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In che misura il diritto romano ha subito l’influsso del cristianesimo?

di Francesco Lamendola - 10/04/2009

 

Sono  passati oltre due secoli da quando Edward Gibbon, descrivendo le vicende che portarono alla decadenza e alla caduta dell’Impero Romano, scriveva con tono di ambiguo compiacimento: «Ho descritto il trionfo della barbarie e della religione»; tuttavia gli storici non si sono ancora scrollati di dosso il pregiudizio che il cristianesimo abbia indebolito le fondamenta, materiali e spirituali, dello Stato romano, affrettandone la caduta.
Che si tratti di un concetto erroneo, è dimostrato da due fatti incontrovertibili.
Il primo è che l’Impero Romano d’Oriente, nel quale più antica e capillare era stata la diffusione del cristianesimo, non cadde affatto all’epoca delle grandi migrazioni germaniche, ma sopravvisse per altri mille anni alla rovina dell'Impero di Occidente (che, all'epoca di Costantino, era ancora in larga misura pagano).
La seconda è che Costantino ed i suoi successori «puntarono» sul cristianesimo per rinsaldare il vacillante edificio dell’Impero (così come Diocleziano aveva «puntato» sul culto del Sol Invictus e sulla persecuzione anticristiana); e tutto lascia pensare che, in termini politici, essi fecero la scelta migliore.
Come ha osservato il Brown, la ripresa imperiale dopo la battaglia di Adrianopoli (378 d. C.) e la resistenza del «limes» renano fino al principio del V secolo, concessero alla Chiesa cattolica giusto il tempo necessario per evangelizzare le tribù germaniche (sia pure nella forma ariana) che, al momento del crollo, si mostrarono capaci di raccogliere l’eredità culturale del mondo romano. Di più non si sarebbe potuto chiedere e non era umanamente possibile: la società romana occidentale era indebolita da mortali contraddizioni ed è, anzi, stupefacente che sia stata capace di reggere a tutti gli urti, esterni ed interni, così a lungo come in  realtà fece.
Pertanto, dopo aver assodato che l’Impero Romano non perì di morte violenta, «assassinato» dai barbari e dai cristiani, ma cadde essenzialmente per fattori sociali, economici e culturali (e, in particolare, per l’incapacità delle classi dirigenti di assimilare il proprio proletariato interno), rimane da chiarire in che misura il diritto romano - ossia l’espressione più alta e significativa di quella civiltà - fu influenzato dal cristianesimo vittorioso.
Come è noto, il processo di cristianizzazione delle classi dirigenti dell'Impero Romano fu rapido, anche se era stato preparato da un lavorio sotterraneo durato due secoli e mezzo; tutto si svolse fra l'editto di Costantino e Licinio del 313 (il cosiddetto «editto di Milano»), che riconosceva ai cristiani piena libertà di culto, e l'editto di Teodosio del 391, che riconobbe il cristianesimo quale religione di Stato e comportò la proibizione di tutti i culti pagani, non solo in pubblico, ma anche nelle case private, nonché la chiusura definitiva dei templi.
In quegli ottant'anni circa si consumò la conquista delle classi dirigenti romane da parte del  cristianesimo, con l'ultima convulsione del 393-94, in corrispondenza dell'usurpazione di Eugenio e Arbogaste in Occidente (cfr. alcuni nostri precedenti saggi al riguardo, e, in particolar modo, «Arbogaste, Eugenio e la fine del paganesimo (392-395)» e «La battaglia del Frigido e la fine del paganesimo», sempre sul sito di Arianna Editrice).
Ma torniamo al quesito sul ruolo esercitato dal cristianesimo nella definizione del diritto tardo-romano.
È una domanda estremamente interessante, anche perché, in genere, gli storici si sono occupati soprattutto dell’influsso della filosofia cristiana sulla cultura tardo-antica (e anche dell’influsso opposto, ossia del paganesimo sulla filosofia cristiana), trascurando l’influsso del cristianesimo sulle strutture giuridiche e sullo spirito stesso del diritto romano.
Se la era posta, a suo tempo, uno dei più insigni storici italiani del diritto, Vincenzo Arangio-Ruiz, autore di opere fondamentali, come «Storia del diritto romano» (1937) e «Istituzioni di diritto romano» (1957).
Nato a Napoli nel 1884 e morto a Roma nel 1964, Arangio-Ruiz fu anche eminente uomo politico di orientamento liberale, oltre che studioso di diritto rimano, epigrafia e papirologia giuridica, nonché professore a Roma e in varie università italiane (nonché, temporaneamente, al Cairo).
Presidente del Comitato di liberazione nazionale di Napoli nel 1943, ministro di Grazia e Giustizia  nel secondo gabinetto Badoglio, poi ministro della Pubblica Istruzione nei gabinetti Bonomi e Parri, fu anche socio e, dal 1952, presidente dell'Accademia dei Lincei.
Nella sesta edizione della sua «Storia del diritto romano» (Napoli, Casa Editrice Dott. Eugenio Jovene, 1945, pp. 344-46), così si esprimeva:

«La trasformazione del diritto privato […] fu in vari campi affrettata da altre circostanze.
E anzitutto dall'avvento del cristianesimo. Il diritto post-classico presenta in certe sue zone un parziale ritorno a quella indifferenziazione tra "fas" e "ius", che vedemmo esser propria del diritto antichissimo: ne è prova il largo intervento dell'autorità religiosa, e specialmente dei vescovi, nella vita giuridica, tanto come investiti di una giurisdizione ("episcopalis audientia") creata per gli ecclesiastici ma estesa in più ipotesi anche ai laici, quanto come esecutori di quelle disposizioni di beneficenza che il disponente non abbia affidate ad altri enti. Ancora più significativo è il fatto che divieti di carattere religioso si trasformano in divieti legali: così viene sancita nelle leggi l'incapacità dei monaci a possedere in proprio, e l'impedimento matrimoniale per il clero.
Ma non soltanto queste norme, dettate più che altro in servizio della religione medesima, si rivela l'influenza del cristianesimo: anzi le virtù cristiane della castità e della carità, più volte esplicitamente proclamate nelle costituzioni del tardo Impero, ispirano varie norme giuridiche. Così le leggi augustee "de maritandis ordinibus", che con ogni mezzo imponevano il matrimonio non soltanto ai celibi e alle nubili ma anche ai vedovi, sono abrogate, e le seconde nozze sono anzi avversate dai nuovi legislatori; il divorzio, praticato con suprema indifferenza nella Roma classica, viene sottoposto a regole limitatrici, con sanzioni patrimoniali a carico di chi gli dia causa o di chi ripudii senza giusta causa l'altro coniuge, e perfino col tentativo d'impedire che senza una ragione sufficiente il matrimonio si sciolga di comune accordo; la protezione delle giovani generazioni si fa più attiva, limitando la patria potestà nelle sue esplicazioni più inumane (come la vendita e l'esposizione dei neonati), e si estende anche ai figli nati da concubinato, ai quali si accorda qualche diritto di successione e si rende accessibile la legittimazione; il diritto agli alimenti, ammesso nell'età classica esclusivamente nei rapporti tra il padre e i figli legittimi, si viene estendendo ad ogni rapporto di filiazione. Perfino nei rapporti patrimoniali fra estranei numerose disposizioni, ispirate ai principi fondamentali del non ledere altrui e dell'attribuire a ciascuno il suo, risentono, oltre che delle mutate esigenze economiche, anche dell'aspirazione ad attuare nei rapporti giuridici quel tanto di amor del prossimo che può essere coattivamente esigibile: si introduce così, ad esempio, il divieto dell'"aemulatio", cioè negli atti di disposizione della cosa propria compiuti nella sola intenzione di nuocere ad altri; e la legge Aquilia, originariamente applicata ai soli danneggiamenti delle cose corporali, si estende a risarcire (ed eventualmente a punire pecuniariamente) ogni danno ingiustamente arrecato ad altri.
Tuttavia non si deve credere né che prima del trionfo del cristianesimo non si siano avuti  movimenti diretti ad avvicinare il diritto alle esigenze della moralità (basti pensare a quella "humanitas" su cui tanto ha insistito lo Schulz), né che il cristianesimo sia poi riuscito ad informare di sé tutti gl'istituti giuridici: anzi le dichiarazioni  degli imperatori d'Oriente, che amano addurre per le loro riforme motivi religiosi, vanno spesso considerate come fiori retorici adattabili ad ogni sorta di disposizioni. Molte volte, poi, tendenze legislative e interpretative che si potrebbero a primo aspetto considerare come riverberi del cristianesimo corrispondono invece ad esigenze pratiche nuove, e soprattutto alla nuova struttura economica della società. Ad esempio, la tendenza a regolare i rapporti tra i fondi, specie in materia di acque, nel senso che ciascun proprietario debba provvedere ai suoi interessi col minor possibile sacrificio dei vicini è un riflesso della più difficile irrigazione delle terre di certe province orientali a paragone delle italiche. Anche il manifesto disfavore per la schiavitù (che si esprime col facilitare le manumissioni, nella tendenza ad affrancare gli schiavi anche contro la volontà dei padroni, e perfino nella riprovazione dell'istituto come contrario al diritto naturale) risponde alla nuova struttura della società, che, lasciando salvo lo "status libertatis" dei sudditi, vincola l'operaio al mestiere e il contadino alla gleba, non senza includere nel legame il proprietario della terra e l'imprenditore.
Chi concentrasse la propria attenzione sopra il sistema delle caste, caratteristico dell'economia bizantina, potrebbe anzi avere l'impressione che nel più tardo diritto romano la personalità umana fosse tenuta in assai minor pregio che nell'epoca classica, Per gli antichi la distinzione è netta fra i liberi e di servi, soggetti di diritto i primi, oggetto dell'altrui diritto i secondi; in compenso, vige fra i liberi una legge fondamentale di eguaglianza, che dalla comune e diretta partecipazione alle pubbliche funzioni si riverbera su tutte le relazioni di diritto privato. Ma già sotto il Principato la distinzione fra "honestiores" ed "humiliores" comincia ad invadere il campo giuridico, e fra i sudditi della monarchia dioclezianeo-costantiniana la diversità delle funzioni determina una gerarchia la cui influenza si fa sentire dovunque: perfino nei rapporti contrattuali l'uomo di condizione sociale inferiore non si pone di fronte ai privilegiati della fortuna su una linea di parità, anzi impetra a titolo di concessione benigna quel tanto di bene che dovrebb'essere il giusto corrispettivo della sua opera  o del suo danaro. Così ogni contratto di lavoro, se pure non comporti il vincolo da cui sono stretti i coloni e i membri delle corporazioni più rigide, è redatto in forma di sottoposizione al potere domestico del datore di lavoro; così i contratti di locazione di case e di terreni non sono conclusi per un tempo determinato, ma per quanto tempo piaccia al locatore; e lo stesso si osserva più volte nei rapporti fra mutuante e mutuatario. Quantunque partecipi dello "status libertatis", e perciò abilitati a costruirsi una famiglia legittima e a tener come proprio lo scarso guadagno, i contadini ed operai dell'età bizantina sono ben lontani dalla dignità degli antichi affittuari ed artigiani, anzi si puà ritenere che nella media non conducessero una vita più indipendente ed agiata di quella che avevano condotta gli schiavi nelle case e nelle fattorie romane.»

Come si vede, per Vincenzo Arangio-Ruiz non solo il cristianesimo, ma anche e soprattutto la formazione della nuova organizzazione economica, nella società tardo-romana (ad esempio, con la graduale sostituzione della servitù della gleba alla schiavitù vera e propria), produssero un'influenza trasformatrice, specialmente nell'ambito del diritto privato. Avvenne, cioè, a partire dal IV secolo, un graduale passaggio dal concetto e dalla pratica dell'uguaglianza davanti alla legge, propria dell'età classica - beninteso, per quanto riguarda gli uomini liberi, unici soggetti di diritto in senso proprio - al concetto e alla pratica della gerarchia di tipo romano-ellenico, che si sarebbero poi prolungati, per secoli, nella società bizantina, come è chiaramente attestato dal «Corpus iuris» di Giustiniano.
Secondo Arango-Ruiz, non bisogna esagerare nell'attribuire al cristianesimo un influsso sul diritto tardo-romano, laddove le trasformazioni di esso miranti a rendere le leggi più umane, e pertanto più morali, possono essere attribuite piuttosto alla generale trasformazione dell'economia e, quindi, della società e della cultura, degli ultimi secoli dell'Impero.
L'argomentazione è simile a quella che già lo storico Ettore Ciccotti, nel suo classico «Il tramonto della schiavitù nel mondo antico» (1899), aveva sostenuto per spiegare il passaggio dall'economia servile a quella curtense: il mantenimento dell'istituto della schiavitù non sarebbe stato più conveniente, per i latifondisti romani, rispetto al nuovo modo di produzione, caratteristico dell'ultima età imperiale, che già preannunciava quello feudale.
Il socialista Ciccotti (il distacco di quest'ultimo dal socialismo inizia solo nel 1905 e si compie nel 1915) e il liberale Arangio-Ruiz hanno ragione entrambi di ricordare il dovere della cautela nell'istituire un nesso immediato fra cristianesimo e trasformazione «umanitaria» del diritto tardo-antico; ma hanno - forse - torto, nel non ampliare ulteriormente l'orizzonte.
Quel che vogliamo dire è che, certamente, il diritto della tarda romanità venne profondamente modificato dalle mutate condizioni economico-sociali e, per conseguenza, culturali; ma non è detto che non si possa fare anche il ragionamento opposto, e chiedersi se l'avvento del cristianesimo non abbia, a sua volta, affrettato o facilitato quelle trasformazioni economico-sociali ed anche, naturalmente, quelle culturali, le quali ultime potrebbero essere state, in parte, la causa, e non soltanto l'effetto, di quelle altre (checché ne dica Marx con le sue categorie di «struttura» e di «sovrastruttura», assurte alla dignità di dogmi indiscutibili).
Si prenda, ad esempio, il caso della proibizione dei ludi gladiatori, decisa dall'imperatore Onorio, figlio di Teodosio il Grande, nel 404. Possiamo pensare che gli imperatori cristiani si sano orientati verso tale soppressione per la difficoltà, ormai sempre crescente, di procurarsi la «materia prima» per gli spettacoli. Sappiamo da una lettera di Quinto Aurelio Simmaco (2, 46) che il pubblico romano era rimasto estremamente deluso dal suicidio in massa dei gladiatori sassoni, che lo aveva privato del suo divertimento - e che aveva costituito una perdita finanziaria secca per il finanziatore dei giochi.
Rimane però da vedere se la decisone di quei gladiatori di uccidersi, strangolandosi l'un l'altro prima dei ludi, piuttosto che offrire ai Romani lo spettacolo dei combattimenti all'ultimo sangue, non sia stata influenzata dal nuovo modo di guardare alla dignità della persona umana, in cui il cristianesimo ebbe, certamente, una parte notevole.
Sappiamo che già Seneca, nelle «Lettere a Lucilio», aveva parlato con ammirazione - in accordo con i dettami della filosofia stoica - del gladiatore che preferisce il suicidio a una morte disonorevole, per il divertimento del pubblico. Ma i gladiatori, di solito, erano schiavi o prigionieri di guerra; e non si può escludere che l’etica cristiana della compassione e la dottrina dell’uguaglianza degli uomini davanti a Dio, sia penetrata anche in queste estreme frange del sottoproletariato e abbia fatto germogliare in quei gladiatori sassoni, con gran dispetto di raffinati senatori come Simmaco, l’idea che la «prestazione» loro richiesta dal pubblico romano fosse moralmente illegittima e, pertanto, nulla e  inesigibile.
Così pure, le nuove disposizioni di legge riguardo il matrimonio, il divorzio, i figli e la «patria potestas» su questi ultimi, sembrano indicare chiaramente che un influsso moderatore, da parte del cristianesimo, vi fu; tanto che il diritto di abbandonare o mettere a morte il neonato, da parte del padre, venne definitivamente abbandonato, e subentrò la concezione che ogni vita umana merita rispetto, fin dalla nascita (più tardi, fin dal concepimento).
Il diritto, in quanto è l’insieme delle norme che regolano la vita dei membri di una certa comunità, aventi carattere di obbligazione, non è che il riflesso delle concezioni filosofiche, religiose ed etiche di una data società, in un dato momento storico. Ne consegue che il diritto, sia pubblico che privato, registra i mutamenti e l’evoluzione di tali concezioni, e non è esso a determinarli.
Sarebbe ben strano che una rivoluzione religiosa e spirituale dalla portata gigantesca, come quella che vide l’affermazione del cristianesimo e il tramonto del paganesimo antico nel tardo Impero Romano, non avesse esercitato una influenza profonda e durevole anche nella sfera del diritto, sia pubblico che privato, sia civile che penale. È difficile che la si possa sottovalutare, pur ammettendo - come è giusto e ragionevole - uno iato più o meno sensibile fra le idealità proclamate dalla nuova religione, e la loro traduzione pratica nei comportamenti della vita quotidiana (come nella lettera a  Filemone, in cui S. Paolo consiglia allo schiavo Onesimo di ritornare presso il padrone, dal quale era fuggito; raccomandando però al padrone - cosa non meno importante - di accoglierlo benevolmente e fraternamente).
Perciò, a meno di accogliere in modo rigido la teoria marxiana della anteriorità della struttura alla sovrastruttura (che Marx, con un espediente linguistico, dava per acquisita senza bisogno di dimostrarla: quando mai una sovrastruttura potrebbe precedere la struttura?), rimane largamente condivisibile l’idea che il cristianesimo abbia influenzato notevolmente la trasformazione del diritto romano «classico», così come aveva permeato di sé gran parte della vita spirituale e culturale. Volerlo negare ci sembrerebbe operazione ideologica preconcetta e, quindi, intellettualmente disonesta; anche se, da alcuni decenni in qua, ampiamente diffusa.
Ogni rivoluzione si propone l’obiettivo di creare un «uomo nuovo»; e, pertanto, di produrre nuove norme e nuove leggi.
Se ciò vollero fare il fascismo e il nazismo, che durarono meno di vent’anni, e il comunismo marxista, che non resse alla prova per più di settant’anni, come non ammettere che fu un disegno simile venne perseguito e, in gran parte, realizzato, dal cristianesimo, attraverso secoli e secoli di storia? Senza contare che il cristianesimo mirò, innanzitutto, a riedificare l’uomo interiore, e poi, di conseguenza, l’uomo esteriore: agendo, quindi, in profondità; mentre i totalitarismi moderni hanno seguito la via opposta, restando, inevitabilmente, piuttosto in superficie.
È logico, in conclusone, che il diritto romano sia stato largamente influenzato dalla concezione cristiana dell’uomo; anche se altri fattori, tra i quali le trasformazioni economiche dell’epoca tardo-antica, senza dubbio svolsero anch’essi un ruolo importante.