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Terra di Lavoro non votò per i Savoia

di Fernando Riccardi - 27/03/2009

 



Il 26 ottobre del 1860, a Teano o giù di lì (i più propendono per la contrada di Taverna Catena), avvenne lo storico incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II. A conclusione della sua mirabolante impresa il prode nizzardo depose nelle mani del re sabaudo l’intera Italia meridionale con tutta la sua storia e i suoi tesori. Cinque giorni prima, il 21 ottobre, si era tenuto il cosiddetto “plebiscito” per legittimare o, per lo meno, ammantare di una parvenza di legalità un’operazione militare che di lecito aveva ben poco. Non si poteva, infatti, abbattere una dinastia regnante e sostituirla impunemente con un’altra, senza ottenere l’investitura da parte dei “sudditi” che quel territorio abitavano. Vittorio Emanuele non poteva scendere nel sud senza prima assicurarsi il parere favorevole della popolazione o, per lo meno, di gran parte di essa. Per questo motivo si escogitò l’espediente del plebiscito chiamando i meridionali a pronunciarsi. Schiacciante la maggioranza a favore dell’annessione: si registrò una percentuale che oggi si direbbe bulgara. I dati ufficiali parlano di 1.302.724 ‘si’ contro appena 10.328 ‘no’. Assai elevata la percentuale delle astensioni. L’ambasciatore inglese Elliot riferiva al suo governo che “i risultati del plebiscito rappresentavano appena il 19 % degli elettori”. La legittimazione, comunque, era stata ottenuta, il risultato raggiunto così come auspicava il prodittatore Giorgio Pallavicini in una lettera inviata il 12 ottobre ai governatori delle province meridionali: “La più bella accoglienza che noi possiam fargli è quella di proclamarlo con libero ed unanime suffragio Re d’Italia”. Tutto fu architettato a dovere e dal voto non vennero fuori spiacevoli sorprese. Anche perché non potevano venirne. Le consultazioni si svolsero in un’atmosfera di pesante intimidazione con i votanti che entravano nella stanza delle urne in mezzo a due ali di garibaldini vocianti e minacciosi che controllavano ogni cosa. Il voto, poi, non fu segreto ma palese e perciò facilmente controllabile. Nella sala vi erano “su di un apposito banco tre urne, una vuota nel mezzo, e due laterali, in una delle quali saranno preparati i bullettini col sì, e nell’altra quelli del no, perché ciascuno votante prenda quello che gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota”. Il votante, quindi, adempiva il suo dovere senza alcuna garanzia di libertà di espressione. I “bullettini” già prestampati erano di colore bianco per il ‘no’ e rosa per il ‘sì’. Il che rendeva ancora più riconoscibile il voto. Alla fine delle operazioni non vi fu alcuna corrispondenza tra iscritti nelle liste elettorali e votanti, senza considerare che lo scrutinio, un po’ ovunque, fu grossolanamente falsato. Ma, e qui viene il bello, in alcune province dell’ex regno di Napoli non fu possibile chiamare i cittadini al voto.
Come in buona parte della Terra di Lavoro, al di là del Volturno, ancora occupata dall’esercito borbonico. Non si può dimenticare che Capua capitolò il 2 di novembre, mentre la fortezza di Gaeta si arrese alle bombe poco intelligenti di Cialdini soltanto il 13 febbraio del 1861. E così su 238 comuni le operazioni di votò si svolsero solamente in 89. Nella porzione più settentrionale della provincia, da San Germano (l’odierna Cassino) a Sora, dove l’insorgenza era molto forte, il plebiscito non si tenne. I cittadini di quei paesi, insomma, non furono chiamati alle urne per esprimere il loro parere. E, qualora si fosse votato, non avrebbero avuto difficoltà a pronunciarsi contro l’annessione. Non è un caso, del resto, che in questo lembo di territorio il fuoco del brigantaggio divampò virulento e inarrestabile per tutto il decennio post-unitario. Con il plebiscito, comunque, i Savoia ottennero la legittimazione formale ad insediarsi nell’Italia meridionale. Ad esso fu dato un grande risalto mediatico tanto che uno dei luoghi simbolo di Napoli da allora prese il nome di “Piazza del Plebiscito”. Si trattò, però, di un’operazione assai poco democratica. La gran parte della popolazione del sud, quella che non votava perché non aveva niente, quella abituata a spezzarsi la schiena per lavorare una terra che era sempre di altri, gli “stranieri” piemontesi proprio non li voleva. E se con i Borbone non se la passavano bene, con i nuovi governanti, molto più arroganti e prepotenti, finirono per stare decisamente peggio. Per questo in tanti se ne andarono in montagna con lo schioppo in spalla e diventarono briganti. Alla faccia del plebiscito, quel maledetto imbroglio.