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Riflessioni sul buddhismo

di Alberto De Luca - 17/04/2009

  

Recensire un testo scritto o curato da Pasqualotto, significa essere lontani dall’arido nozionismo e dal narcisismo enciclopedico. Questo vale anche per Dieci lezioni sul Buddhismo,[1] in cui la scorrevolezza e la comprensibilità, ciò che non significa volgarizzazione dei termini o riduzionismo concettuale, si confermano come connotati ricorrenti della prosa dell’autore veneto. Caratteristiche queste che attestano prima di tutto l’effettiva comprensione dell’argomento da parte dello stesso autore. Un chiaro segnale in contro-tendenza, se raffrontato con la vastità dei testi sull’argomento, spesso pubblicati per una spasmodica fretta di arrivare anzitempo sugli scaffali delle librerie e contraddistinti da un didascalismo superficiale, frutto sovente di invenzioni personali più o meno mutuate.

Abbacinanti sono infatti tutte quelle interpretazioni “pacifiste”, “ateistiche” ed “anticlericaliste” del Buddhismo, che spesso conquistano la ribalta dei media a discapito di lavori seri ed approfonditi.

Essere avulso da tutto questo, equivale dunque tributare a Pasqualotto forse il migliore complimento che gli si possa fare: egli cerca di essere ciò in cui crede.[2]

Lo scheletro di questo libro è fornito dai testi, leggermente rivisti ed aggiornati, di dieci conferenze tenute lungo l’arco degli ultimi vent’anni, accompagnati da interessanti e propedeutici “apparati” che illustrano brevemente la simbologia e la gestualità del Buddhadharma. Infine, l’integrazione del testo, grazie ad un rigoroso impianto di note esplicative, permette all’autore di operare efficaci e profonde comparazioni con altre tradizioni, che non appaiono mai artificiose e stentate. Infine, la fondatezza delle argomentazioni addotte nel libro ha indicato un’altra direzione da seguire per questa recensione: sviluppare alcune riflessioni indotte dal testo in una forma aperta da offrire all’autore stesso.

La sensazione che si ricava dalla lettura del libro, è dunque quella di una grande attrazione verso questa “etica” orientale, così come viene definito spesso il Buddhismo vista la sostanziale assenza in esso di richiami al divino. Impressione del resto facilmente corroborata dall’aumento esponenziale di nuovi aderenti che provengono dall’Occidente non sempre mossi dall’esotismo.

Non bisogna però commettere il fatale errore di assumere una visione irenistica nei confronti del Buddhismo, finendo per riconoscere in quest’ultimo ad esempio solo “non-violenza” ed assenza di clero. Un’avvertenza quest’ultima che insiste sulla differenza congenita tra qualsiasi “via spirituale” e la sua stessa “istituzionalizzazione”. Quelle palesi incongruenze che talvolta possono essere agevolmente rilevate tra gli insegnamenti cristici e la Chiesa, non sono invero un fenomeno prettamente cristiano e nemmeno monoteistico. Piuttosto, sono l’inevitabile prodotto dell’istituzionalizzazione e dell’allargamento di un insegnamento che originariamente era limitato quanto a numero di persone ed a zona di irradiamento. Un’eterogenesi dei fini dunque.

Paradigmatiche ed imprescindibili risultano in questo senso le notazioni di Paolo Vicentini, contenute nel numero speciale di Atrium dedicato interamente all’esotismo spirituale,[3] che hanno richiamato l’attenzione dei lettori sugli aspetti non effettivamente pacifici del Buddhismo propriamente tibetano, lacerato anch’esso da sanguinose lotte interne tra varie scuole ed attualmente retto ancora da una teocrazia, una forma di governo certamente non anti-clericale tout court.

L’assenza del dogmatismo, che Pasqualotto sottolinea fin dall’inizio, non costituisce un giudizio di valore nei confronti delle altre tradizioni che ne siano prive.

Il dogmatismo, infatti, potrebbe anche non dipendere dalla religione tout court bensì dalla determinata forma mentis in cui e da cui esso origina. Verrebbe piuttosto da chiedersi allora se il dogma non sia il normale “antidoto” che la stessa razionalità si sarebbe dato. Una specie di freno che inibisce un elicoidale ragionamento a ritroso attinente a questioni non risolvibili.

Se poi la risposta a questo interrogativo fosse positiva, allora sarebbe del tutto naturale riscontrare la mancanza di dogmi laddove esistano delle civiltà non “in ostaggio” del demone della razionalismo e senza che ciò fomenti atteggiamenti di stampo neo-positivistico.

Una volta che gli istinti esotici siano stati domati oppure rigettati, l’insegnamento di Siddharta risulta “diverso” dalle altre tradizioni unicamente per la sua forma. Al pari di queste, infatti, anche il Buddhismo dispone di un “nocciolo mistico” e quindi di una duplice possibilità penetrativa di questo stesso nocciolo. Duplicità che si manifesta nell’esistenza di un lato esoterico e di uno essoterico, direttamente collegati al maggiore o minore grado di verifica dell’insegnamento del Buddha, insegnamento che viene detto essere appunto ehipassika, “verificabile da tutti”.

Il suo stesso denotarsi poi quale “Via di Mezzo” (Majjhima-patipada), potrebbe per l’appunto indicare una ricapitolazione di quei due lati sopra menzionati, ossia una sublimazione degli oppositorum. Conseguentemente tutto ciò induce a pensare, ma si può certamente sbagliare, che pure l’illuminazione buddista (bodhi), al pari di qualsiasi altra realizzazione tradizionale, possa consistere in una vera e propria unio mystica, vale a dire mistero dell’unione dei due aspetti antinomici della Realtà.

Anche nel Buddhadharma pertanto chi riesce a cogliere il “centro” delle cose, ma potrebbe essere tranquillamente il “fondo” o la “vetta”, riesce a tenere insieme anche la “circonferenza” oppure la “superficie”. L’illuminato percepisce la Realtà come fosse un’antinomia, ma non tenta di imporle una contrapposizione visibile-invisibile, esoterico-essoterico oppure soggetto-oggetto. In questo appunto riposerebbe l’unio mystica citata, ovvero il non volere elidere o disgiungere la semplice proposizione “io-vedo-questo”, laddove “io-vedo-questo” costituisce la cifra dell’antinomia. La vera conoscenza è un’estatica coincidenza con la Realtà.

E’ così che, sulla base di quest’ultima osservazione, gli “illuminati” dovrebbero comportarsi con gli altri dimostrando nei fatti che sono tali, senza mai dirlo o peggio pretenderlo, ma soprattutto senza mai pretendere di dire, esaurendo, “cosa sia l’illuminazione”.

Un’aspirazione quest’ultima che non è mai stata al centro dell’attenzione di Pasqualotto, il quale nei suoi lavori, talvolta anche critici, sembra aver risposto nei fatti ad uno degli aforismi di Nicolas Gomez Davila: “chi non capisce che due attitudini perfettamente contrarie possono essere entrambe perfettamente legittime non deve occuparsi di critica”.[4]

“Non fondatevi sui testi” avrebbe detto il Buddha, bene, purché si rammenti che questa esclamazione è nulla di più che un testo.

All’autore vanno sinceri e profondi complimenti.

 

                                                                                                                       

  

                                                                     

       


[1] PG. Pasqualotto, Dieci lezioni sul Buddhismo, Marsilio, 2008.

[2] Pasqualotto permetterà questa volta l’essere stato correlato al verbo “credere”, quantunque il Buddhismo possa anche non essere ritenuto una “credenza”.

[3] P. Vicentini, Lontani da Shangrila. Mito e politica nel buddismo tibetano, in “Atrium”, n. 3, 2007.

[4] N.G. Davila, Tra poche parole, Adelphi, 2007.