strutturalmente schiavo, come potrà liberarsi, o anche solo concepire l'anelito verso la propria liberazione? Donde lo avrà appreso, chi glielo avrà insegnato?
A queste domande, sembra che l'unica ragionevole risposta sia che la redenzione di cui parla Zarathustra non si riferisce ad una redenzione storica (ossia dalla morale giudaico-cristiana), bensì metafisica, da una condizione strutturale di schiavitù rispetto al proprio passato, alla propria storia, al tempo in quanto tale. Se è così, allora verrebbe confermata la nostra ipotesi che l'idea dell'eterno ritorno non si collochi sul piano di una verità scientifica, bensì su quello di una possibilità esistenziale.
Si tratta di uno dei tentativi più audaci e radicali di superare le aporie della temporalità; e, tuttavia, i limiti una tale operazione sono abbastanza evidenti, e si possono riassumere in due ordini di ragionamento.
La prima obiezione che ci sembra di dover avanzare è sul piano logico: infatti, non si comprende come possa la volontà folle e vendicativa, prigioniera della irreversibilità della freccia del tempo, trasformarsi in pura volontà di potenza, sciolta da ogni limitazione e gioiosamente protesa al di là di se stessa.
Una seconda obiezione, ancora più forte, è quella che si può muovere sul piano etico. Se l'unica maniera di incurvare la freccia del tempo e trasformare il passato da una prigione in una liberazione,  è quella di accettare incondizionatamente e volonterosamente tutto l'esistente - passato, presente e futuro -,ebbene  una tale operazione rischia di condurre ad un atteggiamento ciecamente servile nei confronti dell'esistente reale, a discapito dell'esistente possibile. Di fatto, per tal  via, si finisce per  escludere ogni idea di progresso spirituale, ogni fiducia nella perfettibilità della coscienza. Inoltre,  si finisce per autoassolversi da ogni colpa, da ogni errore e traviamento.
Nietzsche, insomma, ossessionato dal problema della redenzione del passato - non «dal» passato, si badi, ma proprio «del» passato - ha cercato disperatamente la strada per uscire dal vicolo cieco della sua irreversibilità; e, non trovandola, credette che l'unica soluzione perché la volontà non se ne ammalasse e non impazzisse, fosse quella di indurla ad approvare entusiasticamente passato, presente e futuro, non una sola volta, ma all'infinito.
Una interpretazione suggestiva sul piano letterario, ma non altrettanto convincente su quello filosofico, della dottrina dell'eterno ritorno, è stata avanzata dallo scrittore Milan Kundera. Secondo quest'ultimo, Nietzsche, con essa, avrebbe inteso liberare l'uomo - caricandolo del fardello più pesante, quello di una schiacciante responsabilità verso ogni istante della propria vita, destinato a ripetersi infinitamente -  dal peso opprimente dell'unicità delle cose. Allora le nostre vite, su questo sfondo di pesantezza, possono apparire  in tutta la loro meravigliosa leggerezza. 

Scrive, dunque, Milan Kundera nell'incipit del suo famoso romanzo - forse, a suo tempo, un po'  sopravvalutato, ma comunque notevole - «L'insostenibile leggerezza dell'essere» (titolo originale: «Nesnesitelná lehkost bytí», 1984; traduzione italiana di Antonio Barbato, Milano, Adelphi, 1985, p. 11)14):

«L'idea dell'eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell'imbarazzo: pensare che ogni cosa un giorno si ripeterà così come l'abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all'infinito! Che significato ha questo folle mito?
Il mito dell'eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un'ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla. Non occorre tenerne conto, come di una guerra tra due Stati africani del quattordicesimo secolo che non ha cambiato nulla sulla faccia della terra., benché trecentomila negri vi abbiamo trovato la morte fra torture indicibili.
E anche in questa guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo, cambierà qualcosa se si ripeterà  innumerevoli volte nell'eterno ritorno?
Sì, qualcosa cambierà: essa diventerà un blocco che svetta e perdura, e la sua stupidità non avrà rimedio.
Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi all'infinito, la storiografia francese sarebbe meno orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati  in semplici parole, in teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura.  C'è un'enorme differenza tra un Robespierre che si è presentato una sola volta nella storia  e un Robespierre che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi.
Diciamo quindi che l'idea dell'eterno ritorno indica una prospettiva dalla quale le cose appaiono in maniera diversa da come noi le conosciamo:  appaiono prive della circostanza attenuante della loro fugacità.  Questa circostanza attenuante ci impedisce infatti di pronunciare un qualsiasi verdetto.   Si può condannare ciò che è effimero? La luce rossastra  del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia:  anche la ghigliottina.
Or non è molto, mi sono sorpreso a provare una sensazione incredibile:  stavo sfogliando un libro su Hitler e mi sono commosso alla vista di alcune sue fotografie:   mi ricordavano la mia infanzia; io l'ho vissuta durante la guerra,  parecchi miei familiari hanno trovato la morte nei campi di concentramento hitleriani;  ma che cos'era la loro morte davanti a una fotografia di Hitler  che mi ricordava un periodo scomparso della mia vita, un periodo che non sarebbe più tornato?
Questa riconciliazione con Hitler tradisce la profonda perversione morale  che appartiene a un mondo fondato essenzialmente sull'inesistenza del ritorno, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e quindi tutto è cinicamente permesso.
Se ogni secondo della nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all'eternità come Gesù Cristo alla croce.  È un'idea terribile. Nel mondo dell'eterno ritorno, su ogni gesto grava il peso di una insostenibile responsabilità.  Ecco perché Nietzsche chiamava l'idea dell'eterno ritorno il fardello più pesante ("das schwerste  Gewicht").
Se l'eterno ritorno è il fardello più pesante,  allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire  in tutta la loro meravigliosa leggerezza. 
Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa?
Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d'amore  di tutti i tempi la donna desidera essere gravata  dal fardello del corpo dell'uomo.  Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l'immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica.
Al contrario, l'assenza assoluta di un fardello fa sì che l'uomo  diventi più leggero dell'aria, prenda il volo verso l'alto, si allontani dalla terra, dall'essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti  siano tanto liberi quanto privi di significato.
Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza?
Questa domanda se l'era posta Parmenide nel sesto secolo avanti Cristo. Egli vedeva l'intero universo diviso in coppie di opposizioni: luce-buio, spesso-sottile,  caldo-freddo, essere-non essere.  Uno dei poli dell'opposizione era per lui positivo (la luce, il caldo, il sottile, l'essere), l'altro negativo. Questa suddivisione in un polo positivo e in uno negativo  può apparirci di una semplicità puerile. Salvo in un caso: che cos'è positivo, la pesantezza o la leggerezza?
Parmenide rispose: il leggero è positivo, il pesante è negativo.
Aveva ragione oppure no? Questo è il problema. Una sola cosa è certa: l'opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.»

Kundera, dunque, si domanda se sia propria vero che la pesantezza è qualcosa di terribile, mentre la leggerezza sarebbe qualcosa di meraviglioso.
La pesantezza - stando alla definizione di Kundera - è la condizione di chi sia gravato da uno schiacciante fardello di responsabilità. Lo scrittore ceco collega poi questa definizione con quella di Nietzsche, che designa l'eterno ritorno come  «il fardello più pesante»; e ne trae la tesi conclusiva che l'eterno ritorno renda le cose terribili, perché, reiterandole all'infinito, grava ogni azione umana di un carico morale insostenibile.
Poi, Kundera incorre un grosso incidente allorché attribuisce a Parmenide la dottrina degli opposti che è, invece, di Eraclito; mentre, per Parmenide, solo l'essere è, ingenerato, imperituro, eterno ed immobile; mentre il non essere, non è.
Prima di domandarsi, però, se abbia ragione Eraclito oppure no, nel definire positiva la leggerezza e negativa la pesantezza, bisognerebbe vedere: primo, se per Eraclito «positivo» e «negativo» vadano intesi nel senso del linguaggio comune; secondo, se sia proprio vero che la «pesantezza» dell'eterno ritorno, di cui parla Nietzsche, debba essere intesa in un senso puramente negativo.
La risposta alla prima domanda è no: la polarità degli opposti, formulata da Eraclito, non può essere intesa in senso morale; si tratta di coppie di opposti che sono entrambi necessari all'esistenza del tutto, che in questa lotta manifesta la profonda razionalità dell'esistente; dunque, è arbitrario definire la pesantezza come «negativa», nel senso corrente del linguaggio. Non per nulla Nietzsche vede in Eraclito l'espressione dell'innocenza dionisiaca del mondo, al di là del bene e del male e prima della degenerazione moralistica di Socrate e Platone.
La risposta alla seconda domanda è, di nuovo, no: l'idea dell'eterno ritorno è, per il filosofo tedesco, un «pesante fardello», non perché ci lega ancora di più alle cose, crocifiggendoci con la tremenda responsabilità di ogni singola scelta (e, semmai, ci sembra più terribile la solitudine di una scelta che rimane unica e irripetibile per tutta l'eternità, piuttosto che la continua ripetizione della medesima scelta), ma perché essa è «abissale», nel senso che implica una trasvalutazione di tutti i valori, un totale rovesciamento di prospettiva esistenziale.
In ogni caso, un elemento fondamentale ci sembra assente nella riflessione di Kundera sul concetto dell'eterno ritorno, ossia la debita distinzione tra l'uomo ordinario e il superuomo, al quale soltanto quella dottrina si riferisce.
Infatti, a nostro avviso, l'eterno ritorno corrisponde  a una circolarità del tempo per coloro che sono in grado di accettarla, realizzandola in sé stessi (nella famosa pagina dello «Zarathustra», il pastore che morde la testa del serpente e la sputa lontano da sé), ma non per tutti. Non tutti sono capaci di mordere il serpente che li soffoca, introducendosi loro in gola, e di sputarne lontano la testa, ossia, fuor di metafora, il tempo lineare, con il peso del passato. Il che, del resto, è perfettamente coerente con l'aristocraticismo di fondo di tutta la concezione filosofica di Nietzsche, che è una filosofia «per tutti», ma anche «per nessuno».
Possiamo - pertanto - avanzare l'ipotesi che, formulando la dottrina dell'eterno ritorno, Nietzsche abbia postulato l'esistenza di due realtà temporali differenti, le quali esistono contemporaneamente, come due universi paralleli i quali si sfiorano e, a volte, si toccano, ma restano nettamente distinti: quella del tempo lineare, in cui giace la massa degli esseri umani; e quella dell'eterna circolarità, in cui si muove, danzando, l'umanità dionisiaca: quella di coloro che hanno accettato la profondità abissale di un tale pensiero, e ne sono stati redenti e trasformati in esseri di luce, ossia in superuomini.
Secondo Milan Kundera, nella circolarità dell'eterno ritorno le cose appaiono prive della circostanza attenuante della loro fugacità, il che ci impedisce di pronunciare un qualsiasi verdetto, dato che non si può condannare ciò che è effimero. Egli sostiene che un mondo fondato essenzialmente sull'inesistenza del ritorno è moralmente perverso, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e, quindi, tutto è cinicamente permesso.
Ma è proprio vero?
Le conclusioni, in questo ragionamento, ci paiono maggiori della premessa. Se le cose sono uniche e irripetibili (visione lineare del tempo), perché mai esse dovrebbero essere automaticamente perdonate, e perché mai se ne dovrebbe ricavare che tutto è permesso?
Al contrario, si potrebbe pensare che proprio perché le cose sono uniche e irripetibili, esse devono sottostare a un giudizio morale inappellabile, nel bene o nel male; mentre il fatto esse si ripetano all'infinito (concezione circolare del tempo) potrebbe anche attenuarne la serietà (o la tragicità).
Contrariamente a quel che pensa Kundera, un Robespierre che ritornasse continuamente a tagliare le teste dei Francesi  (a parte la banalità storiografica dell'immagine) non sarebbe spaventoso, se non per un certo numero di volte: diverrebbe monotono, finirebbe per diventare «routine». E la monotonia dei fatti corrisponde sempre, infallibilmente, a una loro banalizzazione.
È proprio questo uno dei modi di intendere il concetto della «banalità del male»: ossia il male che diventa fatto quotidiano, il male distribuito a dosi industriali, ma secondo modalità regolari, scandite da precisi intervalli di tempo, e che, in ragione di ciò, finisce per non essere più percepito come male.
Anche la scena di Gesù Cristo che muore sulla Croce infinite volte, finirebbe per perdere di serietà e di credibilità.
A tutto gli uomini si abituano, purché lo possano prevedere. Se sanno che il peggiore dei mali arriverà ad intervalli precisi, vi si adatteranno, in un modo o nell'altro: finiranno per considerarlo una parte del paesaggio della loro vita.
Se fosse giusta l'interpretazione di Kundera - allora - nell'eterno ritorno ogni evento sarebbe immerso in una tragicità senza redenzione.
E non vale dire che «se l'eterno ritorno è il fardello più pesante,  allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire  in tutta la loro meravigliosa leggerezza»; questo sembra più un gioco di parole. Perché mai le nostre vite dovrebbero apparire più leggere, contro lo sfondo dell'eterno ritorno? Al contrario, dovrebbero apparire terribilmente più pesanti. 
Ma Nietzsche ha concepito la dottrina dell'eterno ritorno non per far risaltare, per contrasto, la leggerezza meravigliosa della nostra vita, bensì per rendere possibile la redenzione del passato e, quindi, la nostra liberazione dal suo peso opprimente.
Pertanto, l'eterno ritorno non preclude la redenzione del passato (come avverrebbe se la nostra vita fosse crocefissa ad ogni suo singolo istante), ma, anzi, la rende possibile, proprio mediante l'«amor fati» che spinge la volontà a dire «sì», gioiosamente, ad ogni singolo istante della nostra vita.