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1929-2009: la crisi allo specchio

di Maurizio Ricci - 06/05/2009

      
 
 
 
Basandosi sull’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale, Maurizio Ricci illustra il forte parallelismo fra la Grande depressione del 1929 e la crisi economica globale scoppiata nel 2008. Le cause sono simili e l’innesco della crisi identico: in entrambi i casi vi è stata una veloce crescita del credito e la creazione di nuovi prodotti finanziari che hanno favorito un forte indebitamento e reso fragile il sistema finanziario. Secondo il Fmi anche gli effetti immediati della crisi sono uguali: le banche svendono i titoli che possiedono, non forniscono più prestiti e chiedono ai loro debitori di restituire quelli erogati in passato. La grande differenza fra le due crisi, afferma Ricci, è che oggi i governi sono intervenuti con grande decisione appena la crisi si è resa evidente: la grande iniezione di liquidità ha, per il momento, attenuato la virulenza socio-economica della crisi rispetto al 1929. Ma, conclude Ricci, è ancora troppo presto per capire se questi correttivi innescheranno a breve una ripresa dell’economia.

A settembre, avevamo visto, nelle vie di Manhattan, i broker della Lehman Brothers, con l’occhio sperso nel vuoto e le braccia che circondavano i cartoni, pieni delle carte, degli oggetti, delle fotografie che avevano riempito le loro scrivanie, mentre abbandonavano gli uffici, dopo il crack del gigante della finanza. Ma non li abbiamo visti, il giorno dopo, a vendere mele all’angolo della strada, come i loro nonni, operatori di Borsa, nell’inverno del 1929. Un anno prima avevamo visto la fila di inglesi reclamare i loro depositi fuori dalle vetrine della Northern Rock e, qualche mese dopo, quella degli americani fuori dagli uffici californiani di Countrywide. Ma non abbiamo visto l’assalto agli sportelli che, nel maggio 1931, portò al collasso una banca come la Creditanstalt e, con essa, mezza economia tedesca. Insomma, la crisi in cui il mondo si trova è grave, ma è ancora solo una Grande Recessione [...] lontana dal buio del 1929? Meglio non essere troppo ottimisti. Secondo gli economisti del Fondo monetario internazionale, i primi a fare un paragone sistematico e puntuale fra il 1929 e il 2008, le due crisi sono uniche nel loro genere nell’ultimo secolo e sono straordinariamente simili per cause, profondità ed effetti. L’unica vera, grande, differenza è che, questa volta, Roosevelt è arrivato prima. Anzi, subito. Ma, soprattutto se si guarda all’economia mondiale, e non solo a quella americana, è ancora presto per dire che la risposta della politica e dei governi alla crisi sarà sufficiente ad evitare il peggio.
Nel World Economic Outlook che hanno appena presentato, gli economisti del Fmi spiegano che le due crisi sono ambedue esplose al centro dell’economia mondiale, nascono da una tempesta finanziaria e hanno un impatto globale.
Queste tre caratteristiche ne fanno una categoria a parte, nella storia delle crisi economiche e, contemporaneamente, rendono più difficile e penoso uscirne. L’innesco, nel 1929 e nel 2008, è identico: la rapida espansione del credito e la creazione di nuovi prodotti finanziari hanno portato ad un indebitamento troppo facile, che ha reso il sistema vulnerabile a improvvisi rovesci. In tutt’e due i casi, abbiamo pagato un eccesso di ingegnosità degli uomini della finanza. Il 2008 è stato il boom dei mutui immobiliari, dei crediti impacchettati alla rinfusa nei titoli-salsiccia, come i Cdo, spesso presentati come garanzia per ottenere prestiti a tassi stracciati, chiesti per comprare altri Cdo. Niente di nuovo. Il 1929 non fu da meno: boom degli acquisti a rate, azioni comprate anche dai lustrascarpe, finanzieri che compravano in Borsa a credito, dando come garanzia gli stessi titoli che compravano e anticipando solo il 10 per cento dell’investimento. Sia allora, che oggi, la finanza si è trovata in ginocchio, in crisi di liquidità e di finanziamento. In due parole: pochi soldi in cassa e poche possibilità di trovarne.
Dopo il 1929, la finanza si trovò a corto, perché la gente corse in massa a ritirare dalle banche i depositi, su cui si reggeva tutto il castello del credito. Il 10 dicembre 1930, il sindaco di New York dovette chiamare la polizia a cavallo sul Southern Boulevard, nel Bronx, per respingere l’assalto dei depositanti alla filiale della Bank of the United States. Era l’avvio della prima di quattro ondate di assalti agli sportelli che, entro il 1933, avrebbe portato al fallimento un terzo delle banche americane. Questa volta, niente del genere: nessuna corsa disperata a ritirare il conto in banca. O, invece, sì? Invece, sì, rispondono gli economisti del Fondo. L’assalto agli sportelli c’è stato, anche se non è avvenuto per strada, grazie all’assicurazione sui depositi dei correntisti, ma nell’ombra discreta degli uffici e dei terminali dei computer. Perché, oggi, il castello del credito, più che sulla base di depositi in cassaforte, si regge, grazie al sistema finanziario ombra creato in questi anni, sugli investimenti in titoli e crediti degli stessi istituti. La crisi dei derivati ha avuto gli stessi effetti della erosione dei depositi: banche e finanzieri non si fidano più a prestare soldi a chi non sanno se potrà restituirli. [...]
Gli effetti, raccontano gli economisti del Fmi, sono identici: le banche vendono a prezzi sempre più stracciati i titoli in cassaforte, si attaccano come Arpagoni ai pochi soldi liquidi su cui riescono a mettere le mani, chiedono ai debitori di restituire i prestiti e prestano sempre meno, facendosi pagare più caro possibile. Le tabelle dell’Outlook raccontano, mese per mese, a partire dal momento di massima espansione dell’economia (luglio 1929, rispettivamente, e dicembre 2007) un avvitarsi della crisi, anche peggiore, oggi, rispetto allo stesso momento nella crisi del 1929. L’ammontare dei crediti erogati dalle banche commerciali, nonostante un picco nello scorso autunno, si restringe anche più rapidamente che nel 1929. La volontà di prestare [...] scende alla stessa velocità. Il risultato è la tabella più inquietante: lo spread fra le obbligazioni delle aziende con un rating Baa e i titoli del Tesoro. In altre parole, quanto un’azienda sana (Baa è un certificato di salute a cui, per esempio, in Italia non arrivano Fiat e Telecom) deve pagare in più, di interesse, per convincere la gente a investire nelle sue fabbriche, piuttosto che nella sicurezza di un Buono del Tesoro a 10 anni. Questo sovrapprezzo è molto più alto che ai tempi della Grande Depressione, almeno prima delle ondate di assalti agli sportelli delle banche.
Il rischio è quella che gli economisti chiamano «deflazione del debito». Cioè il processo per cui, visto che prezzi e redditi scendono, il costo di un prestito è, in termini reali, più alto del suo tasso nominale. È il motivo per cui un memo interno della Federal Reserve, ha rivelato il Wall Street Journal, calcola che, in teoria, il tasso di interesse base, negli Usa, dovrebbe essere, a conti fatti, se solo fosse possibile, meno 5. Esatto, meno: ci dovrebbe essere un premio per chi accetta di prendere soldi a prestito. Tuttavia, questa deflazione del debito, puntualizza il Fmi, non si è ancora verificata. Perché è intervenuta la cavalleria di Obama, a riempire il buco di quel meno 5. Lo raccontano già quelle tabelle, indicando, negli ultimissimi mesi, un’inversione di tendenza, che ci allontana dalla traiettoria del 1929. Invece di assistere passivamente all’implosione, come allora, governo e banca centrale si sono mosse con estrema decisione. Dopo un anno di crisi, la liquidità immessa nell’economia, invece di restare, più o meno, uguale, è aumentata del 20 per cento. Il risultato è che deflazione e depressione non si sono innescate. Nell’ottobre 1930, a 15 mesi dall’inizio della crisi, quando iniziavano gli assalti agli sportelli, i prezzi al consumo erano già crollati del 6 per cento, rispetto ad un anno prima, la produzione industriale del 25 per cento. A febbraio 2009, dopo 14 mesi di crisi, i prezzi al consumo sono fermi e la produzione è scesa della metà, il 12 per cento.
È poco, e presto, per tirare un respiro di sollievo. [...] c’è il rischio che l’analisi del Fmi, concentrata sui dati Usa, abbia perso di vista che questa, nell’era della globalizzazione, è anzitutto una crisi globale. Barry Eichengreen, economista a Berkeley, ha provato a rifare i conti del Fmi, ma a livello mondiale. Il risultato è che la crisi globale è oggi più dura e severa che all’epoca della Grande Depressione. Nei primi nove mesi di crisi, la produzione industriale mondiale è scesa più in fretta di allora. Le borse mondiali non sono crollate, come allora, sono proprio colate a picco. Soprattutto, il commercio mondiale - da molti individuato come uno dei motori principali della crisi degli anni ‘30 - sta scendendo a candela, molto più rapidamente. Anche per Eichengreen, comunque, la risposta globale dei governi è stata molto più incoraggiante. I tagli ai tassi di interesse, il pompaggio di liquidità nel sistema, gli interventi di spesa pubblica dei governi sono stati nettamente più audaci e consistenti. Il problema, osserva Eichengreen, è che siamo ancora all’anno 1 della crisi. Dopo il 1929, l’economia mondiale continuò a contrarsi per tre anni.