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Maria Callas: arte, non sregolatezza

di Marco Iacona - 14/04/2009



Troppe cose. Davvero troppe cose da dire su Maria Callas nata Kalogeropoulos (New York, 2 dicembre 1923). Indro Montanelli diceva che Maria non fosse abituata alla normalità e che al di fuori dell’ampia cerchia degli innamorati o dei denigratori – e Maria in vita ne ebbe e tanti – le veniva naturalmente difficile pensare che esistesse qualcos’altro o qualcun altro. Abituata a quel non so cosa che si chiamava fanatismo o melomania (fa lo stesso); abituata a giocare con la sua “divinità” come una donna qualunque ama arrotolare i ricci davanti ad uno specchio.
Per la Callas tutto era naturale, la sua grandezza era la grandezza di chi arrivava ove le altre non potevano arrivare. Stati Uniti, Grecia e Italia, i luoghi geografici incisi nel suo destino ne avevano forgiato il temperamento – libero, orgoglioso e passionale - da donna di “carattere” (come si diceva una volta…) e da prima grande realtà moderna del canto lirico. Tre tradizioni artistiche che si erano annodate alle corde vocali, ai muscoli dei suoi organi fonatori, favorendo, fra l’altro, a nascita di una voce unica nella storia della musica d’Occidente.
La Callas è stata così grande da aver reso ancor più grande perfino la sua maestra (la spagnola Elvira De Hidalgo) è stata così grande da aver inventato uno stile espressivo – inconfondibile e, sia ben chiaro, inimitabile perché del tutto autentico – che negli anni è diventato una quasi formale autorizzazione per il debutto femminile nella carriera operistica. Dagli anni Settanta di nuove-Callas, in realtà finte-Callas, ce ne sono state fin troppe, tutte con la loro voce o vocina di colore scuro, con le agilità rese più vere dalla ricerca dello spirito del dramma; soprani o mezzosoprani dal portamento scenico molto callasiano, divenuto sostanza essenziale (se ben riuscito) e mai secondario.
Le date essenziali della carriera della Callas, che debuttò giovanissima (15 anni) in Cavalleria rusticana ad Atene e concluse la carriera praticamente a metà degli anni Sessanta (ma la voce era stanca almeno da un lustro) sono tante. Due pubblicazioni orienteranno il lettore curioso: il Maria Callas. Mito e malinconia, ricca di bellissime foto, di Carla Verga (Bietti 1980) e la Storia dell’opera italiana di Rodolfo Celletti (Garzanti 2000). Ma non avrebbe senso elencarle tutte come si farebbe per la compilazione di qualunque dizionario enciclopedico. Le serate alla Scala, le grandi incisioni, le grandi riscoperte e le regie di Visconti, ma anche le biografie, l’immancabile gossip, il cinema con Pasolini e poi la Callas francese…
No, l’ascolto di un’opera della Callas – poniamo quello di Tosca del 1953 con Giuseppe Di Stefano, diretta da Victor De Sabata e quello di Norma del 1954 col tenore Mario Filippeschi, diretta dall’amato Tullio Serafin, entrambe registrazioni ufficiali – è un esercizio che non andrebbe mai confuso con l’ordinaria amministrazione, perché la sua voce è riuscita a raccontare storie, luoghi e immagini, che solo un orecchio ben allenato era e sarà capace di comprendere fino in fondo. A maggior ragione dopo la rivoluzione sessantottina e lo sconvolgimento del gusto e della percezione del bello.  
Debuttò in Italia nel 1947 (con Gioconda all’Arena di Verona). Lavorò con la Scala di Milano dall’inizio degli anni Cinquanta fino al 1962, interpretando da genio della perfezione (forse la miglior definizione per Maria) più di venti ruoli diversi. Debuttò al Metropolitan di New York nel ’56 e due anni dopo all’Opera di Parigi. In quel periodo dimagrita di trenta chili era già una delle donne più belle, raffinate ed eleganti del pianeta. Negli stessi anni – già sposata all’industriale Meneghini – aveva conosciuto l’uomo della sua vita, Aristotele Onassis, col quale avrebbe avuto una storia d’amore – e dal quale avrebbe avuto un figlio nato morto – lunga circa dieci anni.
Nell’aprile del 1957 Eugenio Montale, recensendo una serata memorabile nella storia del melodramma - l’Anna Bolena alla Scala diretta dal grande Gavazzeni - così scriveva: «come Anna la signora Meneghini Callas si è riportata di colpo alle grandi sue creazioni di Medea e della prima sua Norma. Voce vibrante, portamento scenico, arte di canto e stupenda stilizzazione, tutto fa di lei una Anna che oggi non può aver rivali».
Al suo timbro vocale, e più in generale a quella che in gergo lirico si chiama “tecnica”, sono state dedicate pagine e pagine di analisi. Entrambe permettevano alla “divina” di spaziare in un repertorio vastissimo: dal belcanto – Bellini (i suoi Puritani del ’49 furono un vero e proprio punto di “non ritorno”) e appunto Donizetti – al puccinismo (Tosca), da Verdi a Wagner; la Callas riuscì ad essere tante voci insieme sublimando in emozioni senza tempo e a seconda della partitura in esame, agilità e drammaticità, coloratura ed intensità. In tre parole sole: l’Arte del canto.
Mai nessuno prima di lei (mai nessuno dopo di lei), sarebbe rimasto impigliato nella rete artistica di suggestioni e turbamenti nell’eseguire pochi secondi del più classico dei recitar cantando (I Puritani di Bellini, registrazione del ’53, atto III, libretto di Carlo Pepoli, amico di Leopardi: «E rompeva la parola il singulto del mio cor!»), mai nessuno prima di averla ascoltata avrebbe rimesso in discussione - magari con due-tre stagioni di colposo ritardo - decenni di tradizione interpretativa occidentale, e mai prima che ella venisse al mondo i miti ottocenteschi del belcanto europeo erano stati sottoposti ad un lungo, lento ed efficace assalto di genere critico. Intelligente e ponderato.
Ma la fine arriva per tutti. Maria Callas uscirà per sempre di scena il 16 settembre del 1977. Aveva smesso di cantare (la sua ultima apparizione pubblica è nel ’74 con Di Stefano in Estremo Oriente), e da tempo si era chiusa nel più assoluto silenzio – quasi un esilio parigino – ignorando anche gli amici più stretti. Pare che avesse imparato a rispondere al telefono camuffando la voce; spacciandosi per la segretaria o la governante di una Signora Maria “mai in casa”. Morì così, giocando con la voce come in fondo aveva sempre vissuto. L’artista aveva 53 anni.
La sua eredità è una gioia che nessuno potrà indossare.