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Pensieri d'aprile presso il fiume, nella fresca ombra del salice

di Francesco Lamendola - 18/04/2009


 

Ripenso ai famosi versi del divino Virgilio («Georgiche», III, 10-15; traduzione di Enzio Cetrangolo):

«Primus ego in patriam mecum, modo vita supersit,
Aonio rediens deducam vertice Musas;
primus Idumaeas  referam tibi, Mantua, Palmas
et vridi in campo templum demarmore ponam
propter aquam, tardis ingens ubi flexibus errat
Mincius et teneras praetexit harundine ripas.»

                       «Io per primo, se vita m'avanza,
in patria tornando meco le Muse dal monte
Aonio addurrò; io primo, o Mantova,
a te le palme Idumèe porterò; e un tempio marmoreo
nel verde di un campo alzerò presso l'acqua,
là in quella terra ove il Mincio, di molli canneti
orlato le rive, in lente spire va errando…»

Mi vengono alle labbra ora, qui, seduto presso la sponda di un piccolo fiume che corre cantando la dolce canzone della primavera, mentre un fresco venticello d'aprile ne increspa appena la superficie, all'ombra del salice piangente che immerge le fronde nell'acqua tersa.
La temperatura è mite, la carezza dell'aria rinfresca le membra e carezza il viso: nemmeno due settimane fa il vento, la pioggia ed il freddo facevano sentire le ultime unghiate dell'inverno, mentre la corona di montagne che ora si adagia beata nel sole, era ancor largamente imbiancata di neve, non solo sulle cime, ma fino a metà costa.
Intorno, è tutto un concerto di uccelli: di merli, di passeri, di allodole, di scriccioli; e, in cielo, un intrecciarsi di voli, fra i quali spiccano per eleganza e leggerezza quelli delle primi rondini, tornate anche quest'anno dai paesi del Sud. I cento richiami festosi giungono da ogni parte, vicini e lontani, conferendo al paesaggio una vastità indefinita, dilatandone i confini oltre la superficie che l'occhio può cogliere e misurare.
Il fiume, in questo punto, si restringe più che mai; pur essendo il principale affluente di sinistra del Piave e pur avendo già percorso circa venti chilometri dalla sorgente, soltanto pochi passi separano le due rive erbose, protette dagli argini. Ma la corrente è veloce e profonda, e - merito del lungo periodo senza piogge - eccezionalmente limpida, al punto che si possono distinguere i ciottoli del fondo, all'ombra dei rami.
Una macchia ininterrotta di carpini, noccioli, pioppi, acacie, lauri e salici piangenti ricopre entrambe le sponde, in un trionfo di verdi tutti diversi, eppure tutti straordinariamente teneri: l'acquerello della primavera non conosce i verdi cupi dell'estate profonda. I loro tronchi sono avvolti da una fitta vegetazione di edera selvatica e di altri rampicanti, che si spingono su, fino ai ramni più alti.
I più solenni sono i salici piangenti: passare sotto le loro chiome è come passare sotto le quinte di un maestoso palcoscenico, con i rami frondosi che scendono giù diritti e si svolgono fin quasi a terra, conferendo uno straordinario senso di profondità ed evocando esotici paesaggi della Georgia o della Florida, con il muschio spagnolo che pende dall'alto, come gli archi di una immensa cattedrale virente a cielo aperto.
Le foglioline ancor tenere sembrano quasi esitare, prima di lanciarsi nella grande avventura, verso il blu intenso di un cielo sconfinato e senza nubi; sui platani, poi, sono appena spuntate, e paiono quasi meravigliate del proprio ardire, pur potendo guardare dall'alto in basso le minuscole sagome degli esseri umani.
Lo sciacquio del fiume che corre veloce fra le alte rive è una musica deliziosa, che mai non stanca l'orecchio e si avrebbe voglia di ascoltare e ascoltare all'infinito, come le fiabe che i bimbi richiedono al nonno: sempre le stesse, eppur sempre nuove e diverse, sempre entusiasmanti e incantevoli, come lo furono la prima volta.
E i giochi delle piccole onde sull'acqua, il continuo, incessante intrecciarsi e disfarsi delle varie correnti che disegnano arabeschi sempre cangianti, veloci, inafferrabili, come la loro musica suadente. Se li si fissa a lungo, ad un tratto si esce dallo spazio e dal tempo - si entra nell'infinito e nell'eterno, come per una porta magica dissimulata nella realtà quotidiana. Ci si trova come rapiti in un altrove in cui l'anima, per un momento, si sente quasi smarrita.
E quando, poi, si riporta lo sguardo più in alto, alle tenere canne della riva, irresistibile si crea l'illusione di essere in movimento, come se ci si trovasse su una veloce imbarcazione che scende con la corrente, mentre le sponde alberate paiono fuggire indietro. Avviene come quando un treno passa sul binario accanto e lo si vede sfilare lungo i finestrini del proprio, fermo in attesa: a un certo punto sembra che siamo noi a correre sulle rotaie, e l'illusione svanisce solo con lo scomparire dell'altro treno dal nostro campo visivo.
Intanto il sole si avvicina all'orizzonte e, circonfuso della luce del tramonto, scivola tra le chiome degli alberi, ancora glorioso, avvolgendo i prati, i filari delle viti, le colline ed i monti vicini, in un unico splendore dorato.

Accolto nel grembo di questo paesaggio benevolo e carezzevole come una donna dolcemente sensuale, lascio correre i pensieri in libertà. Pensieri d'aprile, quando la vita torna a fluire possente dopo i freddi e sterili mesi invernali.
La vita si ridesta, la vita sembra ora più dolce che mai: un frutto maturo che si scioglie in bocca in una fragranza zuccherina; e, pur sapendo che i momenti difficili e le prove più dure capitano quando capitano, indipendentemente dalla stagione, pure tutta questa pace, tutta questa bellezza, tutta questo languire indolente dei sensi e dell'anima hanno, ogni volta, il potere di ispirare un senso di leggerezza, di freschezza e di rinnovata speranza.
Già: la speranza.
Sarà che questi giorni d'aprile coincidono, solitamente, con la ricorrenza pasquale, la quale è tutta incentrata sul grande mistero della Speranza soprannaturale: sta di fatto che quasi tutti, anche se non credenti, percepiscono questo momento dell'anno come particolarmente propizio alla dimensione della lieta attesa, del presentimento di qualcosa di positivo e di benefico. Sarà, forse, un retaggio culturale; ad esempio, nella mia città natale, un tempo, quando suonavano le campane di mezzogiorno il Sabato Santo, le persone interrompevano quel che stavano facendo, si scambiavano gli auguri e si bagnavano gli occhi. Era un rito di purificazione, semplice e trasparente, come quello descritto da Dante nel primo canto del «Purgatorio».
Nelle case, le mamme riponevano gli abiti invernali e le coperte di lana e tiravano fuori i vestiti leggeri per la bella stagione: e anche quello era un segno, il segno di una svolta, di una cesura nello scorrere dei mesi e dei giorni. Finiva un periodo, ne incominciava un altro; e i cuori si indirizzavano verso pensieri più lieti, più sereni, pregustando l'avvicinarsi dell'estate, delle vacanze, del riposo (allora le vacanze erano dedicate realmente al riposo e non a quella pazza baraonda che sono divenute in seguito, all'insegna del consumismo più sfrenato).
Ora, nella società post-moderna, i segni degli uomini sono quasi scomparsi: l'etica del profitto non ha bisogno di segni, li considera romanticherie senza senso.
Rimangono i segni della natura: finché durano, almeno quelli.
Per alcuni anni, le rondini avevano smesso di presentarsi all'appuntamento con la primavera: e il vecchio proverbio: «San Benedetto, la rondine sotto il tetto» sembrava ormai relegato nella soffitta delle cose vecchie, della moneta fuori corso (la ricorrenza di San Benedetto abate cade il giorno 21 marzo, data dell'equinozio di primavera). Evidentemente, i cieli d'Europa erano troppo inquinati per loro. Poi, per fortuna, hanno incominciato  a ritornare.
Ma il primo segno della natura che indica l'arrivo della primavera, è quella indefinibile sensazione che s'impadronisce del nostro corpo e della nostra mente; quel certo non so che, per cui avvertiamo il sangue scorrere più rapido nelle vene, e ci accade di guardare al mondo con un occhio nuovo, come se lo vedessimo per la prima volta.
Tale sensazione, fortissima nell'infanzia, tende poi ad attenuarsi, mano a mano che ci si inoltra nell'età adulta; ma non scompare mai del tutto. E, ogni anno, tende a rinnovarsi, allorché le foglioline nuove, le rondini e le campane di Pasqua, ci riportano il profumo inconfondibile di quell'epoca lontana.
È come se il mondo intero facesse un bagno di freschezza e ne uscisse rinnovato, con i colori fatti più vividi e smaglianti.

Se, poi, tentiamo di analizzare un po' meglio codesta strana sensazione di attesa e di presentimento, ci sembra - talvolta - che essa abbia a che fare non solo con dei vaghi ricordi del passato, ma anche con una specie di indistinta promessa, con una sorta di appuntamento che qualcuno o qualcosa ci ha dato, ma che non riusciamo ad afferrare e il cui senso ci appare più che mai elusivo, sfuggente: tanto da dubitarne affatto, come di una mera fantasticheria.
Eppure, forse no; forse non è una mera fantasticheria.
Forse, il risveglio della natura, in primavera, vuole ricordarci effettivamente un appuntamento: un appuntamento con noi stessi, con la nostra parte più vera e più profonda. Non quella, putrida e indicibile, scandagliata e rivoltata con perverso compiacimento dai cultori della psicanalisi, questa forma moderna di magia nera; ma quella splendente e luminosa, che giace come una perla dimenticata in fondo all'anima nostra, e attende la parola prodigiosa che sarà capace di ridestarla alla pienezza della vita.
Il risveglio primaverile, dunque, è una metafora della nostra parte spirituale, sublime, capace di innalzarsi di molto al di sopra delle nostre miserie quotidiane, in un regno di pura bellezza e di ardente partecipazione. Quasi ci eravamo scordati di possedere questa perla preziosa, d'inestimabile valore; quasi ci eravamo scordati che la nostra vera essenza è quella perla, proprio quella perla, e non Già tutte le scorie, più o meno fangose, che debolezze e delusioni le hanno incrostato intorno, un giorno dopo l'altro.
Ecco, allora, che metterci in sintonia con la natura che si ridesta, con le tenere foglie che spuntano sui rami, con le rondini che tornano al nido dopo un viaggio lungo e periglioso, significa comprendere che dobbiamo ristabilire il contatto con la nostra stessa anima, appannata e resa inautentica dai troppi compromessi, dai troppi timori, dalle troppe furberie con le quali siamo soliti autoingannarci e cercare d'ingannare il prossimo.
Solo quando saremo riusciti a riappropriarci della nostra parte più intima e vera, il nostro occhio diverrà abbastanza limpido da poter vedere anche gli altri, e il mondo tutto che ci circonda, nella giusta luce.
Che non è quella del cinismo spicciolo, con il quale tendiamo a trascinare la nostra vita ordinaria, e che ha l'effetto di imbruttire e di rimpicciolire ogni cosa;  ma la luce della speranza, nel senso spirituale e, se si vuole, teologico della parola: attesa compartecipe e fiduciosa del compimento, della promessa, del grande piano armonioso al quale noi, come ciascun altro, siamo stati chiamati a partecipare.
Chiamati, non costretti: da liberi individui, capaci di decidere e di scegliere.
Anche a settant'anni; anche a ottanta; anche a novanta: sempre, fino all'ultimo giorno della nostra vita.
Certo, la primavera della giovinezza conosce un limite, così come quella dell'infanzia; ma ciò non vuol dire che non esista primavera per tutti, anche per i più anziani.
Il principe Andrej, in «Guerra e pace», giace in terra ferito, dopo la battaglia; e così, steso bocconi, inerme, col viso rivolto in alto, fa una scoperta straordinaria: la scoperta del cielo. Anche sopra i morenti, il cielo si spalanca, azzurro, profondo, meraviglioso.
Anche un uomo o una donna che si sentano stanchi, feriti, vinti dalla vita - l'età anagrafica non è tutto, c'è anche un'età psicologica, e certi giovani sono già esausti come fossero dei vecchi - possono ritrovare entusiasmo e voglia di vivere, e sentirsi scorrere nuova linfa nei recessi più segreti dell'anima.
L'anima è una pianta che torna a fiorire sempre, sempre, sempre.
Purché scopra la propria missione: non quella di trascinare i giorni senza uno scopo, ma di realizzare il compito cui è stata chiamata fin dall'inizio: evolversi e perseguire la via della luce, rischiarando il cammino, per quanto possibile, anche alle altre anime; o, quanto meno, facendo attenzione a non ostacolarle, impedirle, sfregiarle.
L'anima che abbia compreso questo, non conoscerà più vecchiaia: ma sarà sempre giovane, bella e fresca, come quella di una fanciulla o di un fanciullo.
Sarà come una rondine che trova sempre la strada del proprio nido, anche dopo una lunga e faticosa traversata sopra il deserto e sopra il mare.
E come diciamo: «Bentornate, rondini!», così impareremo a dire: «Bentornata, anima! Era da tanto che ti stavamo aspettando; e non ci siamo mai rassegnati alla tua lontananza.»