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La nostra vita è fatta in gran parte di ricordi: per questo lasciarla è più difficile agli anziani

di Francesco Lamendola - 17/04/2009


Secondo un modo di pensare largamente diffuso, e sostenuto anche da eminenti filosofi sin dall'antichità (tra gli altri, Cicerone e Seneca), l'anziano sarebbe più preparato psicologicamente ad affrontare il gran passo della morte, perché, consapevole di aver vissuto a lungo, non avrebbe il peso dei rimpianti che, si presume, rende tanto amara ad un giovane l'idea della fine; il rammarico, cioè, di una vita non ancora vissuta sino in fondo.
Che si tratti di un grossolano errore di prospettiva, bastano a dimostrarlo pochi minuti di conversazione con una persona decisamente anziana: a meno che questa sia soggetta ad acute sofferenze per causa di qualche malattia, ci si renderà subito conto che il cumulo dei ricordi, nei quali essa vive ed è, per così dire, interamente avvolta (tanto che la prospettiva del futuro non ha,  per essa, alcun senso, se non quello di poter seguitare a ricordare), le appare come un bene così prezioso, che l'idea di doversene separare si configura, di per sé, come la peggiore delle sciagure; la sciagura suprema.
In altre parole: se la nostra vita interiore è, sostanzialmente, l'insieme dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni; e se tali idee, sentimenti ed emozioni sono costituiti, in larghissima misura, dal nostro passato, recente e remoto (dato che quelli legati al presente fuggono via incessantemente, mentre quelli proiettati verso il futuro sono ancora una «tabula rasa», fatta semmai di dolci, ma vaghe aspettative); ebbene, ne consegue che la nostra vita è costituita, essenzialmente, dal bagaglio della memoria che noi ci portiamo dietro.
E mano a mano che ci si inoltra nel cammino della vita, invecchiando, tale bagaglio continua ad aumentare, come una ricchezza che cresca incessantemente; anche se (come direbbe Kierkegaard) non possiamo più spenderla. Non possiamo spenderla, ma essa ci è preziosa ugualmente; l'idea di doverla abbandonare ci riempie di angoscia, come lo sarebbe l'idea di doverci separare dalla nostra stessa anima, dalla nostra ragione di vita.
Ecco perché tanti anziani muoiono poco dopo essere stati trasferiti in ospedale o in casa di riposo: aver dovuto abbandonare la propria casa, letteralmente intessuta di ricordi, nonché la perdita della propria autonomia fisica, costituiscono una prova troppo dura da superare. La vita ha già tolto loro, una dopo l'altra, le persone care; ora il ricovero in ospedale o in casa di riposo li deruba anche del ricordo di quelle persone. E per una persona di ottanta o novant'anni, che non si aspetta più nulla da quel poco futuro che le resta, si tratta di una perdita davvero irreparabile.
Certo, in ospedale o in casa di riposo un anziano viene assistito da personale specializzato; ma foss'anche il personale migliore del mondo, non potrà mai risarcirlo del bene inestimabile che ha perduto: il contatto quotidiano con gli oggetti cari, con le proprie abitudini. Gli esseri umani non sono come delle piante in vaso, che periodicamente si possono rinvasare; non oltre una certa età, per lo meno. A loro non basta che siano assicurate le condizioni per una vita vegetativa; bisogna che quella vita sia al servizio di un'idea, di un sentimento, di un ricordo. Se queste cose vengono a mancare, viene meno anche la voglia di seguitare a vivere.
Considerazioni analoghe sono state sviluppate, in maniera estremamente persuasiva, non da un filosofo (curioso come i filosofi tacciano così spesso su questioni fondamentali per la vita concreta delle persone: sono troppo impegnati a dissertare sui massimi sistemi, loro), ma da uno scrittore: l'inglese Richard Hughes (1900-1976), precisamente nel romanzo «Nel pericolo» (titolo originale: «In Hazard», 1938; traduzione italiana di Ada Prospero, Milano, Bompiani, 1949;  Garzanti, 1967, pp. 117-18):

«[…] In fondo, il valore di un individuo si misura dal suo passato: più ha vissuto e più vale; per questo i vecchi sono veri giganti, mentre i giovani, nonostante tutta la loro superbia, sono dei moscerini. Poiché un uomo altro non è,. In fondo, che la sua mente.  E nella mente di un uomo, in qualsiasi momento, c'è ben poco all'infuori della memoria: il pensiero è fatto di nove parti di memoria, esattamente come una medusa è fatta di nove parti d'acqua.
Eppure la morte di un giovane sembra una cosa terribile, e logica e giustissima invece la morte di un vecchio! Morendo, un vecchio suscita poco rimpianto, perché si pensa che ormai non abbia più molto interesse alla vita. Ma quanto ne ha, invece!
Vi sarà certo capotato di veder morire qualcuno: un giovane si morde il labbro, e se ne va, come se cadesse da cavallo; ci sono anzi dei pazzi che s'allontanano dal loro cammino per arrischiare la morte. MacDonald [il direttore di macchina della nave "Archimede", sorpresa da un ciclone di terribile violenza e sul punto di affondare] aveva visto invece una vecchia di ottantasei anni, sul suo letto di morte: quella sì, combatteva per la vita come una tigre lotta per difendere i suoi nati. Le sue ultime parole, quando tramontò il sole, furono: "Spero di svegliarmi viva domani mattina" benché Dio solo sa che cosa sperava svegliandosi: da tre giorni aveva le gambe completamente paralizzate.
Dopo tutto, che cosa preferireste perdere: un portafogli vuoto, o uno che si sia riempito con anni di laboriosa fatica?  Pensate a quel che perdeva quella donna: memorie di più di ottant'anni.  Eppure, quando muore un fanciullo, la gente, nella sua pietà, s'abbandona al lirismo:; e invece un fanciullo perde così poco con la vita contenente quattro soldi e una cambiale.
Tutti i vecchi sanno queste cose, anche se non le confessano apertamente neppure a se stessi. MacDonald le sapeva: e continuava a ripensarci, profondamente indignato, mentre camminava su e giù nella sala macchine.»

Certo, i filosofi possono trovare leggermente privo di stile un tale atteggiamento, da parte degli anziani; quasi di cattivo gusto.
Evidentemente, per far contenti i filosofi e per non deludere il loro raffinato senso estetico, gli anziani dovrebbero prepararsi all'idea della propria morte con la massima disinvoltura e, anzi, quasi quasi dovrebbero accoglierla con un sospiro di sollievo; così leverebbero dalle spalle dei giovani ogni senso di colpa per il fatto che sopravviveranno loro, e a lungo.
Sfortunatamente, la vita - la vita concreta, la vita vera - se ne infischia di quel che i filosofo gradirebbero o non gradirebbero, esattamente come del loro senso estetico. Il fatto è che l'idea della morte - non della morte in generale, in astratto, ma l'idea della propria morte - non piace a nessuno; e agli anziani piace ancor meno che ai giovani.
Questo è il dato dal quale bisogna partire, se si vuol svolgere una riflessione onesta su un tema così delicato; con buona pace della retorica e di tutte le nobili considerazioni dettate dalla saggezza di chi vede le cose dall'alto.

Nel precedente articolo «Riflessione sulla morte: prepararsi a un congedo sereno, senza rimpianti» (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice) ci siamo serviti di questa similitudine: noi siamo a bordo di una zattera - il corpo - che, prima o poi, si sfascerà sotto la forza dei marosi. Di conseguenza, dobbiamo imparare a nuotare o, almeno, a non avere troppa paura dell'acqua, e dobbiamo farlo prima che ciò accada.
Impareremo tanto più facilmente, se impareremo a godere della vita senza diventare irragionevolmente avidi, egoici, attaccati a ciò che è transitorio; se sapremo focalizzare, per tempo, il meglio delle nostre energie verso ciò che è permanente. Se capiremo, in definitiva, che noi non siamo la zattera, né dobbiamo identificarci con essa. La zattera non è che un mezzo di trasporto che, un giorno o l'altro - forse prima di quanto pensiamo - dovremo abbandonare.
Tutta la vita umana, come diceva Platone, non è che esercitazione e preparazione alla morte.
Lungi dal gettare sulla vita un'ombra funesta e angosciosa, questa consapevolezza dovrebbe costituire la migliore premessa per vivere al meglio delle nostre possibilità, puntando energicamente verso ciò che davvero è essenziale e non indugiando inutilmente in ciò che è secondario e irrilevante
Siamo arrivati così alla conclusione, assolutamente ragionevole, che dobbiamo fare uno sforzo per  sbarazzarci della zavorra, se vogliamo puntare alla vetta. Ed è bene che impariamo a farlo fin da ora, fin da subito: giorno per giorno, minuto per minuto.
Siamo solo dei viandanti, non dovremmo mai scordarcene.
La nostra vera patria non é questa, per quanto la vita possa essere stata generosa con noi, offrendoci cose buone.
La morte, allora, dovrebbe apparirci come quell'alta vetta, dalla sommità della quale potremo finalmente gettare lo sguardo verso l'altro orizzonte: l'orizzonte che, da quaggiù, non avremmo potuto mai vedere; e la cui scoperta è, appunto, il senso ultimo del nostro peregrinare.

Giunti a questo punto, possiamo forse mettere a fuoco il problema del prepararsi a morire dal punto di vista di una persona anziana.
Prepararsi a morire è una operazione che può apparire contro natura, solo se noi facciamo nostra la visione materialista, secondo cui la morte è la fine di tutto. Se, invece, teniamo socchiusa la porta - anche solo come ipotesi di lavoro - sulla possibilità che la morte equivalga a un passaggio di stato, allora anche quel peso che maggiormente rende penosa l'idea della morte - intendiamo dire, il peso dei ricordi - cessa di costituire un fattore di aumento dell'angoscia, e si trasforma nel suo contrario: un elemento di aiuto e di sollievo.
Infatti, se morire significa accedere ad un'altra dimensione, più spirituale di quella presente; anzi, talmente spirituale che gli eventi fisici cessano di svolgervi qualunque influenza - ecco che quel prezioso tesoro, al quale non vorremmo mai rinunziare, trova una sua adeguata collocazione: nel senso che non andrà irreparabilmente disperso, ma entrerà a far parte di quel nostro nuovo modo di essere; e nulla di esso andrà perduto, neppure il più piccolo frammento.
L'anziano, inconsciamente, si sente come una sentinella: sua è la responsabilità di custodire il tesoro prezioso, inestimabile, dei ricordi di tutta una vita, lieti e tristi - ma, in genere, anche questi ultimi resi dolci da quel formidabile elemento pacificatore che è il tempo. Una sentinella piena di angoscia, però: perché ella sa che arriverà il momento in cui non potrà più fare la guardia al suo tesoro; sa che giungerà il tempo in cui sarà colta da un sonno invincibile, chiuderà gli occhi per riposare un momento, e invece si addormenterà per sempre.
Ma se la sentinella dovesse rendersi conto che, quando sarà divenuta troppo stanca per riuscire a tenere ancora gli occhi aperti, qualcun altro verrà a darle il cambio e a prendere in consegna il tesoro da custodire; qualcuno che non si addormenterà mai, che non perderà di vista quel tesoro neppure per un istante; qualcuno che veglierà al posto suo e che, quando sarà venuto il momento, le  restituirà il tesoro intatto, in un modo tale che nessuna forza sarà mai più in grado di contenderglielo  o di minacciarlo in alcun modo?
In questo caso, la sentinella non avrebbe più tanta paura e tanta angoscia; non avrebbe più il terrore di farsi sorprendere dal sonno, come da un nemico che striscia nel buio per colpirla e derubarla a tradimento. Non avrebbe più la terribile sensazione di aver ricevuto un incarico impossibile, un incarico superiore a qualunque forza umana: e ritroverebbe la pace, perché il traguardo finale rientrerebbe nell'orizzonte di una prova difficile, certo, ma non più impossibile; di una prova che non ci sarebbe data, se non avessimo le risorse per affrontarla e superarla.
Il segreto, in fondo, è tutto qui.
Si tratta di capire che vi è una proporzione fra il modo in cui noi abbiamo scelto di guidare la nostra vita, e il modo in cui saremo chiamati ad affrontare la crisi della morte. «Crisi» nel seno etimologico della parola, ossia «passaggio». Un passaggio impervio, ma non assurdo e, soprattutto, non impossibile.
Perché non racchiude alcuna beffa, alcuna ironia: nel senso che a chi può possiede (l'anziano, ricco di ricordi) non viene chiesto di gettare via tutto, come se non avesse nulla; ma, al contrario, di affidarlo in buone mani, per sempre.
E, una volta sollevata dalla preoccupazione di doversi separare dal tesoro dei propri ricordi, quale persona anziana non finirebbe per essere lieta di potersi riposare del lungo cammino percorso sulle strade polverose della vita, e concedersi il ristoro del sonno?
Quello che rende così amaro il pensiero della morte agli anziani, è l'idea che tutti i loro cari ricordi, di cui essi sono i gelosi custodi, andranno dispersi e che non ne rimarrà più traccia alcuna, come se quegli eventi non fossero mai accaduti, come se quelle persone, tanto amate, non fossero mai esistite.
Ma se si potessero convincere che questo non avverrà, che cosa li tratterrebbe ancora sulla terra, che cosa li legherebbe alla vita, in maniera cieca e irragionevole?
Un uomo riconciliato con il proprio passato, è un uomo pronto a partire; e un uomo che abbia la speranza di ritrovare ogni cosa di esso, è un uomo che non teme più la morte e anzi, ad un certo punto, forse arriva a desiderarla: perché vede in essa il mezzo per ritornare a tutto quello che ha amato nel corso della propria vita.
Come il neonato, istintivamente, spinge verso le porte della vita, superando l'istinto di attaccamento al confortevole seno materno: così l'anziano, una volta che si sia rasserenato riguardo al destino dei propri ricordi, probabilmente spingerà egli stesso verso lo spiraglio di luce che passa attraverso la morte.
Non è un paradosso; o, se lo è, è simile a quello della nascita.
Noi non siamo fatti per la morte, ma per la vita. E l'anziano che si riconcilia con l'idea della morte non insegue il fantasma dei semplici ricordi, ma la prospettiva di ritrovare tutte quelle cose che gli sono state care: non nella memoria, ma su di un nuovo piano di realtà.
Senza più paure, incertezze e ambiguità; senza più quella punta di amaro che, nella vita terrena, si insinua anche nei momenti più dolci, anche nelle emozioni più pure.