Padri, padroni o padrini? Oltre l'Occidente
di Piero Visani - 08/03/2006
Fonte: lineaquotidiano.it
Il trionfalistico viaggio
compiuto dal presidente
del Consiglio Silvio Berlusconi
negli Stati Uniti riporta
al centro dell’attenzione
quella che, per il variegato
schieramento politico che
solo per convenzione definiremo
Destra italiana, è la
“madre di tutti i problemi”: la
questione occidentale. Il peana
che il capo del governo ha
innalzato all’Occidente di
fronte al Congresso riunito è
ovviamente quanto ci si attendeva
da lui in quella circostanza
e in quel contesto. Né
sorprende che i suoi sostenitori
ne abbiano cantato le
lodi. Il problema è quando
queste lodi si estendono man
mano che ci si sposta verso la
destra dello spettro politico,
poiché una volta di più si
entra nella dimensione dell’insipienza
e dell’equivoco.
Siamo consapevoli di addentrarci
in un terreno scivoloso,
ma riteniamo sia opportuno
un tentativo di fare chiarezza,
se possibile evitando – come
qualche volta di troppo avviene
in certi ambiti – di ragionare
con la mente rivolta
all’indietro e non in avanti.
Certo la storia ha il suo peso e
sarebbe difficile negare che il
filo-occidentalismo “di
Destra” è frutto delle vicende
europee, della paura del
comunismo, della divisione
del mondo in due blocchi. Più
difficile riesce comprendere
come tale visione sia sopravvissuta
alla fine della “Guerra
fredda” e al grande rimescolamento
di carte che ne è conseguito.
Dopo il 1989-1991, infatti, è
iniziata una nuova fase storica,
dapprima unipolare e poi
sempre più marcatamente
multipolare, nella quale il
concetto di Occidente – nell’accezione
che comunemente
gli viene conferita, vale a dire
quella di Stati Uniti più Europa
– è entrato palesemente in
difficoltà.
(…) Ciò è avvenuto perché, in
un mondo sottratto alla minaccia
comunista, è diventato
sempre più evidente che gli
interessi del Vecchio Continente,
tanto più se concepito
nella sua interezza e non soltanto
nella sua appendice
occidentale, non si possono
identificare con quelli degli
Stati Uniti. Questi ultimi sono
una superpotenza globale, con
esigenze loro peculiari, che
hanno sempre usato i loro
alleati europei come Stati
clienti ai quali far svolgere, di
volta in volta, le funzioni più
diverse ed ai quali costantemente
negare – come ipotesi
invero assai temuta – qualsiasi
possibilità di assurgere al ruolo
di global player. In questo
senso, gli USA sono stati dei
“padri padroni”, con poche
virtù e non pochi difetti, ma
con un disegno strategico preciso:
impedire all’Europa di
ritornare all’antica potenza.
Per farlo, hanno pagato –
sarebbe ingiusto negarlo – un
prezzo talvolta anche elevato,
ma, a gioco lungo, i benefici
ottenuti si sono dimostrati
assai superiori ai costi sopportati.
L’“equivoco occidentale”
nasce da questo e da una sorta
di “sindrome di Stoccolma”
che si è sviluppata tra il 1945
e il 1989, quando non c’è dubbio
che l’ombrello nucleare
americano ha impedito che
l’Europa occidentale finisse in
mano sovietica. Per molti,
anche a Destra, il semplice
mettere a confronto ciò che
avveniva al di qua e al di là
della “cortina di ferro” ha fatto
nascere insane passioni e un
senso di gratitudine che, se
analizzato con un minimo di
freddezza, forse si potrebbe
valutare anche non casualmente
alimentato da una
sapiente gestione dell’immaginario
collettivo, in cui gli
americani sono notoriamente
maestri.
Oggi però la situazione è
diversa, oggi i distinguo
sarebbero possibili, oggi si
potrebbe cercare di guardare
avanti e di riconoscere che
molte scelte statunitensi sono
state ispirate all’interesse e al
più solido realismo politico,
non certo all’amore per la
libertà. Al tempo stesso,
occorre sottrarsi alla trappola
del velleitarismo, poiché tutti
conosciamo gli enormi limiti
della costruzione europea,
attualmente prossima al collasso,
e non possiamo certo
illuderci che, nella geopolitica
del XXI secolo, ci sia ancora
spazio per le singole soluzioni
nazionali. Ma alcuni interrogativi
premono e non riguardano
la politica, bensì la ben
più importante sfera della
metapolitica, quella in cui collocarsi
collocarsi
per costruire le politiche
di domani: l’Occidente
giudeo-cristiano, con tutti i
suoi valori di riferimento,
significa qualcosa per noi? Le
sue innegabili pulsioni di
dominio, comunque si manifestino,
possono essere anche
solo vagamente condivise o
non si configurano invece
come una inaccettabile forma
di imperialismo? Il suo
sostanziale rifiuto dell’“altro
da sé”, per quanto abilmente
mascherato, non è forse una
spiacevole forma di riduzionismo
e di negazione delle specificità?
Quelli che sono i suoi
nemici sono davvero anche i
nostri?
Sono interrogativi che sorgono
irrefrenabili specie quando
si assiste alla nascita di “guardie
bianche” o di “crociati”
proprio là dove uno meno se
lo aspetterebbe e dove il buon
gusto (o il senso della Storia,
ma forse è chiedere troppo…)
dovrebbe indurre a comportamenti
più sobri.
Per parte nostra, non ci possono
essere dubbi: per noi europei
la prospettiva occidentale
è una trappola mortale. Accettarla
significa rinunciare per
sempre a qualsiasi futuro ed a
qualsiasi possibilità di indipendenza
e di soggettività
politica, e votarsi ad un destino
destino
di subalternità agli Stati
Uniti e al sistema di valori che
sta loro dietro. È vero che le
condizioni di partenza sono
quelle che sono, che l’Europa
non esiste ed è ridotta al ruolo
di espressione geografica e di
unione monetaria. È vero dunque
che occorre guardarsi dal
rischio del velleitarismo. Quest’ultimo,
tuttavia, concerne la
sfera della politica, mentre noi
abbiamo bisogno di fare chiarezza
a monte, di chiederci se
vogliamo morire moderati o
conservatori. A noi capiterà di
sicuro questo destino, sia pure
più per forza che per amore,
ma abbiamo un compito cui
non possiamo sottrarci, un
dovere morale prima ancora
che politico, nei confronti delle
nuove generazioni, alle quali
dobbiamo mostrare una via.
Quella via non può essere rappresentata
dalla scelta, talvolta
addirittura inconsapevole, di
diventare i pretoriani di un
impero altrui. Naturalmente è
una via legittima, è la via della
Destra liberal-moderato-conservatrice,
ma – e qui sta il
punto – che cosa c’entra con
la nostra storia e la nostra cultura?
Forse il primo passo da
compiere sarebbe quello di
liberarsi di un’etichetta
(Destra) che nulla vuol dire e
a nulla serve perché troppo
datata. Poi, finalmente sgravati
di un peso ormai intollerabile,
ridefinire i contorni di un’identità
che in realtà è chiarissima,
se solo la si vuole vedere.
Perché il problema è che,
se si continua con la Destra, si
finisce inevitabilmente per
scivolare nella commedia
degli equivoci (o nella farsa) e
ritrovarsi a fare i guardiani di
un tempio che non c’è. Per
contro, tutta la nostra storia è
percorsa da un’evidente alterità
alla concezione moderatoconservatrice
e al suo tradizionale
ruolo di difesa dell’esistente
e di una certa visione
del mondo. La nostra è stata e
deve ritornare ad essere la
visione di un’altra Europa, di
un altro modo di essere europei,
di un altro universo di
valori, ben diverso e ben
distante da quelli dominanti,
di un altro modo di guardare
al mondo e alle culture
“altre”, con molte delle quali
abbiamo più legami che con
l’occidentalismo: underdog
nel nostro mondo, non possiamo
che essere solidali con gli
underdog di tutto il mondo.
Una visione che non rischia
certo l’omologazione, visto
che le sue idee-forza sono
esattamente antitetiche a quelle
che vanno oggi per la maggiore.
Ma occorre declinarle
nel XXI secolo. Guai a rimanere
gli ultimi prigionieri del
Novecento.