Pensioni e «posticini» statali sono il bersaglio di Geminello Alvi in «Una repubblica fondata sulle rendite». Un saggio provocatorio più nelle premesse che nelle conclusioni
«Nessuno ha mai toccato il Pil o lo ha visto camminare, eppure al solo nominarlo esso fa maggiore effetto di una reliquia nel Medioevo». Geminello Alvi, «economista e letterato» come dice nel risvolto di copertina il suo libro Una repubblica fondata sulle rendite (Mondadori, pp. 135, 16), ama le provocazioni dello stile, e dunque annuncia - e realizza - un saggio di economia che non nomina il Pil (se non nella frase prima citata, che compare in premessa come un'abiura) e contiene solo i numeri strettamente necessari e nessuna citazione di teorie e di autori. Ma allora di cosa parliamo quando parliamo d'economia? Dei redditi che finiscono nelle nostre tasche: i profitti le rendite i salari e gli stipendi. Per concludere, già nel titolo, che siamo «una repubblica fondata sulle rendite». Un titolo-tesi la cui evidenza è davanti agli occhi di chiunque, che guardi alla Porsche del proprio proprietario di casa o ai dati della Banca d'Italia sulla ricchezza; ma che riserva poi, dietro l'evidenza, non poche sorprese: sulla definizione di «rendita », e dunque sui passi che dovremmo compiere per tornare a essere «una repubblica fondata sul lavoro». Quando si danno pochi numeri, questi spiccano e parlano di più. Come il numero secco secco dato all'inizio del libro: la quota del reddito da lavoro dipendente, pari quasi al 60 per cento della torta italiana nel '71, si è ridotta al 48,9 nel 2003. Il lavoro dipendente ha perso, altri hanno guadagnato. E gli «altri» sono le rendite e i profitti.
Di questa colossale redistribuzione - che Alvi nomina insieme a pochi altri: come è possibile, viene da pensare leggendo quei due numeri, che non si parli solo di questo in campagna elettorale? - il libro indaga soprattutto gli ultimi eventi, quelli che partono dallo spartiacque del '92 e culminano con l'euro. Dal funerale della scala mobile (Giuliano Amato) al funerale della lira (Romano Prodi): in mezzo, c'è spazio per parlare di globalizzazione, effetto-Tangentopoli, cinesi, privatizzazioni «post-sovietiche» e quant'altro, nella trattazione storico-economica del libro; mentre molto meno spazio c'è per valutare gli effetti di imprenditori (e rentiers) che entrano in politica, anomalie celtiche e creatività finanziarie. Ma veniamo al titolo, dunque al succo del libro: le «rendite» sulle quali si fonda ormai la repubblica italiana, che per l'autore sono in generale tutti gli introiti che non vengono da un lavoro pagato dal mercato. E in dettaglio si materializzano al terzo capitolo così: interessi su titoli di stato, affitti e pensioni. «Conducendo il lettore per mano » nell'economia, l'autore ritiene opportuno citare subito i rentiers più classici (Botpeople e proprietari di case in affitto), rinviare l'illustrazione di altri possibili incassi che non vengono direttamente dal sudore della fronte (dividendi azionari, interessi da obbligazioni, etc.), spostare di qualche capitolo il tema dei profitti, e citare subito i villains, i cattivi del romanzo: i pensionati. Non tutti, per carità: ma almeno quei 4,9 milioni che hanno «tra i 40 e i 64 anni», il cui «privilegio» sproporziona tutto il sistema pensionistico ed economico, secondo Alvi (al quale nella furia scappa pure un refuso che peggiora la situazione, mettendo i 5 milioni tutti sotto i 60 anni). Insomma: sotto i 65 anni, la pensione è «rendita».
Privilegio. Anche se questo prevedevano e prevedono le leggi, gli accordi per i prepensionamenti voluti dalle imprese, le riforme varie (tant'è che in quella forchetta che indigna Alvi, fra i 40 e i 64 anni, la fascia affollata dei pensionamenti è tra i 58 e i 64). Così come è rendita e privilegio, nella visione di questo libro, l'impiego pubblico nel suo insieme: 3,5 milioni di persone ascritte alla categoria della rendita, «posticini da professoresse o ai ministeri» che tirano su i bilanci familiari. (Domanda: se Geminello Alvi incontrasse sull'autobus al mattino una professoressa che sta andando a infilarsi in un'aula per spiegare Aristotele a 30 adolescenti in tumulto, e che ne uscirà alle 14 per tornare a casa, cucinare, poi correggere i compiti e far la spesa, glielo direbbe in faccia che i circa mille euro che guadagnerà il 27 del mese sono «rendita»?). Pensioni (cosiddette) precoci e «posticini » non sono tutto, però: l'altro bastione è la casa. Insieme concorrono a un modello sociale ed economico basato sui vecchi e sulla famiglia, che permette al tutto di tenersi e ai lavoratori di non chiedere l'elemosina per strada. «In Italia il criterio sociale per distinguere e capire non è la classe, ma la famiglia», che media tra redditi da lavoro e rendite: così, scrive Alvi citando gli impressionanti dati sulla ricchezza familiare degli italiani, si spiega perché la redistribuzione dal lavoro alle rendite è potuta avvenire senza rivoluzione né reazioni. Siamo tutti un po' lavoratori e un po' rentiers, insomma (anche se per gran parte di noi quell'aumento di ricchezza «reale» è il valore della casa di abitazione, valore d'uso dal quale non si trae un assegno mensile). E siamo anche - in molti - un po' padroni. L'altro pezzo del puzzle, quello che arriva dopo, sono «i redditi delle famiglie produttrici », piccoli imprenditori, professionisti, fascia alta di partite Iva. Questi sì che sono cresciuti, insieme ai profitti delle società. E qui Alvi passa a bastonare finalmente altri: quelli dei «profitti post-sovietici», gli «oligarchi », ossia tutto il gotha del capitalismo italiano che si è infilato sotto le coperte degli ex monopoli traendone ricchi guadagni - e che ha continuato a dormire al calduccio finché in un'estate non si sono materializzati i barbari «furbetti» (con i quali, un po' tra parentesi nel libro ma in modo chiaro, il prestigioso collaboratore del Corsera simpatizza).
I cattivi dunque sono tanti, mentre i buoni - i lavoratori dipendenti privati, preferibilmente dell'industria, meglio se manifatturiera, beninteso finché non vanno in pensione - sono quasi in via d'estinzione. Ma a fianco ai tanti cattivi - pensionati, dipendenti pubblici, vecchiotti proprietari di case garage capannoni, professionisti di professioni inventate, grandi capitalisti monopolisti - spicca il cattivone principale, lo Stato. Quello che ha permesso tutto ciò, con la sua politica di distribuzione dei redditi: tassando sempre più il lavoro e sempre meno le società di capitali (anche e soprattutto negli anni del centrosinistra, scrive Alvi che poi glissa sugli anni successivi), stabilendo un cambio lira/euro fuori proporzione, non usando i proventi della riduzione dei tassi di interesse per «rivoluzionare» lo Stato abbattendo la spesa pubblica. Eccoci dunque alle conclusioni, molto meno eretiche delle premesse: abbattere l'orco statuale per far fiorire sussidiarietà private e comunitarie. Già sentito? Altrochè, basta sfogliare i grandi giornali o il piccolo libro del ministro dell'economia Tremonti, Rischi fatali (Mondadori 2005). Tornando al libro di Alvi, e alle sue proposte finali, si può dire che i rentiers, quelli (a nostro avviso) veri, se la cavano. Per loro c'è il lieto fine: non solo niente eutanasia di keynesiana memoria, ma neanche un'ipotetica minima tassa in più.
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