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Modern War

di Stenio Solinas - 08/03/2006

Fonte: lineaquotidiano.it


A un conflitto militarmente e apparentemente vinto è succeduta una pace sempre più armata

Modern War
Anthony Swofford - Colby Buzzell


L’anormalità dei comportamenti diviene normale nel momento
in cui la norma non esiste più: la violenza da mezzo diviene fine.

Le cosiddette
“guerre del
Golfo” stanno
producendo
negli Stati
Uniti una
nuova generazione
di scrittori. Che si tratti di
Jarhead. A Soldier’s Story of
Modern War (Scribner editore) di
Anthony Swofford, già caporale dei
marine, da cui il regista
Sam Mendes ha
tratto l’omonimo film
presentato nei giorni
scorsi al Festival di
Berlino, o di My War:
Killing Time in Iraq
(Putnam Adult/Corgi
Books editori) di
Colby Buzzell, soldato
carrista nell’operazione
Iraqi Freedom, la
memorialistica che li
connota ha come elementi
costitutivi una
buona qualità di scrittura
e l’utilizzo degli
strumenti propri della
modernità. Se il primo
si apre con una citazione,
a mo’ di epigrafe,
di Ezra Pound ed è
debitore di un realismo
stilistico alla
Kerouac e alla
Bukowski, il secondo
oltre ad allineare una
lista di autori preferiti
che va da Ginsberg a
Ellis, a Hunter S.
Thompson, è caratterizzato
dal fatto di
essere nato come diario
in rete, ovvero
come pensieri affidati
a un blog via Internet,
scritti e resi noti, praticamente,
in tempo reale.
Questa istantaneità
acquista un sapore
quasi surreale allorché
si legge nel libro di
Buzzell che lo stesso
giorno di una missione
di perlustrazione a
Mosul ricevette un email
dal padre, veterano
della guerra in Vietnam,
il quale, avendo
visto sulla CNN l’unità del figlio
impegnata in quell’azione, chiedeva
se tutto andasse bene...
In entrambi i libri l’elemento tecnologico
è tutt’uno con quello bellico.
Né Swofford né Buzzell vedono
mai il nemico in faccia, e il decennio
che separa il Kuwait dall’Iraq
accentua ancora di più la sofisticazione
degli armamenti. Ciò fa sì
che in questa nuova memorialistica,
l’elemento classico del combattimento
scompaia: un best seller
sulla Seconda guerra mondiale
come All’inferno e ritorno, di
Audie Murphy, il soldato più deco-
rato degli Stati Uniti a cui poi arriderà
una carriera cinematografica, oggi
non sarebbe più possibile. Allo stesso
modo va segnalata la scomparsa
della figura del corrispondente di
guerra: il Kuwait e l’Iraq hanno avuto
una copertura giornalistica senza
precedenti e che però non ha lasciato
tracce. “Embedded”, ovvero legati e
più o meno imbavagliati nei corpi di
spedizione, i reporter non solo non
hanno potuto vedere se non ciò che
si voleva vedessero, ma la modernità
degli strumenti di distruzione usati,
il fattore chirurgico di una guerra a
distanza, li ha privati dello scenario
sul quale operare.
Queste considerazioni acquistano
ancora più valore se si prende fra le
mani la nuova edizione italiana di
Dispacci di Michael Herr (Alet editore,
307 pagine, 128 euri), il più
famoso e probabilmente il più bello
fra la miriade di testi usciti sul Vietnam.
Herr, va ricordato, fu anche lo
sceneggiatore di Apocalypse now e
di Full Metal Jacket, i film più realistici
realistici
girati su quella guerra, e il peso
e il significato di ciò che vide e di
ciò che sopportò fu tale che per scrivere
quel libro impiegò dieci anni
(uscì negli Stati Uniti nel 1977) e
dopo non scrisse più nulla.
Ci sono però alcuni elementi presenti
in Dispacci che permettono di gettare
una luce su quanto è avvenuto e
sta avvenendo in Iraq e che pur nella
completa differenza di situazioni
mostrano un filo rosso di continuità.
Il primo è di carattere anagrafico.
Herr vi andò da giornalista che aveva
venticinque anni e si ritrovò vecchio
rispetto alla truppa e a volte agli
stessi colleghi: l’età media era di
vent’anni e ciò significava una innocenza
barbarica che comprendeva in
sé le peggiori nefandezze, ma anche
le più profonde crisi morali. Il racconto
che egli fa dei cosiddetti “trofei
di guerra” dei soldati Usa, fotoricordo
con i cadaveri del nemico
ucciso, messi in posa collezioni di
orecchi o di teschi, eccetera, non
sono altro che il deja vu delle immagini
immagini
di Abu Graib, il prigioniero
umiliato, il prigioniero offeso, l’anormalità
dei comportamenti che
diviene normale nel momento in cui
la norma non esiste più, è sospesa,
non ha ragion d’essere.
Un altro elemento che accoppia la
giovinezza alla, come dire, inesperienza,
è l’ignoranza dell’altro da sé.
L’esperienza vietnamita di Herr è
all’insegna dell’esportazione del
modello di vita americano in un territorio
ostile e sconosciuto. Non stiamo
parlando qui di valori democratico-
ideologici, ma, più semplicemente,
di quell’insieme di fattori che, dal
cibo alla musica, fungono da elementi
identitari. Allo stesso modo
dei soldati al fronte Herr si circonda
di tutto ciò che lo illude di stare
ancora a casa, i numeri di Playboy, o
i dischi di Jimi Hendrix, gli hot-dog
o la marijuana... È qualcosa di diverso
dal meccanismo militare classico
che tende all’autosufficienza e allo
spirito di corpo, e basta leggere le
memorie di Lucien Bodard, un classico
della guerra del Vietnam quando
ancora si chiamava guerra d’Indocina
e a combatterla c’erano i
francesi, per rendersene conto. Per
Bodard i viet erano sì i nemici, ma
erano anche una civiltà, c’era un
legame, un desiderio di conoscenza,
un sentimento quasi di emulazione.
Tutto ciò è assente nella successiva
esperienza americana e aiuta a spiegare
perché psicologicamente a un
certo punto andò tutto a pezzi e,
restando incomprensibili le ragioni
dell’avversario, divenne tuttavia
incomprensibile anche perché lo si
dovesse continuare a combatterlo.
Qualcosa del genere è quello che sta
avvenendo anche in Iraq dove a una
guerra militarmente vinta è succeduta
una pace sempre più armata, e la
strategia di Washington non riesce a
spiegarla.
Ciò che fa ancora di Dispacci un
libro attualissimo è inoltre lo spirito
che lo anima. La guerra, dice il suo
autore, non è democratica o umanitaria:
è la guerra, e basta. E i lati
bestiali che essa contiene sono tali
nella concezione classica di una ferinità
che fa parte della natura umana.
Deriva da qui l’eccitazione che pervade
chi la fa, il gusto della distruzione,
il piacere dell’uccisione, così
come deriva da qui una sorta di
affratellamento, la capacità di immolarsi,
il valore del sacrificio: paradossalmente,
il senso della vita. E
tuttavia, se trasformi la guerra in uno
stillicidio, gli togli lo scontro e lo
sostituisci con una specie di rastrellamento
a distanza, elimini la dignità
della lotta e metti al suo posto un
gioco a mosca cieca di attese snervanti,
contribuisci a elevare alla
massima potenza il tasso di crudeltà
che è in essa è presente, non ritualizzi
più la violenza, ma la trasformi da
mezzo in fine.
In Jarhead, un iroso sergente istruttore
chiede al futuro caporale Swofford
la ragione del suo arruolamento:
“Mi sono perso mentre andavo al
college” è la risposta ironica cui
seguirà una manesca punizione. Nel
sito internet di Buzzell faceva bella
mostra di sé la riproduzione di Guernica
con una citazione di Picasso:
“Dipingere non è un modo di decorare
appartamenti, è un’arma di
difesa e di offesa contro il nemico”.
Il non sapere per cosa si combatte e
l’accorgersi che il “nemico” non è
solo quello che hai di fronte, ma
spesso che ti sta a fianco, ti ha detto
il falso e ti vuole convincere che il
falso sia vero, sono l’altro elemento
di continuità con Dispacci. Quella
del Vietnam fu ancora un affare di
coscritti, di esercito di leva, ma resta
eguale la difficoltà a spiegare, anche
a dei professionisti, che senso abbia.