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Una pagina al giorno: Sul Danubio, Le Porte di Ferro, di Claudio Magris

di Francesco Lamendola - 24/04/2009


Le Porte di Ferro!
Con questo nome suggestivo, che evoca lontananze ignote ed epiche migrazioni di popoli, è nota una gola rocciosa che si apre tra la catena dei Monti Balcani e quella dei Carpazi Meridionali, presso l'odierno confine tra Jugoslavia e Romania (ma quanti confini si sono qui incontrati, nel corso della storia!), scavata dal corso impetuoso del Danubio attraverso i millenni.
In effetti, non si tratta di un'unica gola, ma di una serie di strette successive, scavate tra alte falesie che, in certi punti, raggiungono i 500 metri e sono difficilmente raggiungibili dalla parte di terra. Il primo restringimento del Danubio, noto col nome di Golubac, lungo 14 chilometri e mezzo, si restringe fino a una larghezza di soli 230 metri; poi, attraverso la valle Ljupovska, il fiume raggiunge la seconda gola, chiamata Gospodin Vir, lunga 15 km. e ancora più stretta (fino a 220 metri). Infine, attraverso la Piccola e la Grande Gola di Kazan (larga, quest'ultima, soli 150 metri, ma profonda più di 50!), il Danubio raggiunge la pianura della Valacchia, di dove ha inizio l'ultimo tratto del suo corso, verso il delta sul Mar Nero, dopo un corso complessivo di 2.960 km. - dei quali 2.427 navigabili -: il secondo corso d'acqua d'Europa, dopo il Volga, che, però, scorre già ai confini dell'Asia.
I Romani portarono a termine due spettacolari opere d'ingegneria presso le Porte di Ferro: una strada militare, lungo la riva destra, sommersa dopo la costruzione della diga moderna; e un gigantesco ponte, progettato da Apollodoro di Damasco per ordine di Traiano, la cui realizzazione è celebrata anche nei bassorilievi della Colonna Traiana a Roma.
Nella sua corsa verso il Mar Nero e la pace del Delta, popolato di milioni di canne acquatiche e di uccelli marini, il gran fiume sembra volersi aprire a forza la via tra le due barriere di montagne le quali, inarcandosi, racchiudono gran parte del suo bacino e delimitano la vecchia Mitteleuropa. che le vicende crudeli del XX secolo hanno cancellato dalla carta politica del continente, ma non dalla memoria e dalla sua identità culturale e spirituale.
Anche qui, in questa località aspra e selvaggia tra l'onda e la roccia, è arrivata l'ideologia illuministica del progresso: dapprima, nel 1896, sotto forma di un canale navigabile che vi è stato aperto, mediante imponenti lavori; poi, nel 1972, con la costruzione di una grandiosa centrale idroelettrica, capace di una produzione annua di ben 11 miliardi di kwh.
Tra il 1896 e il 1972, tra la «belle époque» e la «guerra fredda», si consuma, dunque, il dramma di quest'angolo glorioso della Mitteleuropa, spazzato dall'irrompere sconvolgente della modernità; né sappiamo che cosa ne abbiano pensato gli spiriti dei Daci, dei Visigoti, degli Ostrogoti, degli Unni, degli Avari, degli Slavi e di cento e cento altri popoli, che di qui sono passati e dal cui miscuglio, ora sanguinoso, ora pacifico, come in un grande crogiolo, si è formata l'identità europea, della quale noi siamo gli inconsapevoli eredi.
La corsa della storia è stata veloce, in questi ultimi decenni; più veloce ancora di quella del Danubio, che scarica ogni anno nel Mar Nero milioni di metri d'acqua raccolta dai Paesi che attraversa o che lambisce, per dei tratti più o meno lunghi: dalla Germania all'Austria, dalla Cecoslovacchia all'Ungheria, dalla Iugoslavia alla Romania, dalla Bulgaria, di nuovo (nel tratto terminale), alla Romania.
Sembra ieri che possenti tiranni, come Tito e Ceausescu, parevano quasi i profeti di una nuova, salvifica «terza via» fra comunismo e capitalismo, fra Oriente e Occidente; e, invece, le loro statue sono state abbattute e i loro popoli si sono sforzati di dimenticarli così in fretta e così bene, che a stento, oggi, in quei Paesi, si oserebbe pronunciare i loro nomi a voce alta.

Uno scrittore italiano «di frontiera», per ragioni culturali non meno che geografiche, il triestino Claudio Magris (nato nel 1939: anche la data è «di frontiera»), più di ogni altro sembrava indicato per rievocare, in un libro di viaggio che è anche un viaggio nella memoria dell'Europa, questo fiume-crocevia; e , infatti, è stato l'unico ad avere una tale sensibilità e a far riflettere il pubblico dei lettori sull'importanza cruciale del Danubio per la nostra storia e per quello che noi ora siamo.
Nell'era della globalizzazione senz'anima e senza radici, è importante tornare a riflettere sull'importanza dei fiumi d'Europa, sui fiumi come metafora del nostro io interiore, secondo la lezione formulata da Giuseppe Ungaretti nella splendida poesia «I fiumi»; anche perché il fiume scorre, scorre sempre, e bene rappresenta il movimento della nostra vita, delle nostre speranze, dei nostri timori, di tutte le innumerevoli generazioni che ci hanno preceduti e che hanno contribuito a fare di noi ciò che ora siamo.
Dal libro «Danubio» di Claudio Magris (Milano, Garzanti, 1986, 1998, pp. 392-94):

«Alle Porte di Ferro.
L'aliscafo per le Porte di Ferro parte da Belgrado, presso la confluenza della Sava nel Danubio, .Mentre si avvia, nonna Anka mi mostra, con un gesto, un punto della città nel quale, durante il bombardamento tedesco del 6 aprile 1941, lei è rimasta un giorno sotto le macerie insieme al suo secondo marito, naturalmente illesa, anzi illesi entrambi. Il sole sorge sul fiume, trasforma le onde e la nebbia in un riverbero abbagliante. Scendiamo veloci il Danubio, lungo le coste dove la lapide di Traiano ricorda le campagne contro i daci del re Decebalo, su acque che, prima della recente costruzione della grande chiusa e della grande centrale idroelettrica di Djerdap, al confine jugoslavo-romeno e in prossimità di quello bulgaro, erano piene di insidie, di vortici e di pericoli. La gigantesca impresa, che produce una grande quantità d energia, ha modificato il paesaggio e cancellato molte tracce del passato; fino a pochi anni fa, per esempio, c’era ancora sul Danubio l’isola di Ada Kaleh, con la sua popolazione turca, i suoi caffè e la sua moschea; ma ora Ada Kaleh è scomparsa, sommersa dal fiume, appartiene al tempo lento e incantato  del fondo delle acque, come la mitica Vineta del Baltico.
Alle Porte di Ferro, il generale romano Gaio Scribonio Curione , nel 74 a. C., scriveva d provare ripugnanza ad addentrarsi nelle cupe foreste oltre il del Danubio – quasi egli, rappresentante di una civiltà ordinata e conquistatrice, avesse un’oscura ripugnanza davanti a quella plurima stratificazione d popoli e culture, mescolate e indistinte, testimoniata anche oggi da ciò che affiora negli scavi di Turnu-Severin Giro per la centrale elettrica, mescolandomi a scolaresche in visita d’istruzione, La centrale ha un’inesorabile grandiosità, suggerisce un epos minaccioso ed eroico; il documentario cinematografico che ci viene ammannito ne racconta la costruzione  e mostra titanici blocchi di pietra gettati nel fiume, lo spaccarsi e il fendersi delle acque, l’avanzare inarrestabile delle enormi ruote di camion. Abituati alla continua critica del progresso e preoccupati dagli squilibri ecologici, ci si sente sorpresi dinanzi  a questa saga da piano quinquennale, a queste immagini del trionfo della razionalizzazione e della tecnica sulla natura e ci si chiede se quelle acque incatenate dal cemento siano domate o soltanto represse e cupamente pronte a vendicarsi.
Ma quest’epica, che ricorda gli acquedotti romani, le strade tagliate da Tamerlano fra le montagne o gli elefanti d Kipling, ha una sua grandezza e una poesia sovrapersonale, che l’angosciata e certo comprensibile contestazione della tecnica, dalla quale è pervasa la nostra cultura, non c permette d avvertire. Forse bisognerebbe guardare a queste piramidi moderne senza enfasi progressista e senza terrore apocalittico, dando a ciascuno il suo, come Kipling che nei «Costruttori di ponti» fa parlare imparzialmente  gli ingegneri britannici e gli dèi indiani, celebrando e insieme relativizzando le fatiche d’Ercole del progresso. Il filmato, pur splendido e incisivo, non è esente da un’implicita retorica  di regime, neutralizzata peraltro  dagli scolari che, invano sgridati da belle e bonarie maestre, gettano petardi nel buio della sala d proiezione  e si prendono a sberle, ristabilendo l’equilibrio fra  la serietà del lavoro e l’impertinenza della vita.
Senza il chiasso irrispettoso di quei ragazzi, avrei probabilmente apprezzato meno quel pathos ciclopico. Un autobus ci porta a Kladovo, al confine bulgari. La geografia, per un occidentale sprovveduto, si fa sempre più vaga. Felix Hartlaub, lo scrittore tedesco che ha lasciato interessantissimi taccuini scritti "nell'occhio del tifone", ossia nei comandi militare della "Wehrmacht", osservava, quando era stato mandato in quella "giungla sudorientale" - che nella sua mente incominciava, dopo Belgrado, una nebbia confusa, che gli rendeva vaghe e imprecise quelle terre balcaniche in cui si trovava, e si chiedeva dov'era. E anch'io, aspettando l'autobus a Kladovo, mi chiedo dove sono.»

La scrittura di Claudio Magris è precisa, quasi scientifica, come usavano certi viaggiatori del Settecento allorché riferivano le tappe del Grand Tour attraverso l'Europa, riversando una eguale dose di curiosità sugli uomini, sulle cose, sui luoghi, sulle istituzioni e sulla cultura dei Paesi da essi visitati con scrupolo geografico ed etnologico.
Al tempo stesso, vi soffia la freschezza e l'attualità di una visione aperta della realtà; una visione benevolmente ironica e disincantata, ma non arcigna, anzi moderatamente poetica. Si direbbe che lo scrittore triestino, che con «Danubio» ha toccato - a giudizio di molti - il vertice della sua arte narrativa, porti nelle sue pagine qualche cosa della saggezza di un Ariosto o di un Rabelais, animata da quella umana simpatia verso i propri simili che è la chiave per entrare nel cuore dei loro problemi e per penetrare nell'anima dei luoghi..
Perché i luoghi descritti in «Danubio», per quanto possano essere affascinanti dal punto di vista paesaggistico, sono luoghi non solo carichi di storia, ma terribilmente problematici, tormentati, originali di quella originalità che nasce dalla sofferenza, dalla pazienza, dalla quotidiana convivenza con la difficoltà. Luoghi dove si sono incontrati tanti popoli e tante culture; dove si sono scontrate due grandi religioni, cristianesimo e islam; dove si sono combattute guerre di conquista fra vecchi imperi in declino e nuovi imperi in ascesa; dove la frammentazione etnica ha imposto confini sempre mutevoli e carichi di tensione, ma ha insegnato agli uomini - anche - il segreto della convivenza e della tolleranza.
Tuttavia, nella pagina di Magris, ci lascia un po' perplessi quella riflessione sulle gigantesche opere d'ingegneria moderna, che vuol essere spassionata e «senza enfasi progressista e senza terrore apocalittico, dando a ciascuno il suo»: ossia, riconoscendo la pari dignità «epica» e simbolica delle moderne Piramidi rispetto a quelle antiche. Perché, se è giusto che il viaggiatore tenga la mente, il più possibile, sgombra da pregiudizi, è altrettanto vero che egli non può ridurre il proprio ruolo a quello di assentire e giustificare tutto l'esistente. Un tale atteggiamento non sarebbe improntato ad  imparzialità, ma sarebbe ignavia.
E allora, forse, è il caso di dire che quel gigantesco canale scavato nel 1896 e realizzato penetrando nella roccia a colpi di dinamite, non ha affatto risolto il problema della navigabilità su quel tratto del Danubio, perché le navi dovettero continuare a passare solo con l'aiuto di un locomotore; e che la diga per la centrale idroelettrica realizzata 1972, oltre a far innalzare di 35 metri il livello dell'acqua e a far scomparire la gloriosa strada romana, costrinse ad evacuare cinque villaggi della riva (oltre all'abitato dell'isola Ada Kaleh, che preferirono trasferirsi in Turchia o in Dobrugia), per un totale di 17.000 persone, e con la perdita irreparabile di opere storico-artistiche quali la moschea del 1903, costruita sopra i resti di un antico monastero cristiano.
A parte la loro bruttezza, dunque, queste moderne Piramidi non hanno neanche saputo mantenere le promesse della loro tecnologia, e hanno imposto costi pesantissimi in termini di impatto ambientale e di distruzione del patrimonio storico e archeolgico (la stessa Tabula Traiana si è salvata a stento dalla sommersione).
E come non vedere che il colossale progetto congiunto iugoslavo-romeno altro non voleva essere che la celebrazione della megalomania dei due sciagurati dittatori, Tito e Ceausescu, le mani lorde del sangue dei loro popoli; così come altri uomini politici dei nostri giorni - per carità, molto lontano da qui e niente affatto dittatoriali - vorrebbero legare ad ogni costo il proprio nome a delle mastodontiche opere di ingegneria, ad esempio collegando una grande isola del Mediterraneo alla terraferma, quale sanzione ideale del proprio «insostituibile» ruolo storico?
A chi, essendo poco hegeliano, non crede all'«astuzia della Ragione» e dubita alquanto che lo Spirito Assoluto coincida con la marcia trionfale della Storia, non è poi così chiara l'equivalenza fra i vecchi e i nuovi dèi, postulata da Magris. Un tale osservatore non può fare a mano di osservare che le antiche divinità dei luoghi avevano un'anima; che ciascuna di esse - a cominciare, appunto, da quelle dei fiumi, grandi e piccoli - era un «genius loci»; e che la loro funzione principale era di tipo  tutelare, protettivo, verso le cose e verso le persone.
Ma quale divinità si cela fra i giganteschi blocchi di cemento armato di una diga costruita per alimentare una colossale centrale idroelettrica; o fra le gallerie scavate nella montagna, facendo saltare in aria, con l'esplosivo, milioni di metri cubi di viva roccia? Se un dio c'è, deve essere un dio cieco e idiota, come quelli - mostruosi - immaginati dalla allucinata fantasia dello scrittore Herbert Phillips Lovecraft.
Un dio dal quale nulla di buono dobbiamo attenderci; e che nulla potrà fare per noi, quando la civiltà tecnologia avrà raggiunto la propria Nemesi.

N. B.
Di Claudio Magris, germanista e scrittore assai noto, vincitore di prestigiosi premi letterari e il cui nome è stato fatto, nel 2007, quale possibile destinatario del premio Nobel per la Letteratura, non riteniamo il caso di dover qui fornire una nota biografica, rimandando il lettore a una qualsiasi buona opera recente di consultazione.
Ricordiamo, perciò, solo alcuni dei suoi libri più importanti: «Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna» (1963); «Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale» (1971); «Danubio» (1986, vincitore del Premio Bagutta); «Microcosmi» (1997, vincitore del Premio Strega).
Ricordiamo, infine, che Claudio Magris è stato senatore della Repubblica Italiana nella XII Legislatura, dal 1992 al 1994, dopo essere stato eletto nella Lista Magris (Gruppo Misto).