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Note intorno a Jean Baudrillard

di Alessandro Puma - 17/04/2009


La vera rivoluzione, oggi, passa ormai per il cosiddetto codice vigente dei segni. E’ grande merito di Jean Baudrillard averci aperto gli occhi sulla follia comunicativa dei significanti senza significato e sulla reversibilità (o commutabilità) dei segni fra di loro in questa nostra società non più surrealista, ma ormai decisamente iperrealista, che non fa altro che ri-produrre il modello di se stessa, basato sulla prostituzione e sulla moda, e che non tiene più in conto la differenza tra lavoro e tempo libero, tra culto di se stessi e investimento economico della propria persona e del proprio corpo – o della propria persona valutabile economicamente in quanto corpo.
 La merce, l’arredamento, la moda, l’architettura (post)minimalista, il feticismo per gli oggetti, il ‘due-pezzi-cucina-doccia’, le scarpe col tacco a spillo e il ‘top’ elasticizzato, la ripetizione all’infinito delle immagini di Andy Warhol, la pubblicità e la prostituzione dilagante ovunque (il “valore” della donna puttana-santa-manager che ha il coraggio e la sfrontatezza di dire ‘che male c’è?’, preservando intatta la sua purezza); tutto questo, oggi, è assurto a religione, o per meglio dire a diabolica sacralizzazione. Una religiosità immanente o luciferina che prospera sulla commutabilità o interscambiabilità dei segni (appunto Baudrillard) e sulla volontaria, erronea e confusionaria interpretazione dei simboli della ‘Scienza Sacra’ (Renè Guènon).
 Dall’era della contraffazione, rinascimentale e pre-industriale (alla quale era cara la tematica del doppio alla William Wilson, ovvero dell’automa), all’epoca della mercantilizzazione del valore, soprattutto del valore della forza-lavoro dell’operaio (in cui vigeva l’immagine ancora ingenua, ancora ottimistica e anti-luddista della macchina o della fabbrica), all’epoca post-capitalista della fine del lavoro, della simulazione della produzione – ormai ri-produzione del lavoro, della vita e della realtà stessa – (in cui vige, oggi, il simulacro, ossia il segno reso equivalente a qualsiasi altro segno, nella sua emancipazione dal codice, o da un solo codice fisso, a favore di tutti gli altri); per cui non ha più senso nemmeno la contrapposizione politica destra/sinistra, fascismo e comunismo ecc., se non si comprende che una vera rivoluzione che possa abbattere il nemico (un nemico, sempre, invisibile), è quella simbolica, metaforica o allucinatoria, che passi attraverso un nuovo codice che distrugga tutti gli altri nella misura in cui si sacrifica, del tutto gratuitamente, come in un potlatch sproporzionato.
 Anche il concetto di lavoro in senso tradizionale perde il suo contenuto, diventando: “…il ribaltamento di tutto il lavoro sul servizio, il lavoro come pura e semplice presenza/occupazione, consumo di tempo, prestazione di tempo. Fare ‘atto’ di lavoro come si fa atto di presenza, come si fa atto di obbedienza. In questo senso, la prestazione è in effetti inseparabile dal prestatore. Il servizio reso è l’adesione di corpo, di tempo, di spazio, di materia grigia. Che ciò produca o meno è indifferente per quanto riguarda questo ancoramento personale […] In questo senso, il lavoro non si distingue più dalle altre attività, e in particolare dal suo termine opposto, il tempo libero, che, giacchè presuppone la medesima mobilitazione e il medesimo investimento (o il medesimo disinvestimento produttivo) è oggi allo stesso titolo un servizio reso – che dovrebbe giustamente meritare un salario, come si è già verificato in alcuni paesi, come un’‘imposta negativa’ o salario minimo di base per tutte le categorie sociali, da defalcare da un’ eventuale futura retribuzione salariale n.d.r. – ” (Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2007).
 Il lavoro è dappertutto, perché non c’è più lavoro. E’ allora che esso raggiunge la sua forma definitiva, la sua forma perfetta, il suo principio, con il quale esso si ricongiunge con i principi elaborati nel corso della storia in quegli altri spazi sociali che hanno preceduto la manifattura e le hanno servito da modello: il manicomio, il ghetto, l’ospedale generale, la prigione – tutti i luoghi di reclusione e di concentramento che la nostra cultura ha secreto nella sua marcia verso la civilizzazione.