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L'esperienza del non-sé

di Bernadette Roberts - 27/03/2009

 

Capitolo primo


La mia passata esperienza mi aveva portato a conoscere intimamente vari tipi e livelli di silenzio. C’è un silenzio interiore; c’è un silenzio che discende dall’esterno; un silenzio che ferma l’esistenza e un silenzio che inghiotte l’universo intero. C’è un silenzio del sé e delle sue facoltà: volontà, pensiero, emozione. C’è un silenzio in cui non c’è nulla, un silenzio in cui c’è qualcosa; c’è infine il silenzio del non-sé e il silenzio di Dio. Se esistesse un sentiero su cui poter segnare le tappe della mia esperienza contemplativa questo sarebbe il sentiero sempre più vasto e profondo del silenzio.

In un’occasione, tuttavia, è sembrato che questa strada fosse giunta al termine: è stato quando sono penetrata in un silenzio da cui non sarei mai totalmente riemersa. Ma, prima di iniziare il racconto, devo fare una premessa: in precedenza, in alcune occasioni, ero sprofondata in un silenzio che pervadeva ogni facoltà in maniera così assoluta da provocarmi una sottile sensazione di paura. Era la paura di essere inghiottita, di perdermi, di essere annullata e cancellata, forse per sempre. In quei momenti, per tenere lontano il terrore, con un movimento interiore abbandonavo il mio destino a Dio. Era come un pensiero, un atto di volontà, una sorta di proiezione. E ogni volta che facevo questo, il silenzio si rompeva e io gradualmente tornavo al mio sé abituale e alla sicurezza. Finché un giorno le cose andarono diversamente.

Nella strada in cui abitavo, poco oltre casa mia, c’era un monastero sul mare, e i pomeriggi in cui potevo liberarmi e uscire mi piaceva trascorrere qualche ora da sola nel silenzio della sua cappella. Quel pomeriggio non era diverso dagli altri. C’era come ogni volta un silenzio diffuso, tentacolare, e come ogni volta io attesi che l’affacciarsi della paura lo rompesse. Ma in quest’occasione la paura non venne. Forse per l’abitudine dell’attesa o perché la paura era sotto controllo, per qualche secondo provai un senso di suspense, di tensione, quasi in attesa che la paura mi toccasse. Durante quei secondi di attesa, provai la sensazione di essere in bilico sull’orlo di un precipizio, o in equilibrio su una corda sottile, avendo il noto (me stessa) da un lato e l’ignoto (Dio) dall’altro. Un movimento di paura avrebbe voluto dire piegare verso il sé e il conosciuto. Sarei passata, questa volta, o sarei ricaduta nel mio sé, come sempre? Dal momento che non era in mio potere muovermi o scegliere, capii che la decisione non era mia; dentro di me era tutto calmo, silenzioso e immoto. In questa calma, non avvertii il momento in cui la paura e la tensione dell’attesa mi abbandonarono. Immobile, continuai ad aspettare un movimento proveniente dall’esterno e quando questo non venne restai semplicemente in una grande calma.

La suora stava agitando rumorosamente le chiavi della cappella. Era l’ora di chiudere, e l’ora di andare a casa, a preparare la cena ai ragazzi. In passato, era sempre stato difficile dovermi improvvisamente strappare a un silenzio profondo: le mie energie in quel momento erano al loro minimo e muovermi richiedeva altrettanto sforzo che sollevare un peso morto. Questa volta invece improvvisamente mi accadde di non pensare ad alzarmi ma di farlo, semplicemente. Penso che non fu una cosa da nulla quello che imparai, perché lasciai la cappella come una foglia portata dal vento. Ero sicura che una volta fuori avrei ritrovato le mie normali energie e il controllo della mia mente, ma quel giorno la cosa fu problematica: ricadevo continuamente nel grande silenzio. Andare verso casa fu una costante lotta contro la completa incoscienza, e quando cercai di approntare la cena fu come voler smuovere una montagna.

Per tre logoranti giorni, non feci che lottare per rimanere sveglia e tenere a bada il silenzio che a ogni secondo minacciava di sopraffarmi. L’unico modo in cui riuscii a sbrigare un minimo di faccende domestiche fu tenendo ostinatamente in mente quello che stavo facendo: adesso sbuccio le carote, adesso le taglio, adesso prendo una pentola, adesso metto l’acqua nella pentola, e così via, fino a quando ero così esausta che dovevo correre a letto. Non facevo in tempo a mettermi giù che sprofondavo nel vuoto. A volte mi sembrava di essere stata fuori di coscienza per ore, quando invece erano passati solo cinque minuti: altre volte avrei giurato che fossero passati solo cinque minuti quando invece si era trattato di ore. In quel vuoto non c’erano sogni, né la coscienza di ciò che mi circondava, non c’erano pensieri né esperienze: non c’era assolutamente nulla.

Il quarto giorno, sentii il silenzio alleggerirsi, così che potei stare sveglia con minore sforzo e, di conseguenza, trovai il coraggio di andare a fare la spesa. Non so come accadde, fatto sta che a un tratto mi trovai a essere scossa da una signora che mi chiedeva se stessi dormendo. Le sorrisi, cercando di orientarmi, poiché sul momento non avevo la più pallida idea di come fossi finita in quel negozio o di cosa stessi facendo. Per cui, dovetti ricominciare tutto da capo: adesso spingo il carrello, adesso devo prendere delle arance, e via dicendo. La mattina del quinto giorno, non riuscii a trovare le pantofole in nessun posto, ma, al momento di preparare la colazione per i ragazzi, aprii il frigo e ci trovai qualcosa di decisamente assurdo.

Al nono giorno, il silenzio era talmente diminuito d’intensità che mi sentii sicura che, ancora un po’, e tutto sarebbe tornato normale. Ma, via via che passavano i giorni e mi riscoprivo in grado di funzionare come al solito, notavo contemporaneamente che c’era qualcosa che mancava, per quanto non riuscissi a toccarlo con mano. Qualcosa, o meglio una parte di me, non era tornato. Una parte di me era ancora in silenzio. Era come se un pezzo della mia mente avesse definitivamente calato la serranda. Me la presi con la memoria, che era l’ultima a tornare; quando questa infine tornò, mi accorsi che era diventata piatta e spenta, come la sbiadita pellicola di un vecchio film. Era morta. Non soltanto il passato lontano, ma anche quello di pochi minuti prima, si erano come svuotati.

Ora, quando qualcosa è morto, si rinuncia presto a volerlo risuscitare; allo stesso modo, quando la memoria si è spenta, uno impara a vivere come non avesse un passato, impara a vivere nel momento presente. Che questo ora potesse avvenire senza sforzo, e non per disperazione, era il risultato positivo di un’esperienza altrimenti massacrante. E anche quando riconquistai la memoria pratica, la capacità di vivere nel presente rimase. Con il ritorno della memoria pratica, tuttavia, ridimensionai la passata nozione di ciò che mancava e decisi che l’aspetto silenzioso della mia mente era in realtà una sorta di ‘assorbimento’, un assorbimento nello sconosciuto, che per me naturalmente era Dio. Era come una continua contemplazione del vasto, silenzioso Inconoscibile, una contemplazione che nessuna attività poteva interrompere. Questo fu un altro gradito risultato dell’esperienza iniziale.

L’interpretazione dell’aspetto silenzioso della mia mente come un ‘essere assorti’ sembrò bastare, come spiegazione, per circa un mese, quando cambiai di nuovo idea e decisi che l’assorbimento era in realtà consapevolezza, un particolare tipo di ‘vedere’; per cui quanto era realmente accaduto non era affatto una chiusura, ma piuttosto un’apertura; non era venuto a mancare nulla, era invece stato aggiunto ‘qualcosa’. Dopo un certo tempo, tuttavia, anche questa idea sembrò inadeguata; in un modo o nell’altro non mi soddisfaceva più; era accaduto qualcos’altro, per cui decisi di andare in biblioteca, per vedere se potevo risolvere il mistero con l’esperienza di qualcun altro.

A questo punto scoprii che, se non fossi riuscita a trovare quanto cercavo nelle opere di san Giovanni della Croce, probabilmente non lo avrei trovato in assoluto. E sebbene le opere del Santo mi fossero familiari, non riuscii a trovarvi nessuna spiegazione della mia specifica esperienza; né mi riuscì di trovarla in un solo libro della biblioteca. Ma fu tornando a casa quel giorno, mentre scendevo giù per la collina, avendo di fronte la vista della vallata e dei monti all’intorno, che a un tratto rivolsi lo sguardo al mio interno: e ciò che vidi mi fece fermare di colpo. Al posto del familiare, seppure non localizzato, centro di me stessa, non c’era nulla: c’era il vuoto. Nello stesso momento in cui vidi questo, fui invasa da un flusso di calma gioia e seppi, finalmente, cos’era ciò che mancava: era il mio ‘sé’.

Fisicamente, fu come se mi fosse stato tolto un grande fardello di dosso; mi sentivo così leggera che lo sguardo mi corse ai piedi, sembrava che non poggiassero a terra. In seguito riflettei sull’esperienza di san Paolo: “Ora non io, ma Cristo vive in me”, e mi resi conto che, nonostante il vuoto, nessun altro era entrato a prendere il mio posto; per cui decisi che Cristo era la gioia, il vuoto stesso; Egli era tutto quanto rimaneva di questa esperienza umana. Per giorni mi portai dentro questa gioia, così grande, in certi momenti, che mi stupivo della solidità della diga e mi chiedevo per quanto tempo ancora avrebbe retto.

Considero quest’esperienza il culmine della mia vocazione contemplativa. Era la conclusione di una domanda che mi aveva assillato per anni: dove finisco ‘io’ e comincia Dio? Anno dopo anno, il confine che ci separava era diventato così sottile e vago che per la maggior parte del tempo non riuscivo a vederlo, eppure la mia mente continuava a voler sapere: che cosa è Suo e che cosa mio? Ora il problema era superato. Non c’era più ‘il mio’, c’era soltanto il Suo. Avrei potuto vivere in questo stato di gioia per il resto della vita, ma non era scritto così nel Grande Piano. Sarebbe stata questione di giorni, forse una settimana, e la mia intera vita spirituale – il lavoro, il travaglio, le esperienze e i traguardi d’una vita – sarebbe improvvisamente esplosa in un milione di pezzi mai più recuperabili: senza lasciare nulla, assolutamente nulla.

Capitolo secondo

 

 

Quando la gioia che mi dava il vuoto cominciò a svanire, decisi di rinvigorirla trascorrendo qualche tempo in solitudine, e in contemplazione del mio vuoto sé. Quantunque il nucleo centrale del sé fosse scomparso, ero sicura che il vuoto che restava, con il suo silenzio e la sua gioia, fosse Dio stesso.

Così un giorno, con una decisione totalmente edonistica, mi sistemai comodamente e volsi lo sguardo al mio interno. Quasi immediatamente, lo spazio vuoto cominciò ad espandersi, e si espanse così rapidamente da dare l’impressione che potesse esplodere. A questo punto avvertii alla bocca dello stomaco la sensazione di chi precipita per cento piani in un ascensore non-stop e sentii che nella caduta mi veniva aspirato ogni senso di vita. Al momento di toccare terra, la consapevolezza: quando non c’è sé personale, non c’è neppure Dio personale. Vidi chiaramente come i due procedano insieme: quantunque non abbia mai scoperto dove siano andati.

Per un po’ restai lì, mentalmente ed emotivamente senza riflessi. Non riuscivo a pensare a ciò che era accaduto, il mio essere non rispondeva in nessun senso. Attorno a me c’era solo silenzio, e in quel completo silenzio attesi a lungo che si instaurasse un qualche tipo di reazione, che prima o poi accadesse qualcosa: ma non accadde nulla. In me non c’era alcun senso di vita, né movimento o emozione; alla fine mi resi conto che non avevo più un ‘dentro’ in assoluto.

Contemporaneamente alla caduta, s’era fatta una pulizia interiore così completa che non avrei avuto mai più l’impressione di possedere una vita che potessi chiamare mia, o un genere di vita qualsiasi. La mia vita interiore o spirituale era finita. Finita l’introspezione: da allora in poi i miei occhi poterono soltanto guardare fuori. Quando questo accadde, non potevo immaginare le terribili ripercussioni che l’improvviso evento avrebbe avuto. Le avrei apprese poco a poco, ed esclusivamente sul piano dell’esperienza: la mia mente non poteva comprendere cosa fosse accaduto, dal momento che l’evento e tutto quanto gli fece seguito esulavano da qualsiasi schema di riferimento a me noto. Da quel momento in poi, dovetti letteralmente cercare a tentoni il percorso lungo una strada del tutto sconosciuta.

Il primo pensiero che ebbi fu: oh no, non un’altra Notte Oscura! L’esperienza mi aveva abituata a queste sparizioni di Dio ed era piuttosto deprimente pensare che non fossero finite. Ma quando non riconobbi nessuna delle reazioni abituali – qualsiasi cosa dall’ansia al tormento, a voi il definirle – sentii che l’esperienza non aveva nulla a che fare con quanto ha descritto Giovanni della Croce e accantonai il concetto. Fra l’altro, non faceva alcuna differenza: dovevo semplicemente affrontare la realtà del qui e ora, una realtà in cui non avevo senso della vita.

Per cui stavo lì, totalmente lucida, in salute, con le varie facoltà intatte, naturalmente viva; in una parola, con tutto il mio organismo regolarmente funzionante: ma non sentivo la vita. Che fare a questo punto? Decisi che potevo darmi un avvio preparando il pranzo; ma, come mi mossi, tutti i movimenti abituali risultarono a un tratto così meccanici che mi sembrò di essere diventata un robot: non riuscivo più a infondere in ciò che facevo alcuna energia personale. Sbrigai le faccende senza che un filo di vita le sostenesse e ogni gesto fu totalmente meccanico, un semplice riflesso condizionato.

Dopo un po’ la cosa diventa opprimente e si comincia ad avere la pressante necessità di trovare la vita, da qualunque parte. Nella speranza di trovarla, uscii in giardino e restai lì, a guardarmi in giro. Sapevo che intorno a me c’era la vita, ma non riuscivo a sentirla; così mi aggirai come un cieco, toccando ogni cosa: le foglie, i fiori; mi protesi, afferrai i rametti del pino e me li lasciai scivolare fra le dita; chinandomi, affondai le mani nel terreno. Alla fine mi sdraiai sull’erba, a palme in giù, e guardai il cielo attraverso i rami del pino, sentendo il venticello passarmi addosso. Era bello stare lì; era tutto a posto. Intorno a me c’era la vita, anche se dal mio interno era sparita.

Più tardi quel pomeriggio, prima che tramontasse il sole, mi spinsi in un posto dove andavo sempre nei momenti di crisi: il rifugio degli uccelli della zona. Distava solo qualche centinaio di metri da casa mia e il percorso offriva splendidi scorsi sul mare, con le sue ampie spiagge e le colline alte contro il cielo, alle spalle del rifugio. Di regola mi arrampicavo solo per un piccolo tratto: oltre il ceppo su cui mi sedevo, c’era un acquitrino la cui acqua fangosa diventava sempre più profonda, via via che si avvicinava a uno dei laghetti formati dal fiume al momento di sfociare in mare. Ma quel giorno mi tolsi scarpe e calze e mi arrampicai nel cuore del rifugio, finché non trovai una piccola roccia affiorante appena sulla melma. Sedetti qui, fra le alte canne e le piante selvatiche, e sprofondai letteralmente nella vita che mi circondava e che, ben presto, mi sommerse.

Mi ero sempre sentita a casa mia in quel luogo. C’era una grande pace e una misteriosa tranquillità. Sapevo per esperienza che non serve pensare per risolvere i problemi della vita; solo se stavo qui, all’aperto, nel cuore della vita vera, spontaneamente avrei visto separarsi quello che aveva un senso da quello che non ne aveva; e una volta tornata a casa, ogni domanda inutile sarebbe stata spazzata via e avrei distinto chiaramente la strada da seguire. E anche quel particolare giorno sentii di essere a casa, probabilmente lo sentii come non mai fino ad allora. Intorno al masso, la vita era intensa e brulicava e traboccava, compensando la mia mancanza di vita a tal punto che era come se niente fosse accaduto. Non c’era dubbio: era questo il mio posto, circondata e protetta da questa cosa elusiva e onnipervadente chiamata ‘vita’. Dopotutto, forse nessun uomo è meglio degli elementi di cui è composto, dato che questi elementi sono la sua stessa vita, pensavo: anche se non sapevo come potesse essere così. Quel che contava era essere lì, nient’altro.

Le settimane seguenti le trascorsi quasi sempre fuori di casa. La vita in casa era divenuta quasi intollerabile: ora era così monotona, spenta e priva di energie personali che tutto quanto riuscivo a fare era sbrigare le indispensabili faccende domestiche, nient’altro. Mentre all’aperto, dovunque fossi, la vita scorreva piena di pace, dimentica, inconoscibile: ed era lì che io dovevo stare. Così vagabondai per le colline, le rive del fiume e la spiaggia, semplicemente guardando, osservando, stando lì.

Sebbene avessi guardato e osservato per tutta la vita, questa volta era diverso, perché non riuscivo a trovare negli alberi, nei fiori di campo o nell’acqua più vita di quanta ne trovassi in me stessa; eppure tutt’intorno c’era vita. È strano come la mente voglia localizzare e definire in dettaglio questa cosa inconoscibile chiamata vita, e quando ha soddisfatto le sue domande si lasci accecare dalla conoscenza e si tagli fuori per sempre dall’unica vera sicurezza che possiede… o questo è quanto avrei presto appreso. Per il momento, tuttavia, io ero alla ricerca di questa sicurezza e non riuscivo a trovarla. Quantunque ogni cosa sembrasse vuota come ero io stessa, sapevo che da qualche parte in natura c’era la vita, e per il momento volevo soltanto essere là e farne parte.

Su una scogliera sul mare, prospiciente un’insenatura rocciosa dove spesso sonnecchiavano le foche, c’era un cipresso nodoso e battuto dal vento, uno dei miei posti favoriti… fino al giorno in cui la guardia forestale mi disse di andarmene per non contribuire all’erosione del suolo. Fra le radici contorte, che impedivano ogni altra vegetazione, c’era un posto in cui sedere senza schiacciare un solo soffione né disturbare la variegata flora che rendeva la scogliera così pittoresca.

Fu qui che la natura mi cedette finalmente il suo segreto, in un semplice momento senza tempo in cui scorsi la chiave di tutto. Non era Dio, ovvero la vita, a essere nelle cose. Era esattamene l’opposto:le cose, ogni cosa, erano in Dio. E noi non eravamo in Dio come gocce d’acqua, che possono separarsi dal mare, ma piuttosto come… beh, l’unico paragone che mi venisse in mente era quello di quando si tira un pizzico a un palloncino: se pizzichi un punto e cerchi di staccarlo, scoppia tutto. L’operazione è impossibile. Non si può dividere una cosa da Dio, perché non appena si lascia andare il concetto di divisione ogni cosa ricade nella totalità di Dio e della vita.

Ma vedere che questo principio è in atto non è lo stesso che spiegarlo. Una cosa è certa: fintanto che restiamo prigionieri delle parole, delle definizioni e di tutto ciò a cui di regola si attacca la mente, non potremo mai vedere la realtà. E fintanto che non riusciremo a superare i nostri concetti sulla vera natura della vita, non potremo renderci conto di quanto in realtà siamo totalmente al sicuro e di come tutta la lotta per la sopravvivenza e la sicurezza individuale sia un assoluto spreco di energia.

Questa intuizione comportò una nuova apertura. Cominciai a vedere le cose diversamente e, soprattutto, smisi di andare di qua e di là in cerca della vita: è chiaro che la vita è ovunque; noi siamo in essa ed essa è tutto ciò che è.

Oggi, riconsiderando gli eventi, mi piace ricordare una particolare lezione appresa nel corso del viaggio. Ho imparato infatti che non basta una sola intuizione a produrre un reale cambiamento. Col tempo, ogni intuizione o illuminazione riesce a filtrare nel nostro schema di riferimento abituale, e una volta che l’abbiamo integrata essa si perde nel contesto della mente: la mente che tende per sua natura a corrompere qualsiasi illuminazione. Il segreto perché un’illuminazione diventi un modo permanente di conoscere e di vedere è nel non manipolarla, non attaccarsi ad essa, non farne un dogma, e neppure ragionarci su. Le intuizioni vanno e vengono, ma perché rimangano dobbiamo fluire con esse; diversamente, nessun cambiamento è possibile. È un errore pensare che, dal momento che ci è stata tirata la palla, sappiamo in che direzione correre. Forse le nostre più grandi intuizioni si perdono in questo modo: noi le caliamo nei nostri soliti schemi mentali e le blocchiamo lì. Ma se quando arriva la palla siamo realmente pronti, il puro e semplice slancio ci solleverà e ci deporrà sulla corrente, dovunque questa stia andando. Se io ho passato quello che ho passato, è stato solo perché dovevo apprenderlo con le maniere forti, dato che quando i pezzi non combaciavano o quando un’intuizione non si adattava ai miei schemi mentali, io entravo totalmente in crisi. Avrei potuto risparmiarmi un sacco di guai se non mi fossi affannata a rincorrere e voler risolvere i miei insolubili quesiti.

Un esempio di che cosa vuol dire imparare con le maniere forti mi capitò a questo punto, con lo svanire di ogni senso del possesso di una vita individuale, per cui fui costretta a cercare la vita al mio esterno. Erano ormai più o meno cinquant’anni che vivevo sentendo la vita al mio interno, così che il periodo era molto difficile: un periodo di transizione e di adattamento, senza la possibilità di vedere davanti o di comprendere cos’era accaduto. Tuttavia feci del mio meglio, e poiché ero abituata a fare la comunione ogni giorno, pensai che avrebbe potuto essermi d’aiuto portare sempre con me l’Eucaristia, in un medaglione che avevo appeso al collo. In seguito alla scomparsa della vita interiore, la normale pratica dell’Eucaristia non aveva più su di me alcun effetto. Mentre in passato mi capitava di venire risucchiata nel suo misterioso silenzio, ora non si verificava più niente del genere; se mai, c’era troppo silenzio. Perciò, visto che l’Eucaristia non riusciva più a restituirmi il senso di una vita interiore, sentendomi doppiamente perduta, decisi che potevo almeno portare l’ostia con me nella mia ricerca di Dio all’esterno.

Dopo alcune settimane, però, mi resi conto che l’espediente non funzionava: non me ne veniva nessun senso di vita, nessuna sicurezza; la situazione era esattamente quella di prima. Fu a questo punto che, il giorno che ho detto, sotto il cipresso, consumai l’ostia e vidi che tutte le cose sono in Dio e che Dio è più vicino e più personale di quanto avessi mai osato aspettarmi. Sentire all’improvviso e con tutta te stessa che vivi e cammini in Dio significa superare totalmente e per sempre il senso di perdita conseguente alla scomparsa di una vita personale.

Se non altro, questo incidente, con molti altri che qui tralascio, testimonia il continuo sforzo di aggrapparmi al mio abituale schema di riferimento, un aggrapparmi che non portò a nulla, finché non abbandonai la presa. Potrei aggiungere che fra le tante idee precostituite che dovetti abbandonare ci fu l’idea stessa dell’abbandono: non ero io che avevo abbandonato il mio sé a Dio, ma piuttosto Dio che aveva abbandonato del tutto il mio sé. Aggiungerò anche che, una volta superato il sé, tutto svanisce, anche ‘quello’ che mi sarei aspettata sarebbe rimasto.

Una settimana o due dopo l’illuminazione di cui sopra stavo facendo ritiro spirituale con i Monaci Eremiti, a Big Sur. Credo fosse il secondo giorno, nel tardo pomeriggio: me ne stavo sulla collina battuta dal vento, di faccia all’oceano, quando apparve all’orizzonte un gabbiano. Planava, si tuffava, giocava col vento. Lo contemplai come non avevo mai contemplato nulla in vita mia. Sembrava fossi ipnotizzata: era come vedere volare me stessa, non c’era fra noi la consueta separazione. E insieme, c’era qualcosa di più che non la semplice mancanza di separazione, qualcosa di realmente meraviglioso e inconoscibile. Volsi infine gli occhi alle colline ricoperte di pini alla spalle del monastero: e anche ora non ci fu divisione, solo una sorta di ‘presenza’, che fluiva con e attraverso ogni vista e ogni particolare oggetto di contemplazione. Vedere l’Unità di tutte le cose è come osservare il mondo attraverso speciali lenti tridimensionali: ecco che cosa si intende quando si dice che Dio è in ogni luogo, pensai.

Avrei potuto restare lì in contemplazione per il resto della mia vita, ma dopo un po’ mi sembrò che fosse tutto troppo bello per essere vero; era uno scherzo della mente, bastava che suonasse la campana e sarebbe tutto sparito. La campana infine suonò, e suonò il giorno dopo, e i giorni dopo ancora per tutto il resto della settimana, ma le lenti tridimensionali rimasero al loro posto, intatte. Quello che avevo preso per un inganno della mente doveva diventare un modo permanente di vedere e di conoscere (che farò del mio meglio per descrivere), via via che il mio mondo dall’interno si spostava sempre più all’esterno. Non sarei più tornata al vecchio modo di vedere la divisione e l’individualità; ma si badi bene, non è il cancellarsi della divisione che conta. Ciò che è importante in questo modo di vedere è Quello in cui la divisione si dissolve.

Prima di andare oltre e provare a descrivere questo nuovo modo di vedere, vorrei dire che con la scoperta che Dio è dappertutto, con la scoperta della sua Unicità, come io la definii, fui compensata mille volte della perdita di un Dio personale al mio interno, e della confusione che questa mi provocò. Sembra che dovessi passare attraverso il personale prima e l’impersonale poi, per poter realizzare che Dio è più vicino tanto del primo che del secondo e li trascende entrambi.

L’idea e le esperienze di Dio come essere personale dentro di noi e impersonale fuori di noi sono qualcosa di puramente relativo, che ha che fare con sé e con il suo particolare tipo di coscienza. Dio è in ogni caso al di là della relatività della nostra mente e delle nostre esperienze; in realtà ci è così vicino che non riusciamo mai a localizzarlo. Ma nel momento stesso in cui si scorge e si realizza questa vicinanza, si scopre che Dio è dovunque ed è insieme tutto ciò che esiste: dovunque si guardi, non c’è altro da vedere. In verità Dio non è nel personale né impersonale, né interiore né esteriore, ma è ovunque nel suo complesso e qui e ora in particolare. In parole semplici: Dio è tutto ciò che Esiste. Tutto, naturalmente, tranne il sé.

 

 

Capitolo terzo

 

 

Alla fine si rivelò assolutamente indispensabile apportare alcuni cambiamenti al mio modo di vivere. Per il momento almeno, mi era diventato impossibile sopportare il flusso costante di banalità e rumore che costituiva il mio ambiente quotidiano. Venute a mancarmi le energie necessarie per controllare e tenere in pugno le condizioni spesso caotiche della casa, la mia efficienza come madre di quattro ragazzi adolescenti crollò bruscamente a zero. Quando il sé non domina più il campo, non c’è più modo di attivare gli abituali meccanismi e il fardello dell’esistenza si abbatte direttamente sulle energie del solo corpo fisico. Pur non avendo mai l’impressione di essere nervosa, agitata, ansiosa e via dicendo, sentivo chiaramente che continuare in quella routine avrebbe significato accettare di portare all’infinito sulle spalle un peso morto; e non riuscivo a farlo.

Fino a quando non mi fu tolto di sotto i piedi il tappeto del mio ‘sé’ non mi ero mai resa conto che il mio agire quotidiano dipendeva totalmente dai vapori che producevo io stessa: intendo vapori della mente e delle emozioni, non vapore fisico. Sembra che l’uomo possieda un’incredibile riserva di energie sottili di cui non ha coscienza fino a che non la perde: per quanto tardi, dovevo accorgermi che queste energie sono in realtà le difese del sé contro il proprio annientamento. Al momento, tuttavia, imparare a sopravvivere senza energie mie proprie mi richiedeva un sacco di tempo: in realtà significava imparare a vivere completamente da capo, e quantunque ora, a distanza di tempo, la cosa mi sia chiara, quando accadde mi lasciò disorientata e confusa come se d’improvviso avessi perso l’uso degli arti.

Quello di cui sembrava avessi bisogno erano grandi estensioni di tempo, che mi permettessero un ininterrotto silenzio e il contatto con la natura: soltanto in quelle condizioni, infatti, mi sentivo a mio agio e in sintonia col flusso della vita. La cosa che infine feci fu sistemare sul bagagliaio l’attrezzatura da campeggio e partire alla volta delle foreste delle Alte Sierre. Qui vissi accampata per cinque mesi, e cioè fino a quando la neve non cadde, costringendomi a scendere a valle.

Andai sulle montagne per imparare a vivere in un modo nuovo: senza tempo né pensiero, senza le emozioni, i sentimenti e le energie del sé. Non avevo la più pallida idea di come sarebbero andate le cose; tutto quanto sapevo era che dovevo andare a scoprirlo. Le scoperte furono numerose e avrei tanto da dire su questa avventura, ma credo di poterla sintetizzare così: prima di trascorrere quel periodo sulle montagne non avevo mai realmente vissuto. Non c’era stato un giorno nella mia vita in cui avessi vissuto, prima d’allora. Senza alcun dubbio entrai nella Grande Corrente, fondendomi così totalmente con essa che nessuna idea di estasi, beatitudine, amore, felicità è pari alla straordinaria semplicità, limpidezza e completezza di quella esistenza.

Non c’è nulla di accidentale, gratuito, semplicistico nella vita della foresta. Al contrario, ogni cosa è vitale, totalmente sveglia, dinamica e intelligente. Non è una vita libera. La Grande Corrente prende la guida portando tutto con sé e che la si segua o no non ha importanza. Non c’è tempo di uscire dalla corrente o di fare una pausa: in breve, è una vita in cui non c’è nulla ma assolutamente nulla che sia privo di significato.

Uno dei grandi misteri che speravo di risolvere in quella solitudine montana era: cosa in noi vede questa unità dovunque?

Per rendere più chiara la domanda devo tornare un po’ indietro, alle settimane seguite a quel primo ‘vedere’, sulla strada per la collina dei monaci.

Gradualmente, avevo cominciato a notare un cambiamento in quel tipo di percezione visiva. Mentre inizialmente essa era stata molto confusa e generica, presto mi accorsi che quando mi concentravo fisicamente su un fiore, un animale, un’altra persona o qualche oggetto particolare, lentamente la peculiarità di questo recedeva in una confusa Unità, così che nella mia mente l’individualità dell’oggetto andava perduta. A livello visivo, naturalmente, non cambiava nulla, il cambiamento era soltanto nella qualità della percezione in quanto tale. Fino ad allora, non mi era mai capitato di pensare che avevo sempre data per scontata l’individualità di tutti gli oggetti della percezione visiva. Senonché ora, col sovrapporsi ai miei occhi delle lenti tridimensionali, diventava impossibile per la mente percepire o trattenere una qualsiasi individualità: tutti gli oggetti visivi svanivano dalla mente, facendo posto a qualcosa d’altro, o venivano ‘visti attraverso’: non so quale sia la descrizione più esatta del fenomeno. Potrei anche aggiungere che, quantunque non capisca il meccanismo del cambiamento di percezione, considero quest’ultimo uno degli eventi più significativi di tutto il viaggio, poiché non solo è rimasto come carattere permanente e irreversibile della percezione, ma sembra sia stato il necessario veicolo attraverso cui dovevo pervenire al ‘vedere’ finale.

La dinamica del fenomeno è realmente stupefacente. È un tipo di esperienza unico, ma, ripeto, ciò che stupisce non è la perdita di individualità dell’oggetto osservato quanto piuttosto quello in cui l’oggetto si fonde e alla fine scompare. Per il momento io lo chiamai Unità, e naturalmente Dio.

Sono sempre riluttante a usare il termine Dio, perché sembra che ognuno di noi si porti dietro le proprie consolidate immagini e definizioni, che ottundono totalmente la capacità di uscire dal proprio schema mentale, personale e angusto. Se noi abbiamo un qualche concetto di che cosa è Dio, questo dovrebbe necessariamente espandersi e cambiare via via che cambiamo e cresciamo noi stessi. Fa parte della natura stessa del nostro processo vitale: espandersi, sbocciare e fiorire. Come i fiori che per guardare la luce ruotano di 180 gradi su se stessi, anche noi a volte dobbiamo compiere un giro se vogliamo vedere ciò che È. Poiché non sappiamo in quale direzione guardare, dobbiamo attendere, come il fiore, che il sole sorga e ci attiri dolcemente in direzione della luce. Qualunque cosa sia ciò che chiamiamo realtà ultima, non possiamo definirla o caratterizzarla perché il cervello è incapace di elaborare quel tipo di dati: per cui non dobbiamo vedere le parole se non come un mezzo per descrivere un’esperienza umana, la cui natura non conosciamo realmente. Per quel che mi riguarda, l’aprirsi di tutto ciò su cui fissavo gli occhi rivelava una realtà in tutto e per tutto identica, sia che l’oggetto fosse animato o inanimato. È per questo che l’ho chiamata Unità. Se si preferisce chiamarla diversamente, per me fa lo stesso. È vederla ciò che conta.

L’aspetto misterioso di questo vedere era che, mentre riuscivo a mettere a fuoco gli oggetti intorno a me, non riuscivo in nessun caso a mettere a fuoco me stessa. Era impossibile, come guardarsi negli occhi senza uno specchio. Mi sentivo un osservatore esterno intento a osservare un’Unità che includeva tutto fuorché lui stesso. Era come se io non facessi parte di quell’Unità e non facessi parte neppure dell’universo: in realtà non riuscivo a vedere come e dove esistessi. Oltre al corpo, c’era soltanto questo vedere, nient’altro, e questa stessa percezione visiva in realtà non mi apparteneva perché non era localizzata in nessun punto preciso della mia struttura mentale e fisica: sembrava invece risiedere in cima alla testa o leggermente al di sopra di questa, in direzione della fronte. Quantunque continuassi a riferirmi a quella facoltà visiva come ai miei fantastici occhiali, per la sua caratteristica tridimensionale, ero sicura che fosse estranea tanto alla mente che al corpo fisico ordinari.

Mentre cercavo di comprendere la natura del fenomeno, mi imbattei nel concetto di ‘coscienza originaria dell’uomo’, ovvero del tipo di coscienza che tutti noi abbiamo inizialmente. Come ex studiosa dello sviluppo infantile, sapevo che il bambino possiede una coscienza non-relativa, in cui non c’è distinzione fra il soggetto (se stessi) e l’oggetto: di conseguenza al bambino manca la nozione di sé. Inoltre, come è noto, il bambino non pensa, non possedendo ancora un contenuto coscienziale, così come non possiede un contenuto mnemonico. Per cui, alla nascita, siamo tutti privi di una mente riflessiva, autocosciente: condizione che, a mio avviso, coincide con quella del ‘vedere’. Per l’adulto, quindi, vedere può essere un ritorno alla forma originaria della coscienza, una forma che stranamente non sembra ostacolare le normali funzioni della mente pratica. Ecco così che, nel processo di regressione alla nostra coscienza originaria, dobbiamo imparare a vivere senza l’autocoscienza: il lavoro di una vita, probabilmente. E questo non è un viaggio facile da intraprendere. Ma è eccitante pensare che possiamo intraprenderlo in assoluto, e ancora più eccitante è riflettere su quel che accadrebbe se ogni uomo potesse vivere come in origine era destinato a vivere.

Per un certo tempo sembrò che l’idea della coscienza originaria dell’uomo potesse spiegare la natura della mia particolare percezione visiva: ma un giorno scoprii che qualcosa non funzionava nel mio ragionamento. Dal momento che, a quanto pare, il ‘vedere’ non ha autocoscienza, esso di per se stesso costituisce un soggetto, esattamente come l’Unità da esso vista costituisce un oggetto: la distinzione fra il vedere e l’Unità mi è sempre stata chiara e non ha mai dato adito a confusioni. Ecco quindi che in questo caso il vedere (o osservare) non è identico al visto (o osservato): il che, anche in assenza di un sé che agisse il vedere, mi riportava direttamente a un piano puramente relativo di esistenza. Questo significa che la coscienza del bambino può in realtà essere relativa anche se non è autoriflettente. Ma, comunque stiano le cose, io non sono mai riuscita a trovare una connessione fra il vedere e l’Unità: come ho detto, ogni volta essi sono stati separati e distinti.

Mesi dopo, lo stesso problema dell’esistenza o no di una connessione emerse durante una conversazione, e mentre cercavo una risposta, le nozioni di coscienza originaria, vedere e Unità sembrarono fluttuare oltre la finestra e su per la collina, fino a quando non scomparvero finalmente alla vista da qualche parte sopra l’oceano. Così il problema del rapporto fra il soggetto e l’oggetto del vedere rimase irrisolto. Ma al tempo di cui parlo, io mi ponevo ancora dei quesiti, dal momento che da nove interi mesi vivevo con i fantastici occhiali sempre a fuoco sull’Unità, un’Unità che vedevo dovunque, e nulla faceva pensare che le cose sarebbero cambiate.

Questo non significa che io non trovi ancora interessante riflettere su che cosa il bambino possa realmente conoscere e vedere prima che la sua mente sia condizionata dall’ambiente. Contemporaneamente si può prendere in esame la forma di coscienza propria dell’animale e l’eventualità che quest’ultimo possa conoscere e vedere qualcosa che l’uomo, nella sua costante lotta per la sopravvivenza del sé, ha perduto. Ancora, chi può dire quale enorme intelligenza possa essere racchiusa negli stessi elementi che compongono l’uomo e l’universo, un’intelligenza priva di coscienza in assoluto? Una cosa è certa: con la nostra mente pensante, razionale, non arriveremo mai a capo di queste risposte. La nostra mente, strumento limitato qual è, è così continuamente occupata a servire il sé che non riuscirà mai ad affrontare ciò che travalica questi angusti interessi.

Lasciando da parte la questione di che cosa fosse quello che vedeva l’Unità, c’era l’altra domanda irrisolta di che cosa restasse in assenza del sé. Cos’è questo qualcosa che cammina e parla ed è consapevole dello sguardo sull’Unità? Per ovvio che fosse, io non sapevo che pensare di questo mistero e non riuscivo a concepire una sola spiegazione. Per quanto l’identità dell’Unità fosse nota, l’identità dell’occhio che la vedeva, così come ciò che restava in assenza del sé, era impossibile a individuarsi. Di sicuro fra l’Unità, l’occhio e il sé non sembrava esserci alcuna vera relazione.

Alla fine ho scoperto che l’unica risposta alle tante domande che ci assillano è nel tempo. Il tempo significa mutamento, e nel processo del mutamento le mie domande iniziali mutarono anch’esse, sparirono o si risolsero strada facendo. Avevo già imparato che pensare non cambia nulla: era ovvio che, quando il suo solo scopo era risolvere le domande, pensare non mi portasse a nessun risultato. Quantunque fosse inevitabile che sorgessero degli interrogativi, presto imparai che era importante non dare loro risposta prima del tempo.

La stessa cosa, appresi, valeva per le mie esperienze. Scoprii che non appena investivo in un’esperienza un valore, un significato, uno scopo, perdevo il meglio dell’esperienza stessa, bloccandone il corso naturale. Solo nel momento in cui non vi investivo nulla, ero in grado di scoprirne la verità o la falsità. Quello che è falso non dura, a un certo punto cade spontaneamente; mentre quello che è vero rimane: la verità non va e viene, è sempre lì. Per cui fintanto che le nostre esperienze vanno e vengono e noi investiamo in esse valori, pensieri, emozioni, non possiamo scoprirne l’eventuale verità: la verità è ciò che resta quando l’esperienza è finita.

Parlo di questo, perché fu una delle cose che imparai su in montagna. Imparai che, in assenza di movimenti, reazioni, risposte dall’interno, vale a dire dal sé, tutte le esperienze scivolano via come acqua da un sasso. Era come se fossi diventata un osservatore esterno degli aspetti relativi della vita, a cui partecipavo attraverso meccanismi condizionati, mentre partecipavo contemporaneamente all’inesplicabile realtà del fluire della vita, la vita vera. Sembra che, superato il sé, quando dentro non c’è nulla che risponda o s’impossessi dell’esperienza per darle un valore o un significato, la relatività delle nostre esperienze svanisca. Non essendoci nulla rispetto a cui possano relazionarsi, le esperienze perdono il loro aspetto relativo. È per questa ragione che, quando non c’è il sé, sembra che non ci siano neppure esperienze: nessun movimento, emozione, nessuna delle mille risposte di cui il sé è capace. Da questo momento in poi, tutte le esperienze sono di carattere non-relativo, nel senso che l’esperienza è questo, è qui, e non c’è nient’altro al di fuori.

Poiché la cosa è difficile da spiegare, darò un esempio di come sono arrivata a questa comprensione. Nel corso dell’esperienza di cui parlerò, mi resi conto di cosa significhi non avere un sé e non far caso neppure al più incredibile degli eventi.

La zona in cui ero attendata declinava a nord-est in un breve viale. Esattamente dalla parte opposta, il viale si apriva in una ripida discesa che conduceva a una vallata. In cima alla discesa, proveniente, attraverso un percorso sotterraneo, da un luogo distante mezzo miglio, sgorgava dal fianco della montagna un ruscelletto. Dalle sorgenti del ruscello si poteva godere la vista della vallata e delle colline circostanti, con le loro macchie di piante selvatiche, di alberi, di massi. La parete est della valle era costituita da una montagna di solida roccia, alta e severa, che al tramonto diventava rosso fuoco. Gli abitanti del luogo la chiamavano Thunder Mountain.

Andavo spesso lassù, non solo per vedere il panorama ma anche per aspettare gli animali che venivano ad abbeverarsi. Quel giorno tuttavia era andata in giro a raccogliere legna da ardere e mi fermai solo per riposare. Poiché giù al torrente non succedeva nulla di particolare, me ne stavo in piedi guardando la vallata, senza fissare niente di preciso, quando notai nell’aria un particolare addensarsi di intensità. Qualunque cosa fosse, era qualcosa che convergeva da tutte le parti e progressivamente si espandeva, cancellando ogni cosa sul suo cammino. Contemporaneamente crebbe a un grado tale di intensità vibratoria, quasi elettrica, da esercitare una vera e propria attrazione magnetica sul mio corpo. In un primo momento, la sentii come la consueta Unità, ma via via che si intensificava cominciai a rendermi conto che si trattava di qualcos’altro, qualcosa di totalmente sconosciuto. L’Unità si era sempre rivelata attraverso un mezzo, ma se questa era l’Unità si stava manifestando senza alcuna mediazione ed era mille volte più potente: di una potenza a cui non si poteva resistere. Quale che fosse la sua realtà, sapevo che finire nella sua zona d’attrazione voleva dire essere travolti come un granello di polvere. Pensai che fosse finita e che il mistero di ‘quel che rimane’ non sarebbe durato per molto. Un altro secondo e la luce – la luce dell’occhio che assisteva a quel prodigio – si sarebbe spenta. Sapevo in qualche modo che questo non doveva accadere, ma insieme non c’era nulla che potessi fare per evitarlo. Non potevo distogliere gli occhi poiché non c’era dove altro guardare; non c’era energia con cui muovermi; internamente tutto era immobile e silenzioso: nessuna risposta, nessun pensiero, nessuna emozione. Sarebbe stato quel che sarebbe stato.

Al limite della disintegrazione accadde qualcosa. Con nessun’altra guida che se stesso, il corpo si distolse, compì uno scarto, che lo rimise di fronte al bosco e alla legna da raccogliere. Così continuai per la mia strada; ma non ne feci molta che dovetti sedermi, perché il mio corpo era così debole e scosso che sembrava dovesse andare in pezzi.

L’esperienza si ripeté varie volte mentre ero in montagna e non una volta riuscii a trovare il meccanismo per sottrarmi all’incantesimo. Sebbene rischiassi di essere attirata all’interno dall’intensità, da sola non ero in grado di strapparmi o distogliermi. Pure, la cosa avveniva e sempre all’ultimo momento.

Non seppi mai cosa pensare dell’esperienza, ma ogni volta che si verificava, mi dicevo che era la fine, e che la luce – la luce di ogni coscienza, originaria e non originaria – se ne sarebbe andata per sempre. Sarebbe stato il buio totale, un buio come quello sperimentato in passato, in cui non c’è assolutamente nulla: un annullamento più completo della semplice perdita del sé, per quanto non abbia idea di cosa questo significhi.

Sentivo che avrei avuto bisogno di una gran forza per affrontare l’intensità senza esserne annientata: ma che tipo di forza era, e come procurarsela? Forse era la forza che occorreva a sostenere la visione e penetrare in Dio, ma non ne ero certa; né riuscivo a immaginare come si potesse vedere direttamente Dio e non morire. Di fronte a una richiesta del genere un uomo potrebbe disperare e fuggire. Pure io sentivo che, qualunque cosa fosse stata a portarmi fin lì, questa stessa cosa mi avrebbe dato la forza di andare fino in fondo. Nel mio diario definii l’esperienza: “una crepa nel muro”.

 

 

Capitolo quarto

 

 

La neve cadde presto quell’anno. Dopo due giorni di pioggia, mi svegliai di notte sentendo un gran silenzio, il silenzio che accompagna immancabilmente la neve. La tempesta lasciò trenta centimetri di neve, che trasformarono i boschi e le montagne tutt’intorno in un paesaggio totalmente nuovo, in cui mi parve di non essere mai stata prima. Per diversi giorni le strade furono bloccate, ma la neve non fece in tempo a sciogliersi che pesanti nuvole nere cominciarono ad addensarsi, basse sugli alberi: quando vidi arrivare la jeep del guardaboschi, seppi immediatamente cos’era venuto a dirmi.

Di tanto in tanto, in passato, l’uomo s’era fermato al campo: ci eravamo scambiati episodi curiosi riguardanti gli animali e non era mai mancato da parte sua il racconto di quando aveva dovuto tirar fuori dai guai questa o quella persona che s’era fermata lassù troppo a lungo. Dal momento che era imminente una nuova nevicata, disse ora, era il caso che mi muovessi prima che le strade ghiacciassero bloccandomi là, per quanto tempo, stavolta, lui non sapeva.

Così feci i bagagli, cacciai le noci che mi rimanevano nelle cavità degli alberi e nelle tane dei miei amici della foresta e mi attardai a contemplare per l’ultima volta il paesaggio, sapendo che era la fine dei più bei mesi della mia vita, una fine inevitabile fin dall’inizio. Sapevo che, per quante volte mi fosse accaduto di tornare lassù in futuro, non sarebbe stata mai più la stessa cosa. Da molto tempo avevo imparato che l’essenza del movimento della vita non è nell’appagamento né nella sicurezza, ma piuttosto nella crescita, nel cambiamento e nella sfida, laddove le circostanze esterne riflettono semplicemente le necessità del momento sulla spinta del fluire della vita. Che cosa avrei trovato una volta scesa a valle non sapevo, ma ero sicura che nulla ormai avrebbe potuto alterare l’eterna corrente che avevo scoperto sulle montagne, una corrente che avrebbe continuato a portarmi con sé “nel suo perpetuo andare”.

La mia prima destinazione fu un terreno destinato a campeggio prospiciente il mare. Nonostante fosse un bel posto, mi scoprii incapace di apprezzarlo: notai infatti un sottile cambiamento in quello che ora mi arrivava attraverso le mie nuove lenti tridimensionali. Invece di vedere ogni separatezza dissolversi nell’Unità, ora vedevo dissolversi tutto in un inesplicabile vuoto. Dove per tanti mesi c’era stato ‘qualcosa’ ora non c’era più nulla.

Col tempo questo vuoto si fece sempre più totale e difficile da sopportare. Senza una vita ‘interiore’ o il minimo movimento interno, il vedere in quanto tale era diventato la mia vita; ne ero totalmente dipendente, senza di quello non avevo più niente.