Troppa pesca dopo lo tsunami?
KARIMA ISD , Una corsa a chi regalava, costruiva o faceva costruire più battelli da pesca di tutti gli altri: anche questo si è verificato dopo la tragedia dello tsunami. Le migliaia di organizzazioni internazionali e locali che con fondi pubblici e privati si sono precipitate in quei luoghi hanno avuto una parola d'ordine: «ridare le barche ai pescatori superstiti». Risultato: di tutto di più, tecnologia inadatta, improvvisazione. Del resto, secondo la Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l'alimentazione e l'agricoltura), l'onda anomala del 26 dicembre 2004 uccise 35 mila pescatori e distrusse circa 111 mila battelli. Il settore della pesca, è stato calcolato, ha perso circa 520 milioni di dollari. Il troppo è nemico del bene. A una conferenza internazionale sulla pesca svoltasi giorni fa a Sidney, Lahsen Ababouch, capo della task force pesca-tsunami messa in piedi dalla Fao, ha attirato l'attenzione su due pericoli derivanti da operazioni affrettate. Il primo è l'uso di battelli poco sicuri. Un ispettore della Fao in Indonesia ha assistito al varo di barche donate che dopo 30 minuti imbarcavano, appunto, acqua... Oltre ai doni «avvelenati», di attrezzature vecchie o non efficienti, si è assistito a una forsennata improvvisazione: ogni carpentiere prima specializzato in sedie e tavoli si è mutato in costruttore di barche per ordine di organizzazioni di aiuto o comunità, dato che il denaro internazionale veniva donato per questo scopo preciso.
Secondo allarme della Fao: «Ci saranno così tante barche a caccia di poco pesce; questo porterà al collasso dello stock di pesci nella regione». Insomma, il problema dell'overfishing potrebbe accentuarsi una volta ripreso il ritmo dei prelievi. E si tratta di un fenomeno che aumenta la vulnerabilità generale: un eccesso di pesca ai danni di pesci erbivori ha favorito, insieme all'inquinamento, la proliferazione delle alghe che hanno danneggiato la barriera corallina. Quella che, se fosse stata integra, avrebbe aiutato a proteggere contro lo tsunami - insieme alle mangrovie costiere, se fossero state integre.
L'allarme, ripreso dal sito «specializzato» www.tsunami2004-india.org, non è nuovo. Lo scorso marzo l'aveva già lanciato il Wwf: fu quando l'Unione europea decise di mandare in Asia a titolo di aiuto le barche da pesca che erano state ritirate dalla flotta europea per limitare l'eccesso di pesca. L'organizzazione ambientalista aveva fatto notare che l'esportazione in quelle aree di metodi di pesca europei avrebbe colpito l'equilibrio ecologico, e che sarebbe stato di gran lunga meglio l'appoggio all'industria «navale» locale (ma i ministri europei risposero che l'opinione pubblica dei loro paesi non poteva accettare la distruzione di barche europee mentre ce n'era tanto bisogno nei luoghi dello tsunami...). E nello scorso luglio, S. Ephrem, dirigente della Federazione dei pescatori dell'India meridionale (Siffs), dichiarava preoccupato a indiadisasters: «Il mare non è diventato più grande a causa dello tsunami, però adesso ci sono molte più barche da pesca di prima! Molte di più, oltre che spesso di cattiva qualità».
L'espansione della flotta sembra comunque essere avvenuta soprattutto nel settore artigianale, il che pone meno problemi di pressione sulle risorse ittiche rispetto alle reti a strascico e ai grandi battelli; insomma, si porrebbe più un problema sociale che ecologico: se più barche e pescatori devono dividersi quel che c'è in mare, ci sarà una riduzione delle catture individuali (per barca) e quindi dei ricavi. Ma se una simile espansione della flotta avvenisse nel campo della pesca commerciale su grande scala e con reti a strascico che rendono il fondo del mare un deserto, ciò sarebbe distruttivo da tutti i punti di vista. Dunque, l'occasione andrebbe colta per incoraggiare l'abbandono della pesca a strascico. Non è quello che ha fatto il governo (indiano? indonesiano? srilanka?), dando ai pescatori contributi per le riparazioni, piuttosto che somme per ricollocarsi altrove.
da "il manifesto" del 24 Settembre 2005 | |
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