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Oggi è il 25 aprile.

di Alessandra Colla - 25/04/2009

 

Mi sento moralmente obbligata a dire qualcosa anch’io su questa kermesse necrofila che affligge puntualmente l’Italia ogni anno, da decenni, e me personalmente da tutta la vita.

Ci sono cresciuta, con la banda e i discorsi in piazza ricalcati sulle croste risorgimental-savoiarde: se mi ricordo l’ormai desueto Inno di Garibaldi è perché vanto anni di «Va’ fuora d’Italia, va’ fuora, ch’è l’ora; / Va’ fuora d’Italia, va’ fuora, o stranier!», che non c’entrava niente con la seconda guerra mondiale ma rendeva bene l’afflato patriottico di un popolo oppresso eccetera eccetera.

In questi giorni, fra le non molte voci di chi vorrebbe abolire questa festa nazionale, sento qualcuno che indica il 25 aprile 1945 come la data di svendita dell’Italia agli Stati Uniti: dissento. Credo che il mercimonio fosse già stato deciso l’8 settembre 1943 — grazie ai Savoia, se qualcuno se lo fosse dimenticato. La data del 25 aprile, forse, ufficializza soltanto la transazione. Ma non è per questo che anch’io la vorrei abolire.

Conosco persone che hanno perso la famiglia per mano partigiana; ma ne conosco altre che l’hanno persa per mano nazifascista (come si usava dire ai miei tempi e forse si usa ancora). Persone di sinistra si sono interrogate sugli orrori commessi da alcuni partigiani; persone di destra hanno fatto lo stesso con altrettanti orrori commessi da alcuni fascisti. (I nazisti non li prendo neanche in considerazione perché: a) non me ne frega niente; b) non sono roba mia).

A quanto pare, non c’è famiglia italiana che non abbia portato il lutto per un caduto, familiare o amico, in quella che fu una guerra civile spaventosa e soprattutto odiosa come possono esserlo tutte le guerre civili. Questo significa che la parte che ha vinto ha vinto a spese e a scapito di un’unità nazionale evidentemente tale soltanto sulla carta o nei discorsi ampollosi dei retori strapaesani. E significa pure che l’Italia del dopo-25 aprile si è automaticamente e ineluttabilmente spaccata a metà in un’Italia di serie A e un’Italia di serie B — quest’ultima costretta a mendicare il permesso di poter continuare a vivere perché colpevole di aver scelto “la parte sbagliata”.

Ora, non esiste una parte giusta e una parte sbagliata — non siamo topi di laboratorio in un labirinto: direzione giusta = formaggio, direzione sbagliata = scossa elettrica. Esiste la scelta, che per essere operata autonomamente comporta una conoscenza delle conseguenze e un’assunzione di responsabilità; esiste la scelta nella sua dimensione civile ed etica, anzi azzarderei persino estetica: e se è vero com’è vero che non siamo tutti uguali anche l’etica e l’estetica sono questioni personalissime.

Si continua a invocare la pacificazione: ma senza il riconoscimento di quella spaccatura non è, non sarà possibile. Perché senza quel riconoscimento il 25 aprile continuerà ad essere la festa di chi, avendo vinto, non si sarà per nulla preoccupato di parcere victis ma i vinti li avrà continuamente umiliati, disconoscendone la dignità per reificarli e renderli non-persone (ce lo ricordiamo tutti che “uccidere un fascista non è reato”, non è vero?); continuerà ad essere la festa di una parte soltanto del popolo italiano, non già dell’Italia nazione.

E l’assurda proposta di voler equiparare i militari in divisa della Repubblica Sociale Italiana ai partigiani denota l’incomprensione e la malafede che vi sono sottese e che costituiscono la cifra di una vulgata, come già denunciava Renzo De Felice, responsabile di molti e gravi guasti.

Mi piacerebbe, dunque, che si abolisse il 25 aprile, che non è festa di popolo ma, lo ripeto, festa partigiana par excellence — festa di una parte della popolazione, e in nessun caso di un popolo nella sua interezza e integrità di Volk.]

Domani è il 26 aprile.