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Tibet: come la Cina ritornò a Lhasa

di Sergio Romano - 08/03/2006

Fonte: corriere.it

 

 
La Cina si è annessa il Tibet e sta arrivando a Lhasa con una ferrovia che viaggia a 5.000 metri di altezza. Nel 1904, la Gran Bretagna fece qualcosa di analogo con il Commissioner colonnello Francis Younghusband, invadendo e occupando questa enclave tra le montagne. In entrambi i casi il pretesto era quello di abbattere una società arretrata e feudale per sostituirla con modelli di civiltà superiori e più moderni. Senza entrare nella morale di queste occupazioni, le chiedo: era così opprimente il sistema tibetano? Che giogo sul proprio popolo potevano esercitare questi pacifici e inoffensivi monaci? Confesso di conoscere poco di quella società, a parte i bei libri del Tucci. È un mondo definitivamente scomparso? Chi è stato recentemente lassù mi ha parlato delle viuzze di Lhasa ora invase da bancarelle con paccottiglia. Conoscenti cinesi al mio nominare
il Tibet saltavano sulla sedia, dicendo che si deve parlare solo di grande Cina.

rzorzi@libero.it

Caro Zorzi,
la prima occupazione cinese del Tibet risale al 1751. Il Celeste impero s’impadronì del Paese, ne fece uno Stato vassallo e controllò la linea di successione del Dalai Lama sino a quando, negli anni del suo lungo declino, dovette permettere che il Tibet cadesse nella sfera d’influenza della Gran Bretagna. L’invasione del 10 novembre 1950, poco più di un anno dopo la proclamazione della Repubblica popolare, non fu quindi, agli occhi dei cinesi, una conquista. Fu un ritorno. Pechino voleva controllare la sua grande frontiera meridionale e non era disposta a consentire che quel piccolo Stato religioso, incapace di una vera indipendenza, cadesse sotto il controllo dell’India o del Nepal. Ma gli concedette, sulla carta, una certa autonomia e tenne per sé naturalmente i due poteri che maggiormente interessavano la Cina: Esteri e Difesa.

La fase del protettorato durò sino all’insurrezione tibetana del marzo 1959. Dopo gli scontri di Lhasa fra gli insorti e le truppe della Repubblica popolare, il Premier cinese (era Ciu En-lai, uno degli uomini più abili e intelligenti della dirigenza comunista), sciolse il governo autonomo tibetano, esautorò il Dalai Lama e collocò il Panchen Lama (secondo personaggio del Tibet, un collaborazionista su cui Pechino poteva contare) alla testa di un comitato preparatorio per la costituzione di una Regione Autonoma. Il 31 marzo il Dalai Lama attraversò la frontiera per rifugiarsi in India e chiese l’intervento dell’Onu, mentre a Lhasa, nel frattempo, continuavano gli scontri. Ma il Tibet da allora sarebbe diventato nuovamente ciò che era stato per molto tempo: uno Stato vassallo dell’«impero» di Pechino.

Lei scrive, caro Zorzi, che le viuzze di Lhasa, oggi, sono piene di paccottiglia occidentale. Quando visitai il Tibet, all’inizio degli anni Ottanta, il mercato, nel centro della città, era ancora popolato da lama, pastori, artigiani, mercanti e bambini che correvano di qui e di là. Ne ricordo uno, vivacissimo, che si inginocchiò accanto a mia moglie per sbirciare sotto la sua gonna e accarezzarle una gamba. Non aveva mai visto, probabilmente, una gamba calzata di nylon. Sua madre lo rimproverò e lo prese per mano. In un’altra occasione, mentre scendevamo dal Poltala (una sorta di Cremlino himalaiano, residenza dei Dalai Lama) accadde un altro episodio curioso. Era con me un funzionario del ministero degli Esteri, Alessandro Romano (nessun rapporto di parentela), uomo di mezza statura, rotondo, robusto, per di più avvolto in una grande pelliccia, insomma un Buddha occidentale che suscitò lungo la strada atti di omaggio e devozione.
Vi restai tre giorni ricorrendo ogni tanto a una sacca di gomma piena di ossigeno con cui cercavo di riparare lo shock dell’altitudine. Dormii in una gelida foresteria dello Stato. Cambiai denaro in una filiale della Banca di Cina, una stanzetta disadorna riscaldata da una vecchia stufa. Entrai in un melanconico supermercato dove si vendevano oggetti domestici di plastica. Vidi qualche monastero risparmiato dalla furia della rivoluzione culturale cinese. Parlai con i monaci attraverso due interpreti (dall’inglese al cinese, dal cinese al tibetano) e capii che il regime aveva proibito da tempo i monaci fanciulli, vale a dire la categoria che maggiormente assicurava la perpetuazione della casta religiosa del Paese. Oggi so di avere visto un Tibet che in buona parte, probabilmente, ha cessato di esistere.