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Il libro della settimana: Costanzo Preve, Il popolo al potere

di Carlo Gambescia - 08/03/2006

Fonte: carlo gambescia

 

Il libro della settimana: Costanzo Preve, Il popolo al potere, Arianna, Casalecchio (BO) 2006, pp.210, euro 12,95

Costanzo Preve, come si diceva un tempo, è autore fecondissimo. Tuttavia, a differenza di altri studiosi altrettanto prolifici, ogni suo nuovo libro offre sempre un'idea, un concetto, uno spunto originale che ne rende la lettura preziosa. Il filosofo torinese appartiene a quella categoria di pensatori che addirittura regala, a quei lettori che sanno apprezzare, autentici tesori. Lo si può giustamente definire un generoso pescatore di perle...
E questa volta in cosa consiste il suo dono?
Il popolo al potere. Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici (www.ariannaeditrice.it) è interessante e importante per almeno due ragioni.
In primo luogo perché fornisce una "reinterpretazione" storica e filosofica della storia della democrazia come idea e fatto al tempo stesso. E in duecento pagine non è poco. Soprattutto perché Preve a differenza di un libro, che tra l'altro lui garbatamente cita, come quello di Luciano Canfora, La democrazia storia di un'ideologia (Laterza 2004), riesce a conservare un equilibrio e una "aporeticità" ( dal momento che i "lati positivi e negativi" della democrazia "non possono essere separati con la lama di un coltello", p. 152), totalmente assenti nel fin troppo celebrato studio di Canfora. Il quale nel suo libro laterziano confonde disastrosamente, a differenza di Preve, ideologia e utopia (nel senso dato ai termini da Mannheim): perdendo il bandolo della matassa, fino al punto di disorientare i lettori e scontentare gli specialisti.
In secondo luogo perché Preve non analizza la democrazia come forma e/o contenuto, ma ne studia a fondo la matrice antropologica, come dire, l' a priori antropologico (non in senso kantiano dunque, ma lévi-straussiano). E in quest'ultimo aspetto consiste l'originalità del libro. Per il filosofo torinese il problema della democrazia non è istituzionale (come separazione tra ideologia e utopia, tra reinterpretazione dell'idea e duri fatti, tra forma e contenuto come ad esempio in Canfora), ma "antropologico", dal momento che la "democrazia è un insieme di pratiche comunitarie" (p. 15): è forma e contenuto. La "democrazia, scrive, essendo una pratica politica in corso e non un obiettivo statico e conclusivo da perseguire, è indistingubile dalle forme della sua messa in atto attiva" ( p.152). Appunto perché l'uomo, dal punto di visto antropologico, è un' entità plastica, sociale, aperta al mondo, mai predeterminata (su questi aspetti si veda anche il suo Del buon uso dell'universalismo, Elementi di filosofia politica del XXI secolo, Edizioni Settimo Sigillo 2005, www.libreriaeuropa.it): è anch'esso forma e contenuto. Insomma anche l'uomo è una "pratica antropologica in corso". L'uomo è un essere "in fieri" e di conseguenza politica e democrazia non sono una scienza, o se proprio devono essere tali, vanno trattate come discipline eraclitee, in divenire... Di qui l'importanza di una educazione alla democrazia, come un "processo" capace non di "trasformare" scientificamente l'uomo, come ha sempre preteso ogni forma di totalitarismo, ma di "formarlo" partendo dalla sua apertura al mondo.
Come si vede si tratta di un libro ricco e coinvolgente, che ruota intorno a una originale visione "antropologica" della democrazia. Che tuttavia, come ogni concezione in certo senso precorritrice non può rispondere subito a tutti problemi sollevati. Uno in particolare : se il processo democratico e dunque educativo, come scrive Preve, è "per sua natura interminabile e, nello stesso tempo, si determina spazialmente e temporalmente di volta in volta" (p. 116), chi stabilirà, di volta volta, come dire, il "giusto mix" di valori, sotto l'aspetto spaziale e temporale? Preve risponderebbe, il popolo stesso... Certo, ma allora perché parlare di un processo che "progressivamente costituisce l'umanità, intesa come società universalistica e razionale" (p. 116)? Non si introduce così un elemento "finalistico" estraneo al processo stesso? E che confligge con l' apertura antropologica dell'uomo e con la non conclusività del processo democratico?
Se c'è un fine ultimo, prestabilito (la "società universalistica razionale") l' apertura non rischia di trasformarsi in chiusura?